CronacaI Racconti

Linea 25 – Carcere della Dozza, via del Gomito

Carcere Dozza

L’autobus che prendo tutti i giorni, ovvero il 25, fa capolinea al quartiere Dozza di Bologna, in cui vi è il carcere della Dozza; ciò significa che, sopra, può capitare di incontrare persone che vengono dal carcere o che lì sono dirette.


Ma lei che cosa ha fatto per finire in carcere?

Un giorno come tanti. Sono seduta, annoiata. Davanti a me c’è un signore di mezza età con una busta piena di oggetti ai suoi piedi, alla mia sinistra una signora. L’uomo, a gran voce, esclama che è contento perché ieri finalmente è uscito di prigione e non si vergogna a dirlo.

Da qui vedo svilupparsi uno dei più grandi spettacoli di indiscrezione a cui abbia mai assistito su un mezzo pubblico, prodotto, diretto e recitato dalla signora di fianco a me. 

“E lei che cosa ha fatto?”
“Cosa?”
“Dico: che cosa ha fatto per finire dentro.”

L’uomo le risponde e subito dopo dà inizio a un discorso indignato contro un sistema carcerario spietato con i detenuti, a cui, al minimo gesto fuori posto, viene allungata la pena di uno, due anni. Così capita che, senza accorgertene, passi da quattro a quattordici anni di pena.

“Eh ma è giusto, bisogna comportarsi bene.”

E infatti il signore è stato bravo e la pena di sei anni che aveva gli è stata ridotta a quattro. Aggiunge che ha passato tutta la notte fuori a festeggiare, tanto era contento.

“E che cosa ha fatto? È andato a bere? A ubriacarsi?”

No, signora. Perché glielo chiede? Anche in carcere ha passato due anni a leggere e a farsi gli affari suoi, non le fa queste cose lui.

“Bene, l’importante è che l’’esperienza le abbia insegnato qualcosa. Ma lei adesso dove va, ce l’ha una casa?”

I problemi economici non lo riguardano perché, avendo avuto la possibilità di lavorare durante gli anni passati, è riuscito a mettere qualcosa da parte.

“E una famiglia?”

Quella no. È la mia fermata, mi alzo, scendo. Sono un po’ amareggiata.

La storia di Alfredo Cospito

Nel 2019 un’esperienza scolastica mi ha permesso di conoscere più da vicino la realtà delle carceri, in particolare da quale tripudio di ignoranza, pregiudizi e indelicatezza essa sia permeata. Vennero a scuola dei ragazzi che si occupavano di volontariato nell’ambito e, nelle venti ore che trascorsero con noi (di cui una piccola parte proprio all’interno del carcere Dozza, a stretto contatto con alcuni detenuti), mi chiarirono tante delle idee confuse che avevo sui luoghi di detenzione.

Mi viene in mente la vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito, condannato perché nel 2006 piazzò degli ordigni a basso potenziale esplosivo presso una Scuola Allievi Carabinieri in provincia di Cuneo. L’esplosione di questi ordigni non provocò morti, né danni gravi.

Nonostante questo, Cospito è stato condannato all’ergastolo ostativo misura che prevede, per reati di mafia e terrorismo particolarmente efferati, l’impossibilità di accedere ai benefici di cui solitamente possono godere anche gli ergastolani, a meno che non collaborino con la giustizia. 

Un programma di rieducazione alla realtà delle carceri serve a chi giudica senza conoscere la situazione. Questa riflessione parte dal carcere della Dozza (Bologna) e arriva ad Alfredo Cospito.

È importante sottolineare che il reato contestato a Cospito, quello di strage contro la sicurezza dello Stato, è tra i più gravi nell’ordinamento italiano.  Nemmeno le stragi di Capaci e di via d’Amelio hanno ricevuto questo verdetto penale.

Un grido nel vuoto

Attualmente Cospito è in sciopero della fame, dallo scorso ottobre; e questa è l’unica arma a sua disposizione per dare rilevanza alla sua vicenda infelice, costruita su soprusi. 

Se questo caso non ha ancora sollevato tutte le polemiche che meriterebbe, con tanto di social media intasati da contenuti a riguardo, post accorati e reel di spiegazioni sommarie, e se una signora sull’autobus riesce a condensare in dieci minuti così tanti interventi inopportuni e semplificazioni aberranti, mi viene da pensare che forse un programma di educazione (attenzione: non di “ri-educazione”) alla realtà carceraria serve anche a noi che, da fuori, ci permettiamo di distogliere lo sguardo davanti alla mole di suicidi e violenza che accumulano ogni anno le carceri, nonché di giudicare senza ritegno i “cattivi” che ci abitano o ci hanno abitato dentro.

Sipario.

Arianna Bandiera

(In copertina Marco Chilese da Unsplash)

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