Cronaca

Terremoto all’Espresso – Allarme rosso per la stampa italiana

L'espresso giornale

Le recenti vicissitudini dell’Espresso, culminate con la rimozione del direttore Lirio Abbate, ripropongono con forza il tema dell’effettiva libertà di stampa in Italia. Di fronte al dilagare dell’editoria impura, come si può tutelare l’autonomia del giornalismo dai vari poteri economici?


L’Espresso è probabilmente il più importante settimanale italiano per la sua storia, la portata delle sue inchieste e il valore delle proprie penne. Fondato nel 1955 da Eugenio Scalfari (“padre” anche de La Repubblica) e Arrigo Benedetti, e in origine edito da Adriano Olivetti, questo rotocalco è diventato col tempo un punto di riferimento per il giornalismo italiano, soprattutto in politica, cronaca ed economia.

L'Espresso logo

Le sue inchieste hanno scritto la storia dell’Italia del secondo dopoguerra: dal primo dossier sulla speculazione edilizia a Roma L’Espresso ha investigato tra le altre cose sugli anni di piombo, sugli intrecci mafia-politica, fino alle vicende più recenti di Mafia Capitale, Vatileaks e i rapporti Lega-Russia. Nonostante la sua linea editoriale chiaramente di sinistra, la rivista ha guadagnato un rispetto trasversale tra i lettori per il suo coraggio e la sua puntualità.

Tanti grandi nomi della stampa e della letteratura italiane vi hanno apposto la propria firma: Sciascia, Eco, Moravia, Pansa, Bocca, Veronesi, Biagi, fino ai più recenti Saviano, Fittipaldi, Vattimo e Murgia.

Nel gruppo GEDI

Nell’ultimo anno, tuttavia, alcuni scossoni sul piano societario prima ed editoriale poi hanno messo in dubbio le sue prospettive. È notizia degli ultimi giorni la rimozione dalla direzione di Lirio Abbate, che era stato chiamato alla poltrona più alta appena 9 mesi fa, nel marzo scorso. Questa “purga” repentina, e soprattutto il contesto in cui è avvenuta, è un altro campanello di allarme sullo stato dell’informazione italiana e sui suoi rapporti col mondo politico ed economico.

Dalla nascita di Repubblica, nel 1976 ad opera di Scalfari medesimo, L’Espresso e il quotidiano condivisero la stessa società, che si chiamava proprio gruppo editoriale L’Espresso. Nel 1989 l’imprenditore Carlo De Benedetti ne è diventato l’azionista di maggioranza, dopo aver aumentato progressivamente la sua partecipazione nel decennio precedente.

Nel 2016 il gruppo, che nel frattempo aveva accolto al suo interno varie testate locali, si è fuso con Itedi, società controllata dalla famiglia Agnelli che editava La Stampa. Ha così origine il gruppo GEDI,  in quel momento ancora sotto il controllo della CIR, la holding di De Benedetti.

I suoi figli, tuttavia, nel 2020 hanno venduto parte delle loro quote alla Exor di John Elkann, rendendo gli Agnelli i nuovi azionisti di riferimento del gruppo (con gran disappunto di De Benedetti padre, che darà vita al nuovo quotidiano Domani con diversi autori “transfughi” di Repubblica ed Espresso). La nuova proprietà ha impresso subito una svolta radicale alla linea editoriale delle due testate, nominando ad esempio direttore di Repubblica Maurizio Molinari, notoriamente filoamericano e molto più moderato dei predecessori.

Un binomio salvifico

Se fino al 2022 L’Espresso sembrava non aver subito ripercussioni, la situazione è cambiata drasticamente a inizio anno. A marzo GEDI vende il settimanale a BFC, di proprietà di Danilo Iervolino, già fondatore dell’Università telematica Pegaso e patron della Salernitana calcio. La cessione ha generato forte disorientamento tanto tra i lettori quanto in redazione: il 4 marzo si è dimesso Marco Damilano, direttore dal 2017 e all’Espresso dal 2001.

Per la prima volta Espresso e Repubblica si ritrovano sotto due editori diversi. E questo non è solo un fatto simbolico, ma anche pratico: proprio l’abbinamento del settimanale al quotidiano ogni domenica costituiva una quota importante delle vendite. Iervolino ne è consapevole e infatti ha stretto un accordo con Elkann per mantenere il binomio in edicola almeno fino a marzo 2023.

Proprio quest’ultimo aspetto è cruciale per capire i fatti più recenti. Al posto di Damilano era stato scelto il suo vice Lirio Abbate, già autore di inchieste su Mafia Capitale.

Dopo pochi mesi, tuttavia, l’editore ha improvvisamente sollevato Abbate dal suo ruolo, rimpiazzandolo con Alessandro Mauro Rossi, direttore di Forbes Italia.

Lirio Abbate L'Espresso
Lirio Abbate.

Dagospia (citata dal Fatto Quotidiano) sostiene che tale rimozione sia imputabile ad un articolo dell’Espresso sul finanziamento di Exor (Agnelli) in favore di aziende che deforestano l’Amazzonia. Iervolino, quindi, avrebbe offerto la testa di Abbate a Elkann per salvaguardare l’accordo sull’abbinamento. Il gruppo GEDI, per bocca del portavoce, ha comunque smentito tale ricostruzione.

Nella sua lettera di congedo il direttore uscente, che rimane caporedattore, ha amaramente commentato:

Il giornalismo d’inchiesta viene esaltato quando si parla del giardino del vicino, quando invece si tocca quello degli “amici” viene massacrato e gettato nella polvere.

Non si è fatta naturalmente attendere la reazione della redazione, che ha proclamato lo stato di agitazione con un pacchetto di 10 giorni di sciopero.

Stampa impura

La vicenda dell’Espresso ripropone il tema annoso dell’indipendenza della stampa dalla politica e dal mondo produttivo. A differenza di quanto avviene in altri paesi in Italia quasi tutte le grandi testate sono controllate da un editore che ha interessi anche in altri ambiti: è la cosiddetta “editoria impura”, che inevitabilmente pone seri dubbi sull’effettiva libertà di un giornalista.

Tra i grandi quotidiani in Italia gli unici non legati a un editore impuro sono il Fatto Quotidiano, in mano a una società editoriale quotata in borsa e priva di azionista di riferimento, e La Verità, che risponde a una s.r.l. le cui quote sono divise principalmente tra diversi giornalisti del quotidiano, col direttore Maurizio Belpietro che detiene il 45% circa delle azioni. Entrambi, per ironia della sorte, sono stati spesso accusati di faziosità o disinformazione, quando non della diffusione di vere e proprie fake news. 

Questo non accade in diversi paesi stranieri, dove è maggiormente diffusa la figura dell’”editore puro”, ossia di un imprenditore dedito solo all’editoria (si pensi a Rupert Murdoch). Ma anche testate di editori impuri sono strutturate in maniera tale da proteggerne l’autonomia da interferenze esterne: è il caso dell’Economist, settimanale britannico di proprietà della famiglia Agnelli. 

La sensazione, quindi, è che l’Italia non abbia a cuore i propri diritti politici, tra cui appunto un’informazione libera, indipendente e rigorosa. Porre tutta l’informazione mainstream sotto il controllo dei potentati economici rischia di manipolare l’opinione pubblica, piegandola agli interessi del più forte, di contribuire all’imbarbarimento della politica e, in definitiva, di minare le basi stesse della democrazia. Proprio per questo, prima ancora di ogni discorso su possibili soluzioni normative, è essenziale affrontare il problema culturale che sta alla radice di questa situazione.

Riccardo Minichella

(In copertina The New York Public Library da Unsplash)

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