Babylon è “così brutto da far venire il mal di testa”. Questo il titolo con cui la giornalista Eileen Jones ha deciso di presentare ai lettori di Jacobin l’ultimo film di Damien Chazelle, il regista premio Oscar per La La Land. Jones ha definito la pellicola un “assalto ai sensi” in quanto, a suo dire, visivamente brutta e incapace di restituire un’immagine fedele della Hollywood di inizio Novecento.
Prima di vederlo, ho schivato con cura tutti gli articoli e i post su Babylon, perché non volevo essere condizionata dai commenti degli esperti del settore.
Non volevo essere distratta da analisi cervellotiche sull’angolazione più o meno riuscita delle inquadrature, sulla sceneggiatura superficiale o troppo artificiosa, oppure sui costumi effettivamente coerenti con la moda degli anni Venti e Trenta del secolo scorso.
Volevo solo scoprire che effetto mi avrebbe fatto questo film di cui tutti parlavano, ma che nessuno sembrava aver apprezzato. E mi è sembrato di essere risucchiata dentro a un altro mondo per tre ore, per poi esserne sputata fuori al termine del film, con il solo desiderio di tornarci e vivere ancora un po’ quella follia.
Il mondo di Babylon
Babylon racconta il mondo di Hollywood tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, ovvero quando il distretto di Los Angeles si stava affermando come “La Mecca del cinema”. I personaggi che cercano di sopravvivere in questa giungla sono tantissimi, ma quelli su cui decide di focalizzarsi Chazelle sono quattro.
L’attrice emergente Nellie LaRoy (Margot Robbie), il ragazzo tuttofare Manny Torres (Diego Calva), il divo del cinema muto Jack Conrad (Brad Pitt) e il trombettista Sidney Palmer (Jovan Adepo). Sono personaggi molto diversi sia per carattere, sia per collocazione all’interno della trama, ma sono accomunati da un desiderio: vivere la Hollywood del successo, ed esserne per sempre protagonisti.
Questo è tutto quello che mi sento di dire a proposito della sceneggiatura di Babylon, il cui nucleo fondamentale si esaurisce nel tema della brama della celebrità, già affrontato in moltissimi altri prodotti cinematografici. E Chazelle lo sceglie come pretesto per raccontare lo sfondo su cui quelle aspirazioni si manifestano.
I protagonisti non sono i personaggi in carne e ossa che vediamo sullo schermo, ma è il cinema stesso o, per meglio dire, il sistema del cinema, inteso come insieme dei gusti del pubblico e della critica, delle logiche del mercato e delle innovazioni tecnologiche che dettano le regole a Hollywood.
Dittatore Hollywood
Hollywood è una Babilonia di perdizione, gloria, decadenza, determinazione e fortuna; è l’elefante che fa il suo ingresso incerto alla festa di un produttore cinematografico all’inizio del film, ma è anche la commozione al termine di una ripresa la cui riuscita sembrava impossibile.
Hollywood sembra un dittatore che detta le sue regole e a cui tutti devono sottostare per avere la possibilità di realizzare il loro sogno; è la macchina che alla fine schiaccia tutti, perfino chi credeva di aver contribuito a creare il cinema, come l’attore Jack Conrad.
La critica più frequente è che i personaggi siano poco approfonditi e costantemente in balia degli eventi, e forse in questo senso mi viene da dire che si tratti piuttosto di un apprezzamento per la coerenza intrinseca di questo film.
I personaggi sono poco approfonditi perché sono un semplice espediente narrativo per parlare di ciò che li circonda; se sembrano vittime degli eventi, è perché effettivamente lo sono.
Riuscite imperfezioni
Tuttavia, è innegabile che in Babylon ci siano moltissime imperfezioni, tra cui spiccano le inesattezze storiche nei costumi e nelle acconciature, che sembrano un mix di capi presi in prestito tra quelli più in voga su Shein, assieme ad altri provenienti da una serata di gala del 2022, con capigliature figlie dei tutorial su TikTok.
Jack Conrad e Nellie LaRoy sono solo gli alter ego di Brad Pitt e Margot Robbie, che si sono trovati a dover interpretare due personaggi rispetto ai quali il margine di immedesimazione era molto limitato, forse proprio perché il cinema di oggi, nel profondo delle sue ciniche logiche, non è tanto diverso da quello degli anni Venti.
Chazelle non vuole riproporre in modo passivo l’eleganza dei film di inizio secolo scorso, in stile Luci della città di Chaplin o Via col vento: sarebbe stata una battaglia persa in partenza e probabilmente uno sforzo inutile, in quanto quell’atmosfera sarebbe impossibile da ricreare, anche solo per il fatto che oggi guardiamo i film dell’epoca con il nostalgico sguardo del futuro.
Così, in Babylon abbiamo sempre l’impressione di essere dentro a una rappresentazione estremamente contemporanea e per certi versi volutamente inesatta, luccicante e allo stesso tempo sgradevole.
Una “nota” sulla colonna sonora
In questo mondo euforia e disperazione si susseguono trasportate dalle note della spettacolare colonna sonora di Justin Hurwitz. I brani riprendono lo swing degli anni Trenta e sembrano captare alcuni elementi tipici della musica di Avicii o degli Ofenbach, o più in generale della disco music degli anni Duemila.
Questa fusione incredibilmente riuscita, originale e lontana dal piatto revival di due generi separati da cento anni di storia, ha fatto sì che, da quando ho visto Babylon, le mie giornate siano scandite dalle note di Call Me Manny o Voodoo Mama, due tra i pezzi più riusciti di Hurwitz.
Dal muto al sonoro
Alla musica viene dato un ruolo fondamentale anche quando si arriva allo snodo centrale del film: il passaggio dal cinema muto a quello sonoro. Si tratta del momento che cambia drasticamente le sorti di tutti i personaggi, portando alcuni alla ribalta, altri a un lento e inesorabile declino.
È un pezzo di storia del cinema capitale e molto affascinante anche per questa sua doppia implicazione; perciò, va da sé che per raccontarlo ci fosse bisogno di operare una scelta di prospettiva non facile.
Chazelle, forse consapevole che la delicatezza e la profondità di The Artist nell’affrontare il tema del passaggio dal muto al sonoro fossero impossibili da replicare, ha deciso di focalizzarsi sul nervosismo causato da questo cambiamento radicale nel modo di fare cinema, cambiando in modo progressivo anche il ritmo e la gravità dei pezzi di Hurwitz.
A mio parere, è magistrale e di grande impatto la lunghissima sequenza in cui Nellie si trova sul set per girare il suo primo film sonoro.
Dagli infiniti spazi del deserto californiano in cui allo stesso tempo si giravano dieci film diversi senza la preoccupazione delle interferenze audio, si passa al caldo soffocante di un ambiente chiuso in cui il minimo rumore costringe a dover ripetere la scena da capo.
Col passare del tempo il nervosismo si trasforma in esasperazione per l’incapacità di gestire uno strumento così nuovo, rivoluzionario e apparentemente indomabile. In questo passaggio Nellie LaRoy cade, e cade anche Jack Conrad. Chi resta in piedi? Chi cadrà al prossimo giro.
Hollywood toglie, Hollywood dà
Nonostante tutto questo cinismo connaturato allo star system, Hollywood continua a far brillare gli occhi di chi la sogna, come di chi la vive e forse un po’ si disprezza per come è diventato per poterci sopravvivere. È il luogo in cui il lato animalesco e le perversioni sono l’altra faccia dell’arte e della poesia, perché non possono esistere le une senza le altre. E Hollywood è anche la terra degli ingenui.
Quando Manny e Nellie si incontrano per la prima volta, lei gli domanda perché voglia fare cinema e lui risponde: “Perché voglio far parte di qualcosa di più grande”. È una risposta semplice, che mille altre persone hanno dato prima di lui, e che allo stesso tempo mostra quanto la passione per l’arte sia tanto più sincera quanto più è banale e scevra di congetture.
Tuttavia, da amante delle congetture quale sono, ho trovato particolarmente significativo ciò che in una scena del film la giornalista di gossip Elinor St. John dice a Jack, che non accetta di essere arrivato alla fine della sua carriera, a proposito della magia del cinema.
Gli dice che è un mondo che non ha bisogno di divi per esistere e che non si ferma per compiangerli quando svaniscono; esige l’abbandono al lato selvaggio e senza regole che alberga in ognuno di noi, ma in cambio trasforma chi lo ha abitato in un fantasma dal volto eternamente riconoscibile, le cui mille vite tornano a scorrere ogni volta che viene messa in moto una sottile pellicola di cellulosa.
Matilde Catelli
(In copertina e nell’articolo immagini tratte dal film Babylon)
Leggi anche l’opinione di Enrico Scarsella di Sistema Critico sul film di Chazelle; approfondisci il mondo di Babylon con la nostra recensione di C’era una volta a Hollywood, a cura di Ester Alma Romiti.