Sentirsi pronti alla vita o pensare di affogare nelle immagini di noi stessi che offriamo agli altri; andare avanti o autosabotarsi. Una lettera aperta agli insicuri in cerca di approvazione, dentro e fuori di sé, per non cadere nella propria sofferenza.
Ho temporeggiato a lungo prima di mettermi a scrivere, quasi mi aspettassi che il momento giusto arrivasse per qualche mirabolante congiunzione astrale. In verità, è stato il desiderio di perfezionismo che mi ha spinto a procrastinare giorno dopo giorno; fino a far passare i giorni.
Ora, però, mi sento pronta: scriverò questo pezzo di getto, e stavolta spero che non faccia la fine delle altre bozze inconcluse e dimenticate. E intanto ho scritto l’introduzione: partiamo bene.
Pretendere, senza ascoltarsi
Adesso, con il senno di poi, non mi vergogno di tutte le mie insicurezze e di tutte le mie fragilità; mi guardo indietro e ripenso alla ragazza che ero qualche anno fa e a tutto il disprezzo e il biasimo che provavo per me stessa. Mi chiedevo che senso avesse vivere di rimpianti e tormentarsi per i propri errori quando ciò che siamo è frutto di ogni nostra caduta, di ogni errore. E non trovavo risposta.
È vero, ho appena diciotto anni, non posso considerarmi una donna vissuta; ma mi sento grata del piccolo cambiamento che negli ultimi tempi mi ha attraversata nei rapporti con gli altri e soprattutto con me.
Resto ancora la stessa di sempre, con le sue lune storte da ultimo anno di liceo, alle prese con ansie e preoccupazioni su di sé, sul futuro, sulla vita. Eppure, riconosco di essere cresciuta e maturata rispetto soltanto a pochi mesi fa, quando alle soglie dell’estate mi ripetevo mantra del tipo “devo migliorare”, “devo cambiare”; e il tempo sembrava non passare mai.
Non mi accorgevo che, in quel modo, stavo solo alimentando una tendenza ad autosabotarsi. Mai un momento in cui mi ascoltassi davvero e fossi comprensiva con me stessa: era un continuo pretendere da me, chiedermi di essere felice – o per lo meno sembrarlo.
“Non stare sempre giù, agli altri non piacciono le persone allegre”, “puoi cavartela da sola, sei una ragazza forte”, sentivo ripetermi da tutte le parti. E sicuramente chi me lo diceva era mosso dalle migliori intenzioni, ma non si accorgeva della vanità e del danno di simili frasi.
Più mi costringevo a stare bene, più chiedevo che questo cambiamento fosse immediato, che bastasse dire a sé stessi di volerlo, e più mi rendevo conto che raccontarselo, dirselo, imporselo non era la soluzione: non significava volerlo veramente.
Costruirsi, rispetto agli altri
In aggiunta a tutto questo, realizzare che non fossi forte come mia madre sosteneva mi angosciava ancora di più. Stavo solo ricadendo nel medesimo errore: volevo a tutti i costi apparire, non tanto essere infallibile, ma sembrarlo agli occhi degli altri. E tutto perché ingannata dalla convinzione che ogni mio errore provocasse necessariamente allontanamento e disapprovazione.
E, così, queste manie di perfezionismo mi hanno spinto a considerare errori gesti e parole che di per sé non lo erano, ma che non potevo accettare perché tradivano le aspettative altrui. Ero così insicura che faticavo a vedere negli errori semplici tasselli di un personale percorso di crescita.
Quando passi la vita a inseguire qualcosa di esterno, perdi il controllo che proprio le tue manie di perfezione ti facevano credere di possedere; e non sai più distinguere ciò che vuoi realmente dall’ideale che gli altri si sono creati di te e che ti sei cucito addosso, sulla tua stessa pelle.
Vedersi, attraverso Pigmalione
Secondo lo psicoterapeuta Ricardo Peter – in Una terapia per la persona umana (Cittadella, 1994) –, “il bisogno di approvazione rivela la vulnerabilità del perfezionista”. Vogliamo l’approvazione perché abbiamo bisogno di un salvacondotto in una società che non fa che criticarci di continuo.
La creazione di questi ideali spesso si basa sulle immagini stereotipiche in cui gli altri ci fanno rientrare, e porta ad una sorta di profezia che si autoavvera.
È l’effetto Pigmalione, in base al quale quello che crediamo di noi stessi influenza i nostri comportamenti e quelli degli altri.
Allo stesso modo, se ci convinciamo di corrispondere alle etichette che ci affibbiano, non sarà molto difficile per noi comportarci di conseguenza. Il nome, attribuito da Robert Rosenthal, proviene dall’opera teatrale Pigmalione di George Bernard Shaw (1913), a sua volta ispirata all’omonimo personaggio mitologico, nella versione tramandata da Ovidio nelle Metamorfosi (X 243-297).
Questa commedia racconta la storia del docente di fonetica Henry Higgins, che per una scommessa cerca di educare l’umile fioraia Eliza Doolittle.
La definizione si fonda sui risultati di un esperimento psicosociale che lo stesso Rosenthal condusse in scuola elementare: sottopose ai bambini un test d’intelligenza e poi, in modo casuale, selezionò un numero ristretto di studenti che presentò alle maestre come “migliori”.
Un anno dopo ritornò e registrò che proprio quel ristretto gruppo di studenti, classificato in via del tutto arbitraria, godeva del migliore rendimento scolastico, proprio per l’influenza positiva e il maggiore incoraggiamento riservato loro dalle maestre.
Conoscersi, per capirsi realmente
L’immagine che abbiamo di noi – si sa – è determinante nello stabilire le nostre azioni. E, allo stesso tempo, il senso di netto divario tra ciò che siamo e ciò che mostriamo non può sfuggire alla nostra sensibilità.
Proprio questa dicotomia è una delle ragioni che ha fatto crescere il mio disagio: non volevo ammettere a me stessa di stare male.
Non avevo capito che stavo soltanto ignorando il mio vero problema.
Pensavo di applicare su di me lo stesso meccanismo alla base della mia sofferenza.
E tutto questo perché non avevo mai riflettuto bene sulle mie emozioni negative, che non meritavano di essere condannate così duramente, soltanto perché negative.
Non mi ero mai impegnata a cercare di conoscermi realmente: continuavo, inconsapevole e passiva, a seguire il mio bisogno di essere apprezzata, che in quel momento di difficoltà per me coincideva con l’evitare di mostrarmi fragile.
Accettarsi, e accettare ogni errore
Un’amica si allontanava da un momento all’altro? Ero io l’unica responsabile perché avevo qualcosa che non andava. Prendevo un voto che non rispecchiava il mio studio? Ero stupida. Delle persone che volevo conoscere mi ignoravano e mi respingevano? Ero brutta e non ispiravo alcuna simpatia.
La mia mente costruiva ogni volta una narrazione tossica di questo tipo, non esisteva mai una via di mezzo: o tutto o niente. Vivevo nel timore che tutti fossero sempre impegnati a misurare ogni mia prestazione, ogni mio passo falso. E forse avrei dovuto soltanto chiedermi quanto agli altri importasse davvero, o quanto fossi semplicemente io a creare paure e costruirmi paranoie.
Adesso posso dire di aver trovato poche ma buone persone che mi vogliono bene per quello che sono, che valorizzano e riconoscono le mie qualità senza instillarmi il bisogno di dover dimostrare sempre qualcosa e di essere alla loro altezza.
E questo è avvenuto da sé, perché, anche se sembra banale, il tempo risana davvero ogni cosa. Ti fa capire che ormai hai toccato il fondo e che non puoi fare altro che perdonarti e allentare la morsa. E chiederti quanto sia davvero il caso di essere raccontati dalla propria sofferenza.
Giulia de Filippis
(In copertina The Nightmare, di Johann Heinrich Füssli, 1781, conservato al Detroit Institute of Arts)