Shein è al centro di infuocate polemiche per i suoi metodi di produzione e distribuzione decisamente discutibili, che minacciano le persone e il pianeta. Nonostante ciò, le sue vendite non si fermano. Bisogna perciò esortare i consumatori a un urgente cambio di rotta contro il fast fashion.
Negli ultimi anni la piattaforma di e-commerce Shein è diventata molto popolare, soprattutto grazie ai video virali su TikTok e Youtube. Il colosso cinese si sta espandendo a velocità incredibile tramite l’apertura dei cosiddetti “pop up stores” (negozi temporanei).
Fondato nel 2008 dall’imprenditore Chris Xu a Nanchino, Shein nasce come grande distributore di capi di abbigliamento fino a diventare il più grande retailer di e-commerce nel mondo. Nel 2021, il fatturato dell’azienda ammontava a 15 miliardi di dollari.
Le condizioni dei lavoratori
L’ultimo scandalo dell’azienda è stato rivelato da un report investigativo condotto dal network televisivo Channel 4 e dal quotidiano britannico i.
I lavoratori di alcune fabbriche cinesi di Shein tagliano, ammendano e cuciono vestiti 7 giorni su 7, 18 ore al giorno, con un solo giorno libero al mese.
Alcuni sono costretti a lavarsi i capelli in pausa pranzo a causa dello scarso tempo a disposizione.
In una fabbrica di Shein gli operai guadagnano 556 dollari al mese. In altri centri di produzione la paga, a cottimo, è comunque inferiore a 4 cents per capo. Grandi pile di vestiti nei corridoi delle fabbriche ostacolano l’evacuazione nel caso di incendio.
Alcuni mesi fa ha destato scalpore il fatto che in alcune etichette di vestiti, dove sono apposte le istruzioni di lavaggio, si trovassero scritte (la cui autenticità è in discussione) come “need your help” o “help me”.
Shein ruba le idee artistiche di altri piccoli designer che lavorano in proprio, senza che questi vengano accreditati e pagati. La grafica di una t-shirt può essere copiata e venduta in serie senza che il creatore originale venga a saperlo.
Shein contro l’ambiente
Nel mondo, si producono ogni anno 100 miliardi di tonnellate di capi, e di queste 92 finiscono nelle discariche: l’equivalente di un camion di immondizia buttato ogni secondo.
E, in questo settore che sarebbe responsabile di addirittura il 10% delle emissioni globali, Shein si contraddistingue per la bassa sostenibilità dei suoi prodotti, venduti a prezzi stracciati. Inoltre, la produzione poco trasparente non permette di rintracciare la carbon footprint dei capi.
I tessuti sintetici sono estremamente tossici non solo per l’ambiente ma anche per la salute delle persone. Alcuni materiali fortemente infiammabili trovati nei vestiti dei bambini sono stati successivamente tolti dal sito.
Spesso i capi che arrivano sono diversi da come apparivano sul sito: sono al di sotto delle aspettative, e prodotti con tessuti scadenti.
In questi si rileva la presenza di alti contenuti di piombo, pfas e ftalati non sicuri né per i consumatori (soprattutto bambini e donne incinte) né per le mani di chi li lavora.
Cattiva pubblicità e vane promesse
Shein carica sul sito fra i 2000 e 10000 capi al giorno. Video di mega “haul” in cui si indossano e mostrano vestiti comprati o ricevuti direttamente dall’azienda sono pubblicità facile e a basso costo grazie all’opera di giovani e giovanissimi influencer.
Sul sito spuntano super-sconti in occasioni di giornate come Black Friday e Singles’ Day, permettendo di comprare ancora più prodotti a prezzi stracciati. Tutto questo fomenta il più deleterio e vorace consumismo.
Shein è molto accessibile grazie ai suoi prezzi irrisori; ma i costi risparmiati da un lato vengono pagati da un’altra parte.
L’azienda promette di essere più vigile, attenta ai protocolli di sicurezza del prodotto e dei lavoratori, si impegna ad essere più sostenibile assumendo nel 2021 un responsabile per la sostenibilità. Un ruolo che pare solo di facciata, come altre azioni eco – ad esempio impegnarsi ad utilizzare tessuti riciclati, quando solo una quantità ridotta dei prodotti in esposizione è realizzata con questi materiali.
Un’alternativa “cheap”
È molto facile rintracciare i consumatori di questo tipo di merce, ma non tutto è bianco o nero: tanti non riescono ad accedere a capi di un certo livello di qualità e le catene fast fashion offrono un’alternativa. Naturalmente, c’è sempre chi compra pile di vestiti che valgono centinaia di euro, e li indossa una o due volte per poi buttarli via.
D’altra parte, molte persone non sono ben informate su alternative più sostenibili come negozi di seconda mano e vintage, che in Italia sono ancora troppo poco diffusi rispetto a paesi come il Regno Unito, in cui è più facile imbattersi in charity shops.
Verso l’ultra fast fashion
Sensibilizzare, informare e diffondere la cultura dell’usato rimangono gli strumenti chiave per contrastare questo fenomeno. Un nemico di questo progresso rimane il desiderio di seguire i trend e stare sempre al passo con le ultime novità della moda; una domanda che i brand fast fashion riescono a soddisfare.
Fare shopping su Shein è diventata una tendenza molto pericolosa. Se le attività di questa azienda non vengono contrastate dalla legge e dagli stessi consumatori, si rischia di aprire la strada ad altre realtà ultra fast fashion.
Francesca Fabbri
(Immagine di copertina da Greenpeace)