Il Festival di Sanremo, che sia un appuntamento atteso da molti o un programma ignorato da tanti, è un monumento della cultura musicale e radio-televisiva italiana. In quanto tale, non può non essere un potente catalizzatore di aspettative e di critiche: interessati o no, per una settimana all’anno è al centro dell’attenzione e del dibattito pubblico, risultando inevitabilmente incisivo.
Questa pubblicità crescente negli anni ha fatto sì che il palco dell’Ariston non fosse solo il luogo del Festival della canzone italiana, ma anche e soprattutto lo specchio di una società e la piattaforma attraverso la quale ad essa ci si può rivolgere avendone assicurata l’attenzione.
Se Sanremo “non è più come una volta”, questo si deve al fatto che ciò che esso si candida a rappresentare, celebrare, anche criticare, è – per fortuna – vitale, in cambiamento, fluido.
La potenzialità del Festival – e il rinnovato successo che le ultime edizioni hanno registrato – è tutta qui.
Sanremo non è solo una competizione di cantanti, non lo è mai stato e soprattutto non può esserlo oggi, in una fase storica, sociale, politica in cui il privato diventa pubblico, nel senso non di mancanza di riservatezza quanto di rilevanza collettiva, e in cui la musica ambisce a diventare veicolo di contenuti e messaggi sempre più “politici” in ampia accezione.
È necessario oggi parlare, cantare, urlare di razzismo, omofobia, sessismo, guerra, e poi anche di rispetto, amore, femminismo, valorizzazione, pace: se il palco dell’Ariston permette di sensibilizzare un pubblico ampio, utilizzarlo non vuol dire strumentalizzare un’occasione altra, ma calarsi nella realtà dei fatti, ben lontana dall’idilliaca settimana sanremese che ci si ostina a voler preservare.
Sanremo che vai, polemica che trovi
È chiaro che le prese di posizione, soprattutto di fronte a milioni di spettatori, turbano gli animi e suscitano polemiche.
Si richiamano i tempi passati, quando i concorrenti erano ben vestiti, educati e cantavano di amore (quello tradizionale, si intende), si criticano gli ospiti, inadatti al contesto, e i loro interventi, troppo profondi e bui per l’Ariston, si invoca la verginità del Festival della canzone italiana – contro la contaminazione che la sinistra ne vuole fare. Perché Sanremo è Sanremo, non lo si può far diventare qualcosa d’altro.
Quindi la canzone di Rosa Chemical veicola una “propaganda gender” ed è inaccettabile per quello che è e deve rimanere: “l’emblema della tv tradizionale convenzionale”. Chiara Ferragni è solo in cerca di visibilità e il suo non è un “vero” discorso femminista; Paola Egonu è affetta da una sindrome di vittimismo perché in fondo, si sa, non si può dire che l’Italia sia un paese razzista, e lei, donna e straniera – o forse italianissima? –, deve solo ringraziare la “nostra” nazionale.
L’espressione dell’amore libero, in tutte le sue forme, e la rivendicazione della sua legittimità, a fronte di quotidiani episodi di odio e violenza sui quali le istituzioni mancano di esprimersi.
L’esigenza di raccontare, definire e condannare le disparità ideologiche, discorsive e materiali che corrono lungo la linea di genere in una società che ha la presunzione di definirsi paritaria.
Il bisogno di denunciare la condizione di donna razzializzata in un paese che fa pesare ogni giorno sulla pelle la differenza del colore.
Questi sono i temi che hanno scaldato il dibattito, scandalizzato parte dell’opinione pubblica e sollevato voci sulla evidente degenerazione della tradizionalità del festival.
Progresso? Sì, ma non troppo
Eppure, Sanremo non è ancora il manifesto del progressismo o della sinistra, anche se qualcuno non è d’accordo: pur avendo finalmente raggiunto la banale conquista del mazzo dei fiori in regalo a tutti i concorrenti indipendentemente dal genere, le co-conduttrici conservano un ruolo di mero affiancamento come appendici sfavillanti, mentre le ospiti sono invitate a tenere monologhi (realmente) toccanti, che – c’è necessità di sottolinearlo – “hanno scritto da sé”, in estemporanei momenti di riflessione che garantiscano alla scaletta un’aura impegnata.
D’altra parte, Sanremo è Sanremo, il Festival rimane il programma della “tradizione“ italiana e, come nelle altre cinquantuno settimane, i passi da compiere sono ancora molti.
Tuttavia, Sanremo riflette l’Italia ed è ad essa che vuole rivolgersi: portare sul palco dell’Ariston i temi e le necessità che infiammano la vita quotidiana in questo Paese significa fare qualcosa di rivoluzionario.
Dare loro un’espressione artistica con una potenza performativa erompente diventa in senso proprio un atto politico.
Sanremo siamo noi
Allora non è corretto affermare che il Festival di Sanremo è politicizzato, ma è vero che è politico, nella misura in cui oggi, più che ieri, il personale è politico e il politico è personale: proprio questa politicità è la causa e insieme la conseguenza del successo del Festival, e condannarla significa pretendere di vivere a compartimenti stagni.
Supporre che la musica debba essere solo ricreativa, ipostatizzare la politica in un mondo a sé, in definitiva non comprendere le interazioni, i legami, la complessità della vita in società.
Proprio la nostra Costituzione, celebrata dal monologo appassionato ed emozionante con cui Roberto Benigni ha aperto la presente edizione – un momento reso davvero “nazionale” dalla presenza del presidente –, onora la creatività ed è essa stessa un’ “opera d’arte”.
I padri e le madri costituenti hanno appositamente lasciato l’ultima pagina bianca, “da scrivere con la nostra vita”: anche la musica è un modo per scrivere questa pagina, uno dei mezzi mediante i quali “ciascuno è libero di manifestare il proprio pensiero” recita il ricordato articolo 21 e, come tale, ha un valore concretamente “politico“.
E anche se Sanremo è Sanremo, non può non esserne la più ampia espressione.
Eleonora Pocognoli
(In copertina Chiara Ferragni, Amadeus e Gianni Morandi)
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