La morte di Elisabetta II ha segnato la fine di un’epoca per il Regno Unito e per il mondo intero. Il nuovo sovrano, nonché suo figlio, Carlo III sarà chiamato a raccogliere una pesante eredità, ma anche a occuparsi di annosi problemi. Il carisma della defunta sovrana ha evitato pericolose degenerazioni; Carlo sarà all’altezza di chi l’ha preceduto?
Giovedì 8 settembre si è chiusa un’era per il Regno Unito, e non solo. Elisabetta II per oltre 70 anni è stata una costante in mezzo agli infiniti cambiamenti e stravolgimenti politici, tecnologici, sociali e di costume.
Certo, nel sistema istituzionale britannico, esempio da manuale di monarchia parlamentare, i poteri del Sovrano non vanno oltre la moral suation; ma, a prescindere dalle convinzioni di ciascuno sull’idea di monarchia, sarebbe ipocrita negare l’immensa influenza morale che Elisabetta ha esercitato sul suo Paese e l’intero Commonwealth: proprio la famiglia reale è stata, in questi anni, un simbolo sotto il quale britannici, canadesi, australiani, neozelandesi e tanti altri si sono riconosciuti e si sono uniti, anche in presenza di intense forze disgregatrici.
Con la morte di Elisabetta la corona è passata sulla testa del figlio, Carlo III: persona in passato fonte di grandi controversie, in primis per il suo matrimonio travagliato con Diana Spencer, ma che negli ultimi anni ha saputo riabilitare la sua immagine insieme a quella della seconda moglie (nonché storica amante) Camilla Parker-Bowles.
Nonostante ciò, il confronto con sua madre sarà inevitabilmente impietoso. A Carlo toccherà la gestione di diverse gatte da pelare nella famiglia Windsor: dai rapporti complicati coi duchi di Sussex Harry e Meghan alle gravissime accuse di violenza sessuale rivolte al principe Andrea, duca di York e fratello del nuovo capo di Stato, per il momento archiviate dietro risarcimento di circa 12 milioni di sterline.
Ma la sfida più importante per il Re sarà la conservazione di quella coesione interna che sua madre ha saputo salvaguardare in tutti questi decenni.
Scozia: il sogno indipendentista continua
La questione scozzese è da anni uno dei grandi problemi della Gran Bretagna. La Scozia ha aderito al Regno Unito con l’Atto di Unione del 1707, ma durante il regno di Elisabetta II è riemerso a nord del Vallo di Adriano un forte sentimento indipendentista.
Del resto sono molto forti le differenze culturali, religiose e anche giuridiche: il diritto scozzese risente delle influenze della civil law (fondata sui testi giuridici) a differenza di quello inglese, improntato alla common law (ovvero ai precedenti giuridici e quindi alle sentenze di tribunale).
Le crescenti pulsioni autonomiste hanno portato alla nascita, nel 1999, del Parlamento scozzese e all’attribuzione di maggiori competenze al governo locale. Un’importante svolta è arrivata poi nel 2011, quando lo Scottish National Party (SNP), partito dichiaratamente indipendentista, ha ottenuto la maggioranza assoluta nell’assemblea legislativa locale.
Di conseguenza, il governo scozzese è riuscito a organizzare un referendum per l’indipendenza scozzese il 18 settembre 2014: nella consultazione sono prevalsi i contrari alla secessione, ma i favorevoli hanno ottenuto un ragguardevole 44,7%.
La questione si è riaccesa nemmeno due anni dopo, a causa della Brexit: nel referendum del 23 giugno 2016 gli scozzesi hanno votato in maggioranza (62%) per rimanere nell’Unione Europea. La vittoria del Leave ha inevitabilmente rinfocolato le tensioni, e in molti con forza chiedono la convocazione di un nuovo referendum per l’indipendenza.
La prima ministra scozzese Nicola Sturgeon ha recentemente dichiarato che prevede la convocazione di una nuova votazione il 19 ottobre 2023, ma per ora il governo centrale sembra freddo in merito. In caso di indipendenza, andrebbe anche chiarito il destino della monarchia: il referendum del 2014 prevedeva che la Regina sarebbe rimasta sovrana anche a Edimburgo, ma non mancano, oggi, le spinte repubblicane.
Irlanda del Nord: una lacerazione insanabile?
Il problema nordirlandese è stato tra i più drammatici per il Regno Unito in questi decenni. Dopo la guerra anglo-irlandese, nel 1921 l’Irlanda, storicamente cattolica, ottenne l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Tuttavia, le sei contee a nord-est dell’isola, la cosiddetta Ulster a maggioranza protestante, decisero di rimanere unite a Londra.
Col tempo però la componente cattolica crebbe in dimensioni: proprio pochi giorni fa sono stati pubblicati i dati del Censimento generale del 2021, che per la prima volta vedono il sorpasso della comunità cattolica su quella protestante (rispettivamente al 45,7% e 43,48%). I cattolici in passato sono stati pesantemente discriminati dalla popolazione protestante, anche con politiche di gerrymandering (ossia di modellazione dei collegi elettorali) al fine di sfavorire la rappresentanza cattolica nelle istituzioni.
Le tensioni sono sfociate in 30 anni di lotte sanguinose tra i nazionalisti cattolici, che volevano la riunificazione con l’Eire, e gli unionisti protestanti, fedeli invece a Londra. Alcuni degli eventi più sanguinosi sono stati i massacri di Ballymurphy e di Derry, avvenuti a pochi mesi di distanza tra il 1971 e il 1972, nei quali il Reparto Paracadutisti dell’Esercito Britannico, intervenuto a difesa degli unionisti, uccise complessivamente 25 persone sospettate di far parte dell’Irish Republican Army (IRA), organizzazione paramilitare separatista.
Su tali eccidi per decenni è mancata piena chiarezza per via della ritrosia britannica a svolgere indagini obiettive: anzi, il comandante dei paracadutisti Derek Wilford venne perfino premiato dalla Regina. Soltanto nel 2010 il governo britannico ammise le sue responsabilità. Anche l’IRA fu responsabile di diverse nefandezze, tra le quali va ricordata l’uccisione di Louis Mountbatten, cugino della sovrana e mentore del principe Carlo, morto nell’esplosione della sua barca a Mullaghmore (Irlanda) nel 1979. Solo nel 1998 fu firmata la pace del Venerdì Santo, che normalizzò le relazioni tra Irlanda, Irlanda del Nord e Gran Bretagna, garantendo inoltre autonomia all’Ulster.
Le tensioni, tuttavia, non sono svanite del tutto, e anche in questo caso sono state rinfocolate dalla Brexit, alla quale i nordirlandesi sono in maggioranza contrari. La separazione dall’UE ha provocato nuovi problemi sul confine tra le due Irlande: la fine della libera circolazione di persone e merci era contraria a quanto stabilito dagli accordi del 1998, che prevedono un “confine invisibile”.
Al contempo, il cosiddetto backstop, ovvero la permanenza del Regno Unito all’interno dell’area doganale europea, pensata per sanare tale situazione, non è apprezzato dai fautori del Leave. Ovviamente gli unionisti osteggiano l’ipotesi di permanenza della sola Irlanda del Nord nello spazio doganale comunitario, perché si creerebbe un confine commerciale tra la Nazione costitutiva e la Gran Bretagna che sarebbe preludio del distacco definitivo.
L’accordo sulla Brexit prevedeva quest’ultima soluzione, ma la situazione è ancora in divenire, col governo conservatore britannico che aspira a una revisione. Nel frattempo, lo scontro tra unionisti e nazionalisti a Belfast, seppur senza violenza, rimane infuocato: alle elezioni dello scorso maggio il Sinn Fein, principale partito per la riunificazione dell’Irlanda, ha vinto col 29,3% le elezioni per il parlamento locale.
Il destino del Commonwealth
Ancora oggi il Regno Unito si trascina la pesante eredità di secoli di colonialismo. A partire dalla Seconda Guerra Mondiale, e in particolare sotto il regno di Elisabetta, si è progressivamente disgregato l’Impero britannico: una storia segnata anche da orrori e persecuzioni. I segni di questa stagione restano tuttavia tangibili: il sovrano britannico resta a capo di altri 14 reami, tra i quali spiccano Canada, Australia, Nuova Zelanda, ma anche Giamaica, Bahamas e tanti altri.
Il Re, inoltre, è a capo del Commonwealth delle Nazioni, un’organizzazione formata da 56 ex-colonie che mira alla cooperazione economica tra gli Stati aderenti e alla promozione della democrazia e dei diritti umani. Nei reami del Commonwealth è forte, tuttavia, il dibattito sull’opportunità di mantenere il Re britannico come capo di Stato: in molti ritengono questa scelta in contrasto con l’indipendenza dal Regno Unito e anche con la laicità di Stato (essendo il Re capo della Chiesa d’Inghilterra), oltre che una rievocazione di una storia piena di lati oscuri.
Neppure un anno fa, a novembre 2021, le Barbados sono diventate una repubblica, di fatto detronizzando Elisabetta che, formalmente, era loro regina. A seguito della sua morte, la Giamaica e Antigua e Barbuda hanno annunciato l’intenzione di indire un referendum sulla forma di Stato; e anche in Australia, dopo la consultazione fallita del 1999, si è riaperto il dibattito.
La sfida di Carlo III
Risulta evidente che il futuro della monarchia britannica, oltre che dello stesso Regno Unito, appaia pieno di incognite. Carlo III ne è consapevole, come dimostrano le visite in Scozia, Irlanda del Nord e Galles compiute nei giorni immediatamente successivi all’ascesa al trono.
Eppure l’eredità di sua madre sembra quanto mai pesante da raccogliere: per quando sia stata riabilitata negli ultimi anni, la sua immagine rimarrà inevitabilmente distante da quella carismatica e austera di Elisabetta, per via dei troppi scandali che l’hanno coinvolto in passato. In molti non a caso vedono nel figlio William (e in sua moglie Catherine “Kate”) il vero erede della regina Elisabetta.
Ma, nel momento in cui ascenderanno al trono, realisticamente gli attuali principi di Galles avranno oltre 50 anni (salvo abdicazione di Carlo), e quindi l’effetto novità sarà meno forte di quanto si possa pensare. Dopo 70 anni di guida sicura, il trono di Albione entra in acque ignote, e servirà un timoniere all’altezza per uscire dalla tempesta.
Riccardo Minichella
(Immagine di copertina da Meaww)