“Così in terra” è il titolo del nuovo romanzo di Patrick Fogli (Mondadori, 2022). Il protagonista della storia si chiama Daniel ed è un Cristo senza fede, e come lui sta in cielo, vive nell’impasto di sangue, fango e buio della terra.
È sempre stata un’opinione abbastanza discussa, quella di ritenere scrittore chiunque abbia una storia da raccontare. Tanto discussa da tralasciare invece un particolare forse più importante: essere scrittori significa raccontare bene una storia. Qualsiasi storia. Ma raccontarla bene.
Come poi è stato ampiamente analizzato, raccontare bene una storia non può essere l’unica caratteristica di un bravo scrittore, o per lo meno, non può essere stato sempre così. In letteratura antica, ciò che è contato è sempre stato riferire un messaggio.
La letteratura prima di oggi
Si pensi a Dante e all’allegoria religiosa di Beatrice, attorno alla quale è stata costruita la base della letteratura italiana; a Petrarca, il cui messaggio in risposta alla corrente di pensiero che seguiva la fede prima che il sentimento amoroso non fu che di essere carne e sangue, e quindi uomo prima che poeta.
Oppure, si pensi a Boccaccio e al suo grido di abbandono di quella religione che durante la peste non aveva aiutato se non a comprendere la solitudine nella morte, anche dopo una vita che ci è sembrata importante.
Nella letteratura del Novecento, i messaggi a sostegno di ideali hanno lasciato spazio alle storie, quelle degne di essere raccontate. Chi sono i ragazzi di vita, dove si trova l’allegria dei naufragi, quanti sono gli indifferenti, cos’è stata la peste, la noia, la nausea. Quanto tempo sono cent’anni di solitudine?
E infine si arriva al panorama della letteratura contemporanea, quella dentro cui viviamo e che assaporiamo, e ci si rende conto che anche la storia importante, come il messaggio in cui si credeva tempo fa, ha lasciato il posto, semplicemente, all’uomo. Allo scrittore.
Lo scrittore di oggi, specchio del nostro mondo basato su individualità e percorsi intricati in cui si cammina apparentemente insieme, se non da soli, solo per competizione. Sta tutto nella miscela che vede da una parte un libro che debba essere un prodotto vendibile per un pubblico che ha l’arroganza – e l’ignoranza – di sapere già cosa vuole leggere, e dall’altra quella che mette al primo posto, dopo il pubblico, l’autore e il suo desiderio di mascherare il barocco che lo fa sentire sicuro in un gran dono di narrazione.
Per questo, quando ho letto Così in terra di Patrick Fogli (Mondadori, 2022), sono rimasta delusa.
I diversi
Daniel è un bambino diverso dagli altri, come tutti i protagonisti di una storia che si rispetti e che miri all’immedesimazione, perché tutti noi, in un qualche modo, ci sentiamo diversi dagli altri, e tutti noi, dentro, vogliamo sentirci unici.
E ciò, se ci si pensa, entra in contrapposizione col bisogno disperato di far parte di qualcosa che ci faccia sentire compresi, condivisi con una realtà a cui sentiamo di appartenere.
Riuscire a raccontare la storia di un diverso è ciò che c’è di più impegnativo nel panorama della letteratura di questi tempi, e la difficoltà del compito è data proprio dalla banalità dello scheletro della storia.
Diverso è già stato Harry Potter, sono stati I Malavoglia, è stata L’amica geniale, è stato L’Orlando Furioso. È stato Paperino, o un qualsiasi supereroe dei fumetti. E, infine, ultimo ma decisamente non meno importante, che chi ne parli sia o meno credente, Cristo. Cristo è stato il protagonista più diverso di tutti.
Per questo appiccicare alla figura di Cristo una storia adattata a questa società e questa attualità sarebbe stata un’impresa impensabile per chiunque avesse progettato un solo libro, e non una storia complessa da analizzare in più libri.
Nell’era in cui addirittura i film, protagonisti che avevano adombrato la carta, lasciano spazio alla nuova realtà delle serie TV, in cui l’emotività dei personaggi ha più spazio – tempo per essere analizzata, la storia di Daniel avrebbe dovuto essere narrata in almeno tre libri, dando profondità ai personaggi e alle azioni, invece che unicamente alla profondità stessa del protagonista.
Troppe analisi che non raggiungono una fine, troppi pensieri focalizzati solo sulla superficialità della solitudine, e poco, davvero poco, sulla realtà di quei sentimenti di confusione.
Le responsabilità di un narratore
In questo mondo, in questo momento storico, l’analisi sterile dell’emotività petrarchesca, quella che è bella da leggere ma davvero poco profonda quando si va oltre al concetto di bellezza descrittiva delle sensazioni, è poco utile. Le responsabilità di un narratore, più che di uno scrittore, sono dare una visione il più possibile completa dei personaggi che crea. Chi è davvero Daniel? Chi è sua madre? Cosa prova quando non è il prescelto? Non c’è nemmeno un momento in cui Daniel pensi davvero di poter rivelare la sua identità?
Nemmeno un istante in cui, prima di sacrificarsi, perda la dignità per istinto di sopravvivenza volendosi salvare? Cosa rende padre Simone un personaggio chiave nel racconto, che non sia il suo ruolo di confessore? Perché Suor Anna addirittura si laicizza dopo aver scoperto la vera natura di Daniel? Quando è possibile vedere in Daniel solo l’umano e non, come è sempre rappresentato, il prescelto?
Nella sostanza, cosa rende Daniel Cristo, che non sia la storia di Cristo, unica e sicuramente non imitabile? Cristo aveva la fede, anche nei momenti più bui; come ogni protagonista ha qualcosa a cui aggrapparsi che sia per lui casa. Che significhi per lui la sua essenza. E Daniel cos’ha, chi è?
Un qualcosa che non si può non spiegare, o per lo meno, un peso che si deve consegnare al lettore più consapevolmente.
Elettra Dòmini
(In copertina a Così in terra di Patrick Fogli, Iswanto Arif da Unsplash)
Per approfondire leggi anche il resoconto da un incontro con Patrick Fogli, e tutte le nostre recensioni di libri.