Quando identità di genere e sesso anagrafico non corrispondono, molti atti quotidiani diventano complessi. In questa intervista Chià Rinaldi, responsabile di Universitrans, ci spiega come le università italiane hanno deciso di tutelare il diritto allo studio degli studenti transgender mediante la carriera alias.
Gli ostacoli della legge 164
Tutti i documenti (carta di identità, tessera sanitaria, patente ecc.) riportano il nome anagrafico e il procedimento per ottenerne la rettifica, regolato in Italia dalla legge 164 del 1982, può essere lungo. Dal 2015, a seguito di due sentenze della Consulta e della Cassazione, non è più obbligatorio cambiare sesso attraverso un intervento chirurgico; tuttavia, la persona transgender deve comunque rivolgersi a un tribunale e documentare il suo percorso di transizione.
Nell’attesa della pronuncia del giudice, quindi, si trova in una sorta di limbo costellato di ostacoli burocratici (e non solo) che complicano azioni comuni come la ricerca di un lavoro o l’apertura di un conto in banca, ma anche la frequenza delle lezioni all’università. Infatti, il badge che gli atenei rilasciano ai loro iscritti utilizza il nome anagrafico.
Il ruolo delle università italiane
Nel tentativo di tutelare il diritto allo studio degli studenti transgender, varie università si sono dotate, o si stanno dotando, di una carriera alias. Si tratta di un’identità provvisoria, diversa da quella registrata all’anagrafe, che gli studenti (e in alcuni casi anche i docenti e il personale amministrativo) possono ottenere stipulando un accordo di riservatezza con l’ateneo.
Al termine della procedura di attivazione, che può essere completamente demedicalizzata oppure richiedere la presentazione di una documentazione diagnostica, come si legge, ad esempio, sul sito dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, lo studente riceve un nuovo badge. Ne parliamo con Chià Rinaldi, responsabile di Universitrans, progetto nato nel 2017 per mappare gli atenei pubblici che prevedono la carriera alias.
Ciao Chià, vuoi presentarti e introdurre il vostro progetto?
Mi chiamo Chià e faccio il collaboratore sportivo con UISP Emilia Romagna. Sono una persona trans non binaria e, tramite UISP ma anche autonomamente, faccio ricerca su sport, femminismo e persone trans.
Ho ereditato Universitrans lo scorso anno, quando ho conosciuto Antonia Caruso, una delle fondatrici. Antonia non riusciva più a seguire il progetto e ha preferito delegare a qualcun altro. Universitrans è nato nel 2017, ma poi i dati sono rimasti fermi a quella prima ricerca. Sul sito, quindi, ora c’è una copertura di circa 60 atenei, le cui schede sono state aggiornate nel 2018 (in quell’anno 32 università disponevano di una carriera alias per gli studenti, 6 la prevedevano anche per i docenti e solo 2 per il personale amministrativo, ndr).
Come vi state muovendo per il nuovo anno accademico? State lavorando a una mappa aggiornata degli atenei?
Io ho ereditato il progetto a novembre 2021 e poi ho dovuto mettere insieme una squadra di persone che volessero occuparsene su base volontaria. Già questo, ovviamente, ha scoperto delle difficoltà perché siamo totalmente autofinanziati. Siamo riusciti a far ripartire la mappatura a luglio di quest’anno e abbiamo inviato un questionario, aggiornato sulla base di nuove esigenze che per fortuna sono emerse sulle carriere alias, a tutti gli atenei pubblici.
Stavolta, però, abbiamo cercato di includere anche gli istituti AFAM (accademie delle belle arti, conservatori e istituti musicali e artistici). Abbiamo chiesto anche di ottenere i regolamenti, in modo che che siano facilmente accessibili. Dopodiché, una fase 2 prevede di raccogliere le esperienze di persone trans che attivano la carriera, per sapere se le procedure sono effettivamente come le università le descrivono.
Hai notato dei cambiamenti rispetto al 2018?
Al momento, considerando che la mappatura è partita a fine luglio, sono una decina le università che ci hanno risposto, però posso dire che già ci sono delle modifiche rispetto agli ultimi 3 o 4 anni.
Si sta seguendo, o almeno così pare, la strada della depatologizzazione dell’identità trans e, oltre a questo, ci sono delle università che ci hanno risposto affermativamente sulla possibilità di attivare la carriera alias anche per docenti, personale amministrativo e ricercatori. Sembrerebbe, quindi, che un passo avanti, rispetto anche solo a 4 anni fa, ci sia.
Quando studiavi, hai avuto accesso alla carriera alias?
No. All’università di Bologna la carriera alias c’è da alcuni anni, ma solo nel 2021 hanno cambiato il regolamento in un senso di depatologizzazione. Io sono una persona trans, però non sto facendo nessun percorso medicalizzato; di conseguenza, per me non sarebbe stato possibile richiedere la carriera alias.
Poi, anche se l’avessi attivata, probabilmente avrei avuto altri problemi. Manca, infatti, tutta la parte di formazione con il personale amministrativo e con i docenti. Ad esempio, mi hanno raccontato un episodio sgradevole in cui, durante le lezioni online, una persona con carriera alias ha fatto una domanda al professore e, siccome aveva un nome femminile ma una voce più baritonale, l’insegnante le ha detto: “Ma questa non è la voce di una donna”. Quindi, benissimo che ci sia l’atto burocratico della carriera alias, però è inutile senza un cambiamento culturale che renda gli atenei un posto effettivamente sicuro per le persone trans.
Secondo te, qual è l’impatto che la carriera alias può avere sul diritto allo studio?
La carriera alias è uno strumento fondamentale per il diritto allo studio. Il cambiamento culturale passa anche attraverso uno strumento come questo, che permette alle persone trans non medicalizzate (o a coloro che non hanno concluso il lungo e tortuoso percorso di riassegnazione del genere in Italia) di vedere riconosciuto il loro fondamentale diritto all’identità di genere all’interno dell’università.
Il diritto allo studio è un diritto di tutt* e per tutt*, e come tale va assicurato. Per questo ci auspichiamo l’implementazione della carriera alias, sulla base del principio di autodeterminazione, in tutti gli atenei italiani. La speranza – e l’obiettivo – per noi è che questo strumento venga adottato anche in altri ambiti, da quello lavorativo a quello dello sport (UISP ha un tesseramento alias e al momento è l’unico ente di promozione sportiva ad averlo).
Chiaramente la carriera alias non può sostituire all’infinito la necessaria riforma della legge 164/1982, ma è un tampone che può fare la differenza e che può cominciare a scardinare le infinite barriere all’ingresso che le persone trans si trovano ad affrontare.
Qual è stato il ruolo della pandemia nell’adozione, da parte degli atenei, della carriera alias?
Con il Covid-19 si è cominciato a fare lezione a distanza e, per l’ingresso alle aule virtuali, serviva la mail ufficiale che riporta nome e cognome anagrafico, o almeno a Bologna è così. Questo rappresentava una grossa barriera per gli studenti trans, ma non credo che la pandemia sia stata un incentivo decisivo alla carriera alias.
Forse con l’emergenza c’è stata una maggiore sensibilità verso l’abbandono scolastico e il diritto allo studio, ma credo che sulla carriera alias tanto abbia fatto il lavoro che da molti anni le associazioni trans, sparse sul territorio italiano, stanno cercando di portare avanti. Credo poi che tantissimo dipenda dal fatto che si sta entrando sempre di più, anche a livello internazionale, in un’ottica di depatologizzazione dell’incongruenza di genere.
Insomma, penso che semplicemente ci sia stato un momento favorevole e che alcune università abbiano agito anche per volontà di sembrare istituzioni di città progressiste, quando in realtà ci sono grossi problemi nella quotidianità.
Sara Bichicchi
(In copertina Cecile Johnsen da Unsplash)