Dopo “Atti osceni in luogo privato” e “Fedeltà”, con cui ha vinto il Premio Strega Giovani, Marco Missiroli è in libreria con “Avere tutto” (Einaudi 2022), giudicato il suo romanzo più potente e maturo. Tuttavia, ancora una volta, mi permetto di dissentire.
Marco Missiroli di recente ha fatto parlare di sé con Fedeltà (Einaudi 2019), un romanzo che da poco Netflix ha avuto l’ardire di trasporre sullo schermo.
Purtroppo, oserei dire, forse per i dialoghi inconcludenti, forse per la scelta degli attori, o forse, più semplicemente, per la storia in sé.
Quest’anno, Einaudi ha pubblicato Avere tutto, che mi ha lasciato – nuovamente – la sensazione di non avere niente fra le mani.
La storia… ma quale storia?
Avere tutto, come anticipato nella quarta di copertina, parla di un rapporto tra un padre e un figlio. Sandro vive ormai da anni a Milano, quando torna a Rimini dal padre Nando, in quanto allarmato per la sua salute. Il ritorno a casa fa emergere i non-detti che si celano dietro al loro rapporto.
Come nel caso dei precedenti romanzi di Missiroli, alla fine della lettura viene da chiedersi quale sia la trama, di che cosa parli esattamente questo libro.
Certo, si parla di un padre e di un figlio che imparano a conoscersi fuori tempo massimo, dopo anni in cui non lo hanno fatto, di una città “dimenticata”, di un vizio erosivo, di fantasmi e di vuoti da colmare.
Però la sensazione, durante la lettura, è di trovarsi di fronte a una grande mancanza.
Sembra quasi che l’autore abbia avuto lo spunto per un romanzo, e che non lo abbia sviluppato, ma solo adornato di un falso stile avanguardistico di scrittura. Frasi brevi, serrate; dialoghi inconsistenti; asserzioni che sembrano dare adito a una possibile riflessione (ma non la svolgono); flashback continui; nessuna divisione in capitoli e molti – troppi – spazi bianchi.
Dove vorresti essere con un milione di euro in più e parecchi anni in meno?
Questa è la domanda che, secondo alcuni, fa scaturire i ragionamenti più importanti del libro, e che permette di dare sfogo a storie e ricordi. Ed è giudicata così fondamentale, da trovarsi addirittura nella sinossi del libro, in quarta di copertina. Eppure, ancora una volta, sembra che non serva a nulla.
Stream of (un)consciousness
Henry Fielding, nel paratesto del suo Joseph Andrews (1742), scrive che gli spazi bianchi tra i capitoli possono essere considerati come locande o spazi di sosta in cui il lettore può fermarsi e fare una pausa.
Nei libri di Missiroli non vi sono capitoli, ma paragrafi spezzati tra un flashback e l’altro. Gli spazi bianchi costringono il lettore a tornare indietro e rileggere, certo di essersi perso qualcosa. I flashback e il ritmo serrato delle frasi dovrebbero essere un moderno espediente di poetica per fare entrare il lettore nella storia, ma la verità è che non funzionano: non permettono, in realtà, di immedesimarsi neanche in una delle scene raccontate.
Come in tutti i romanzi di Missiroli è quasi impossibile empatizzare con i personaggi. Possiamo capire Sandro, Nando, e le (poche e magre) figure che vi ruotano attorno, ma non possiamo immedesimarci in loro. Se solo l’autore avesse speso qualche parola, qualche aggettivo in più, un minimo di descrizione, di accompagnamento alle frasi secche che spende per il racconto.
I protagonisti, inoltre, si rivelano sempre uomini smarriti. “Lavoro bene sull’uomo perché lavoro bene sullo smarrimento” come spiega Sandro, quando gli chiedono uno slogan per la campagna pubblicitaria di uno shampoo da uomo. Così anche Carlo e Andrea di Fedeltà. E mi chiedo: cosa succederebbe se Missiroli provasse a cambiare punto di vista? Forse ne uscirebbe un romanzo con qualcosa da dire.
Cosa vuol dire “avere tutto”?
Alla fine mi sa che vogliamo solo le due o tre cose per cui veniamo al mondo.
Più dell’amore, più del lavoro, più della famiglia, la principale preoccupazione di Sandro è il poker. I suoi genitori non hanno mai imparato a convivere con questa “scimmia” che grava sulle spalle del figlio – tanto da chiedersi: “è il nostro o l’altro che zùga?”.
Nel gioco d’azzardo si cercano il brio, la trepidazione, l’attesa, il salto al cuore, la perdita e la vittoria, i soldi e l’ammirazione, la caduta, la forza di uscirne e la ricaduta. Sandro vuole tutto questo, quando si ritrova nei piccoli appartamenti milanesi con altri gambling addicts come lui.
Avere tutto:
La concentrazione di più vita possibile nel tempo minore possibile.
Il gioco dà, il gioco toglie. E, come Rimini vive alla grande una sola stagione, quella estiva, Sandro deve saper sfruttare l’unica stagione buona della sua vita: la gioventù.
Ma è la fortuna che regola la sua vita: la fortuna nel trovare una buona idea per uno spot pubblicitario, la fortuna al tavolo da gioco. La smania di avere tutto è la stessa che lo costringe a vedere sfocato tutto ciò che ruota attorno alle carte. Il vero amore di Sandro è sempre stato il gioco.
Le sensazioni che questo gli provoca, infatti, sono le stesse dell’innamoramento.
Lasciare con rete: la capacità di circoscrivere l’azzardo, assorbendo danni smaltibili.
È lo stesso metodo con cui Sandro affronta la vita.
Fantasmi e nebulose
I fantasmi. Lei, chi prima di lei, e gli amici, e i colleghi, i passanti per la strada, i conoscenti, persino loro a Rimini. Tutti in una nebulosa. E là da parte, nitidissimi, il tavolo e noi altri. I giocatori.
In primis c’è Giulia, questo evanescente fantasma di donna con cui Sandro ha avuto una relazione – bruna? bionda? alta? bassa? “Portava ancora il caschetto, o forse no: i tavoli me l’hanno sempre confusa”.
Ma anche il padre Nando, che è sempre stato lì, ma mai a portata di mano; la madre – così irraggiungibile, così lontano e doloroso ricordo, che non ha neanche un nome, rimane sempre un fastidioso “lei”; gli amici, la città in cui vive e quella in cui è nato: una Rimini che viene appena sfiorata, ma mai approfondita.
L’ambientazione, in un romanzo del genere, dovrebbe essere importante, anzi fondamentale. Ma Rimini viene raccontata attraverso nomi di luoghi conosciuti e battuti dal protagonista e dal padre o dagli amici, senza però dare un vero motivo sentimentale di attaccamento a quei luoghi.
È come aprire Google Maps e fare un giro in street view per la città: possono farlo tutti, ma il lettore si aspetta di conoscere la città in quanto sentimento, non in quanto coordinata geografica.
Dov’è finita la delicatezza?
Avere tutto viene spacciato per un libro potente e maturo, ma anche delicato e – proprio perché riprende tratti della vita dell’autore – fragile. Ma l’unica potenza che ho avvertito è stata quella data dai contrasti: parole volgari buttate quasi a caso, dove meno le aspetteresti.
L’intenzione, neanche troppo velata, sarebbe di dare una scossa al lettore, dovrebbe fargli pensare a una scena “forte”, ma in realtà è come una bestemmia urlata in scena a teatro: completamente fuori luogo.
Come quando Sandro spoglia il padre anziano per aiutarlo a sedersi in doccia:
Il corpo nudo, vuoto, le vene in rilievo, la pancia gonfia che sormonta il pube: questo cazzo nodoso sopravvissuto male.
E, parlando di Giulia:
Non sono meglio io, meglio noi? E la mia figa non è meglio? E il periodo che dovevamo fare a Lisbona, non è meglio? Meglio è stata l’ultima parola tra noi due.
O ancora, il padre intravisto mentre si stava rivestendo nella sua camera da letto:
Il cazzo penzoloni, forte, che frusta l’aria.
Viene da chiedersi quanto sia necessario tutto questo. Non per senso del pudore, ma per la forte dissonanza con tutto il resto. Ecco che emerge il Missiroli di Fedeltà, in cui ci immaginiamo un autore implicito simile al protagonista Carlo, da cui sì, ci aspetteremmo un termine tale.
Quello che rimane
Cosa rimane dopo aver letto Avere tutto? È un romanzo che si propone come storia emozionale, di un rapporto padre-figlio che ha bisogno di essere ricostruito quando ormai è troppo tardi, solo una volta che Sandro ha già perso tutto e ciò che gli rimane è solo un padre che non hai mai davvero conosciuto.
Questo libro, tuttavia, è in fin dei conti soltanto un abbozzo, un esercizio da completare, troppo breve per il numero di argomenti che si propone di affrontare. Temi che potrebbero essere interessanti e profondi vengono solo sfiorati, lasciando l’amaro in bocca.
Dalla luna tutto torna
La copertina del libro viene dalla mostra Dalla luna tutto torna di Luca Bacciocchi, progetto pirandelliano che vede protagonista l’individuo alle prese con se stesso e con la ricerca della propria identità.
Calza a pennello per un protagonista che si è perso nel tentativo di rincorrere emozioni fugaci. Tuttavia, questo romanzo è proprio come una fotografia ad una mostra: la vedi superficialmente in un quadro, puoi capire determinati concetti, una parte della storia rappresentata, ma è l’autore che deve essere in grado di farti entrare più a fondo.
Bacciocchi indaga il rapporto col tempo in quanto entità astratta – come può esserlo per Sandro al tavolo da gioco, o nel momento in cui si accorge che il tempo è passato troppo in fretta e si è lasciato dietro troppe cose, troppe persone.
L’artista cattura una serie di luoghi-non luoghi, in cui l’individuo si trova faccia a faccia con se stesso e si interroga di fronte all’infinito.
In copertina non vediamo che un infinito fatto di tempo rarefatto e di luoghi indefiniti: una cornice tanto effimera e rada quanto questo breve romanzo.
Blu Di Marco
(In copertina e nell’articolo immagini di Luca Bacciocchi)
Per approfondire: Siate infedeli a “Fedeltà” di Missiroli (un articolo di Blu Di Marco).
Questo articolo fa parte della rubrica La Ghigliottina.