Siamo abituati a considerare il mondo religioso – cristiano e islamico in primis – come un modo profondamente maschilista. Tuttavia, la recente critica offerta dalla teologia femminista, soprattutto islamica, offre una potente rilettura del Corano da un’altra prospettiva.
Il mondo delle religioni è storicamente rappresentato, secondo il pensiero comune e non senza una certa dose di ragione, come un mondo prettamente “maschile” e “maschilista“.
Tale critica viene mossa considerando, nel complesso, tutta una serie di ambiti e contesti in cui un simile maschilismo ha trovato, attivamente, una sua concretizzazione storica: le relazioni sociali (familiari, comunitarie, statali, ecclesiastiche ecc.), i modelli di potere, le fattispecie storiche, la perpetuazione di dinamiche di sfruttamento ed oppressione in senso economico (critica marxiana, marxista e neomarxista) e, non da ultima, la teologia.
In parole povere, dunque:
- La storia delle religioni è costellata di storture riconducibili a una matrice maschilista;
- Queste storture riguardano ogni ambito immaginabile legato alla religione;
- Nel corso della storia il femminismo interessato alle dinamiche religiose ha sfidato tale “sovrastruttura di diseguaglianze” in molteplici modi;
- Una modalità in particolare, la teologia femminista, partendo da presupposti ed esperienze specifici e “interni” al contesto, ha avuto, sta avendo e avrà un grande impatto sulla comprensione di queste dinamiche.
La “piena umanità delle donne”
Ma innanzitutto, che cos’è la teologia femminista? La definizione canonica così la definisce: un processo di rivisitazione critica dell’impianto teologico di una religione, alla luce del movimento storico-politico-filosofico-morale che prende il nome di femminismo. Rosemary Radford Ruether, nella sua illuminante opera Sexism and God-Talk (1983), ne specifica le caratteristiche con parole di sicuro impatto.
Il principio critico della teologia femminista è l’affermazione della piena umanità delle donne. Tutto ciò che nega, sminuisce o distorce la loro piena umanità deve perciò essere ritenuto non redentore.
Rosemary Radford Ruether
Un simile approccio non è, ovviamente, svincolato dall’ambito sociopolitico. Non si tratta di una torre d’avorio, distinta dalla lotta sociale quotidiana (anche in ambito religioso) e perciò trascurabile. Al contrario, lo sforzo per cambiare e rendere più ragionevole l’impianto teologico di una religione può (deve?) essere il punto di partenza per tutti gli sforzi successivi. Ma, nello specifico, cosa significa cambiare in meglio un tale impianto?
Cos’è la teologia femminista?
La teologia è quella branca del sapere che ha per oggetto di studio la divinità, le sue manifestazioni e le strutture umane che da ciò derivano. La teologia femminista, come si è visto, si propone di rivedere e, se necessario, modificare dogmi e concezioni sull’oggetto di studio della teologia.
È espressione dunque di uno sforzo rivoluzionario, ma di rivoluzione intesa nel senso di Thomas Kuhn: l’obiettivo finale è un cambio di paradigma a livello speculativo, con conseguenze ovvie e dirette sulla società e sulle dinamiche di potere. Poi, che farsene di questo momento di rottura dipende dalla società stessa: la rivoluzione può benissimo non essere violenta (il che è sicuramente auspicabile). In secondo luogo, sarebbe più giusto parlare di “teologie femministe“, al plurale, perché ciascuna di esse è saldamente ancorata alla propria religione di riferimento.
La branca più nota è la teologia femminista cristiana: essa ha una storia antica e, nel corso del XX secolo, si è sistematizzata, producendo di conseguenza ampie moli di lavoro e speculazione che hanno portato a svelare un substrato ideologico fortemente maschilista all’interno del mondo cristiano. I risultati ci sono stati, pur non essendo ancora sufficienti né definitivi. Il lavoro da fare è ancora tanto, le diseguaglianze sono ancora imperanti, ma il ruolo della teologia nel modificare il modo di pensare al problema è stato sicuramente rimarchevole. I nodi centrali su cui si è sviluppata la discussione teologica femminista sono molti. Tra gli altri:
- Il ripensamento del ruolo della donna nella storia della salvezza;
- Il ripensamento dei molteplici dogmi anti-femministi nati e sviluppatisi nella Chiesa nel corso della sua storia;
- La rilettura critica del testo sacro, a cui si riconosce ovviamente il carattere ispirato, ma a cui si nega la pretesa di infallibilità, essendo al contempo un prodotto umano, in quanto tale dipendente dalle contingenze e dai modi di pensare del proprio tempo storico;
- La rivalutazione delle strutture ecclesiastiche e dei modelli di potere storicamente maschilisti, sempre con un occhio alle fonti primarie (i testi sacri).
Una svolta decisiva, dunque. Quello che non tutti sanno è che la teologia femminista non è una prerogativa cristiana. L’Islam, per esempio, ha assistito negli ultimi due secoli a un grande proliferare di personalità e movimenti femministi di tipo rivoluzionario (ma anche, spesso, radicale e conservatore), oppure più legati all’ambito teologico.
La teologia femminista islamica: qualche premessa
Nel suo libro Femminismo islamico: Corano, diritti, riforme (Carocci, 2010), Renata Pepicelli dedica un capitolo all’analisi della teologia femminista islamica. Quel che segue deve molto a tale analisi e si rimanda, per approfondimenti, al testo in questione.
Prima però una nota di contesto. L’Islam nel suo complesso è sempre stata considerata una religione tremendamente maschilista. Tale assunto non è però un dogma e dovrebbe essere discusso più approfonditamente. Qua basti ricordare come molte delle immagini che riconduciamo al sessismo intrinseco nella religione islamica ci colpiscano perché “visivamente” impattanti (come il velo), oppure perché non ne analizziamo il contesto (la devianza in certe comunità musulmane europee, povere, minoritarie e ghettizzate; la natura autocratica di certi governi estremisti, come Afghanistan, etc.).
Il problema del maschilismo c’è ed è grave, ma è sempre bene levarsi di dosso le proprie lenti occidentalocentriche e analizzare il problema nel profondo, soprattutto considerata la straordinaria disinformazione e l’incredibile ammasso di luoghi comuni che, nella nostra realtà sociale, definiscono “cosa sia l’Islam“.
Reinterpretare e rileggere l’Islam
Quel che è certo è che il paradigma islamico è ben diverso dal suo corrispettivo cristiano. La differenza forse fondamentale, che mette in crisi “in partenza” tutta una serie di possibili sviluppi femministi, è la natura assolutamente inviolabile del testo sacro. Non che la Bibbia non sia sacra per i cristiani, ma in quel caso di parla di “testo ispirato”. Il Corano è invece considerato rivelazione divina, in arabo, discesa integralmente da Dio. È parola di Dio nel senso più stretto del termine, ed è dunque infallibile. Addirittura, la dottrina islamica nei secoli ha affermato l’increazione del Corano, ovvero la sua preesistenza eterna.
È un ragionamento identico al dogma cristiano del “logos”, presente nell’incipit giovanneo (ma non nei tre vangeli sinottici), che implica la preesistenza del Cristo (“In principio era il Verbo”). In un certo senso, il Corano (e non Muhammad) ha per l’Islam il valore che Gesù Cristo (non i vangeli) ha per il Cristianesimo. Oltre al Corano, altre fonti primarie sono la sunna (tradizione profetica) e gli hadith (detti profetici). Questi ultimi, nel corso della storia, hanno assunto un valore così centrale da essere parimenti considerati infallibili (in senso generale), fino a poter abrogare certi versetti coranici.
Ciò detto, Pepicelli sostiene, non a torto, che la teologia femminista islamica sia la base teorica fondamentale per l’intero femminismo islamico, un vasto fenomeno dalle mille sfaccettature che, comunque, esiste almeno dal XIX secolo. Nello specifico, questa base significa: reinterpretazione del Corano e rilettura critica della sunna e degli hadith. Specificati i problemi di cui sopra, ve n’è in realtà anche un altro: “reinterpretare” significa esercitare ijtihad (= sforzo interpretativo); ma il sunnismo non accetta più da ormai un millennio tale sforzo.
“La porta dell’ijtihad è chiusa”, recita una formula molto conosciuta, e ciò che sapienti e credenti devono fare è semplicemente uniformarsi ad una delle precedenti tradizioni affermatesi come canoniche. La teologia femminista deve dunque scontrarsi anche contro questo concetto, tentando di riconsiderare la questione dell’ijtihad: in ciò è accompagnata dal più vasto movimento della Riforma islamica (salafiti, wahabiti etc.), che esercitano questa prerogativa in senso però opposto, nel nome di un ritorno dogmatico alle fonti primarie, con conseguenze spesso e volentieri restaurazioniste.
Riffat Hassan, la capostipite del movimento
La capostipite moderna della teologia femminista islamica è Riffat Hassan. Nel 1987, Hassan pubblica Equal before Allah? Woman-Man Equality in the Islamic Tradition. Nel saggio sostiene come la superiorità maschile non sia presente nel racconto coranico della genesi. A differenza del Cristianesimo, infatti, non vi sono riferimenti ad Eva “creata a partire da Adamo”. Da ciò derivano alcune considerazioni:
- Entrambi i sessi sono stati creati da Dio da un medesimo nafs (anima) e sono uguali davanti a Lui;
- L’unica discriminante tra gli uomini (e le donne) è la loro rettitudine e la loro conformità al volere divino;
- La subordinazione femminile (ivi compresa l’idea di Eva come “peccatrice originale”) sarebbe di sola derivazione giudaico-cristiana;
- L’oggettiva differenza biologica tra i due sessi ha solo fini riproduttivi, e non sminuisce il sesso femminile;
- Si deve rileggere in questa chiave il famigerato versetto 34 della quarta sura (“gli uomini sono preposti alle donne, perché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri e perché essi donino dei loro beni per mantenerle”): non sarebbe asserzione di superiorità maschile, bensì semplice indicazione di ripartizione dei ruoli sociali, che rimangono importanti;
- In virtù di ciò, alla donna è permesso l’uso di contraccettivi, in quanto dotata di pieno controllo sul proprio corpo e sulla pianificazione familiare; e lo stesso vale per l’aborto entro il 120° giorno di gravidanza, perché, secondo una rilettura ermeneutica, fino a quel momento l’anima non avrebbe ancora raggiunto il feto.
Dopo Hassan, emerse una nuova generazione di teologhe femministe, specializzate in ermeneutica coranica. Tra di esse, in particolare: Amina Wadud, Laleh Bakhtiar e Asma Barlas.
Amina Wadud e la “gender jihad“
Amina Wadud fonda il suo pensiero su una considerazione: che il genere sia una categoria di pensiero che percorre tutto il Corano, e non un semplice elemento del discorso; il Corano sarebbe espressione di due voci, una maschile e una femminile, ma quest’ultima sarebbe stata soffocata storicamente. Dio non si rivolge, nel Corano, ai maschi, bensì alle “anime”: mascolinità e femminilità non sono dunque concetti coranici, né tantomeno caratteristiche innate, ma determinate culturalmente.
Per quanto riguarda i versetti problematici, Wadud considera il Corano (ed è opinione comune) come testo polisemico, dalle molte interpretazioni, e sconsiglia l’estrapolazione di singoli versetti senza tenere in considerazione il più ampio contesto. Certe forme di oppressione sessista, ancora oggi ritenute valide alla dottrina musulmana, sono erronee nelle basi: il concetto di giustizia è mutevole storicamente, e anche se la schiavitù era una realtà nell’Arabia del Profeta, non per questo oggi può essere considerata dettame coranico.
Ancora una volta dunque, è fondamentale il contesto storico, tanto che lei stessa utilizza (anche in un titolo di un libro) il concetto di jihad di genere, del tutto svincolata dal suo significato militare (assolutamente contestuale). La sua battaglia non si limitò alla sola teologia: femminista a tutto tondo, guidò gruppi di preghiera e fece così tanto scalpore da essere criticata dal leader libico Gheddafi.
Laleh Bakhtiar e Asma Barlas
Laleh Bakhtiar, nel suo The Sublim Quran, spinse ancora più in là l’interpretazione del versetto 34 della sura 4, cercando delle soluzioni alternative, filologicamente valide, alla liceità del dettame coranico di “picchiare le mogli” qualora continuamente manchevoli di obbedienza.
Asma Barlas, allo stesso modo, ritiene che nei testi sacri islamici non sia contemplata alcuna forma di supremazia maschile sulle donne, riesaminando in chiave critica anche il concetto di poligamia, che sarebbe intanto contestuale, ma avrebbe anche delle ragioni puramente pratiche e specifiche del mondo arabo del VII secolo. Oltre a Wadud, Bakhtiar e Barlas, negli ultimi decenni si sono affermate, in qualità di valide studiose, numerose esperte (al femminile) di esegesi coranica, che con le proprie ricerche ed interpretazioni hanno contribuito a modificare concetti e pregiudizi fortemente radicati: su tutte Fatima Mernissi e Asma Lamrabet.
Concludendo, la teologia femminista islamica è un campo di studi florido e in espansione. Moltissimo resta da fare e l’avversità dell’apparato religioso islamico nei suoi confronti rimane forte. Ma, giova ripetere, la rivoluzione religiosa (alla Thomas Kuhn) poggia le sue basi su una riscoperta della teologia. L’unica alternativa è posizionarsi al di fuori del contesto religioso, ed esercitare forza distruttrice su dogmi e credenze. Lecito, certamente. Ma pericoloso (superficiale?), soprattutto in ambito islamico, perché escludente di una vastissima parte del corpo sociale di riferimento.
Matteo Suardi (Sistema Critico)
(In copertina Hasan Almasi da Unsplash)
La teologia femminista islamica – Il Corano da un’altra prospettiva è un articolo realizzato in collaborazione con Sistema Critico. Un gruppo di studenti universitari che si pone come obiettivo il racconto del reale in modo critico e giovanile, avvicinando le persone alle questioni che il mondo ci pone ogni giorno.