Tre partiti all’opposizione, tre partiti alla ricerca di un’identità: il PD per rimediare alla clamorosa sconfitta delle urne, il M5S per confermare il buon risultato ottenuto, il Terzo Polo per imporsi come alternativa credibile.
La pazza campagna elettorale estiva si è finalmente conclusa, e le elezioni del 25 settembre, come largamente profetizzato dai sondaggi, hanno consegnato la maggioranza assoluta delle Camere alla coalizione di destra, capitanata da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.
Dopo il 25 settembre
Poche le sorprese di queste elezioni, come il poderoso recupero (o dovremmo parlare di risurrezione?) del Movimento 5 Stelle, soprattutto al Sud, e il buon risultato del cosiddetto Terzo Polo di Azione e Italia Viva, giunto al 7,8%.
Con ogni probabilità toccherà quindi a Meloni guidare il prossimo governo e l’Italia nei tempi difficili che ci attendono, tra la questione energetica, la guerra in Ucraina che non accenna a placarsi, la crisi climatica e la questione sociale, da sempre critica e che grazie al Covid si è ulteriormente aggravata.
Dall’altra parte della barricata, però, troviamo non una ma ben tre opposizioni: il PD (e più in generale la coalizione di centrosinistra) in crisi perenne, il M5S e il nuovo polo centrista, che davanti si ritrova più incognite che certezze.
Queste tre forze al momento non sembrano in grado di offrire una credibile alternativa alla nuova maggioranza, vuoi per le dimensioni ancora troppo piccole, vuoi per una linea politica non troppo chiara.
Nei prossimi mesi i riflettori saranno puntati anche sul loro futuro e sulle scelte che dovranno prendere per andare avanti.
Il PD alla ricerca di sé stesso
Il Partito Democratico sconta probabilmente un peccato originale. La massima forza politica di centrosinistra nacque nel 2007, sostanzialmente dalla fusione dei Democratici di Sinistra e della Margerita, formazione centrista.
I due partiti, negli anni precedenti, avevano dato vita all’esperienza dell’Ulivo, che nel 2006 aveva condotto il centrosinistra alla vittoria contro Silvio Berlusconi e all’ascesa di Romano Prodi alla presidenza del consiglio.
Oggi molti ritengono questa unione poco omogenea: nel corso degli anni si è spesso visto un PD molto diviso, balcanizzato da diverse correnti (come nella peggior tradizione democristiana) che, a conti fatti, servono più a garantire posizioni di potere ai loro capi che a dare un vero contributo politico.
Tra i dem oggi si possono di fatto notare, con buona approssimazione, due sottopartiti: uno centrista, che in larga parte si rifà alla stagione di Matteo Renzi, e un altro di sinistra, ancora legato tra gli altri alle figure di Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema.
Tutti e tre, per uno scherzo del destino, sono fuori dal partito: immagine plastica dell’assenza di una linea politica chiara, al di là di alcune dichiarazioni di massima come salario minimo, riduzione del cuneo fiscale, atlantismo, ecologia.
Questa grave lacuna ideologica è stata ben esemplificata dai manifesti per l’ultima campagna elettorale: una campagna svolta più contro gli avversari (in questo caso Meloni) che in appoggio alle proprie idee.
Del resto, l’opposizione al centrodestra (Berlusconi prima, Salvini e Meloni oggi) è stata l’unico collante di tutte le coalizioni di centrosinistra dal 1996 ad oggi: coalizioni altrimenti eterogenee, le cui problematiche sono emerse chiaramente quando si sono ritrovate al governo.
Anche questa volta il PD ha finito per allearsi con partiti molto diversi tra loro: da una parte Impegno Civico di Di Maio e Tabacci e +Europa di Bonino e Della Vedova, fautori di una linea politica centrista e smaccatamente filoamericana; dall’altra l’Alleanza Verdi-Sinistra di Fratoianni e Bonelli, schierati senza mezzi termini a sinistra, contro le armi all’Ucraina e l’adesione di Svezia e Finlandia alla Nato.
Il PD ha raccolto alla Camera il 19,07% dei voti: appena lo 0,31% in più rispetto al 2018, ma va ricordato che questa volta la lista dem era condivisa con Articolo 1 di Roberto Speranza. Il segretario Enrico Letta ha annunciato il congresso in tempi brevi – era comunque già previsto per la primavera 2023 – , al quale egli non si ricandiderà.
Prima di parlare di nomi, tuttavia, l’auspicio è che al Largo del Nazareno si ragioni sull’essenza stessa del PD. Se necessario, ponendo in discussione il nome o addirittura la stessa unità interna, che ormai appare più di convenienza che altro.
Quale futuro per il M5S?
Giuseppe Conte ha vinto la sua scommessa: quella di dare ai 5 stelle una chiara identità di sinistra.
In questo compito è stato aiutato da due fattori in particolare: l’addio di Luigi Di Maio, che ha tolto al Movimento l’immagine di partito litigioso, e l’assenza di un serio competitor nell’area politica di interesse (l’alleanza Verdi-Sinistra è ancora troppo esigua in termini numerici e comunque legata al PD).
Se a inizio campagna elettorale gli analisti davano per credibile l’ipotesi di un risultato sotto il 10%, alla fine i 5S hanno chiuso con un buon 15,43% alla Camera e conquistando anche dei collegi uninominali al Sud.
Certo, siamo lontanissimi dal 32,78% di quattro anni e mezzo fa, ma le peggiori previsioni disfattiste sono state smentite, così come quelli che davano per morta la creatura politica di Beppe Grillo.
La campagna elettorale ha portato un programma decisamente progressista: salario minimo, difesa strenua del reddito di cittadinanza, pacifismo e quindi no all’invio di nuove armi all’Ucraina. La mossa di provocare la caduta del governo e di prendere le distanze dalla cosiddetta “agenda Draghi”, per quanto criticabile, ha pagato.
Ora sta a Conte e ai suoi fedelissimi decidere il futuro del Movimento: se proseguire nella svolta a sinistra oppure tornare a una linea più populista e ideologicamente sfumata. Una delle sfide della leadership del fu avvocato degli Italiani è proseguire la ripresa iniziata in questi due mesi, dimostrando che non si è trattato di un fuoco di paglia dovuto al reddito di cittadinanza, come le rimproverano (più o meno a ragione) i detrattori.
Terzo Polo: una bolla di sapone?
Nei prossimi mesi sarà interessante osservare anche le mosse del polo centrista, un po’ impropriamente detto anche “terzo polo” (in realtà sarebbe il quarto).
L’alleanza tra Azione e Italia Viva in realtà è nata in modo piuttosto rocambolesco: l’insofferenza reciproca tra i due leader, Carlo Calenda e Matteo Renzi, non è un mistero; ma alla fine, sia per le percentuali non altissime nei sondaggi, sia per evitare una raccolta firme lampo (Calenda aveva perso l’alleanza con +Europa, per via dell’accordo stracciato col PD), i due hanno dovuto mettere da parte l’orgoglio e scendere a patti.
Il buon 7,8% raccolto dimostra come il potenziale bacino centrista sia tutt’altro che esiguo e chieda a gran voce un soggetto politico in grado di rappresentarli. Soprattutto con il declino di Forza Italia, che, malgrado il discreto 8,3%, è ormai lontanissima dai fasti del passato.
Il dilemma adesso è se Renzi e Calenda (e i loro ego ipertrofici) sapranno convivere in nome di una prospettiva a lungo termine.
Il piano, secondo le indiscrezioni, sarebbe avviare nei prossimi mesi la costituzione di un nuovo partito in grado di competere alle elezioni europee del 2024. In tale consultazione Renzi sogna addirittura il primo posto per la lista centrista. Oggi il solo pensiero sembra un azzardo, ma si sa: il mondo è dei sognatori.
Un’idea alternativa
Come abbiamo visto, le forze alternative alla destra camminano in mezzo alle macerie. I prossimi mesi saranno decisivi per capirne il destino e le prospettive future.
L’auspicio, ad ogni modo, è che questi processi non si concentrino solo sulla leadership o su schemi di partiti e alleanze, ma si basino sulle idee, su una visione davvero alternativa dell’Italia.
L’italiano medio è stufo della politica politicante, e pretende da chi governa risposte sui problemi quotidiani. Da questo assunto si deve ricostruire la credibilità non solo dell’opposizione, ma della politica in generale. O è chiedere troppo?
Riccardo Minichella
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