Nova di Fabio Bacà (Adelphi, 2021) è uno dei cinque finalisti al Premio Strega 2022 e segna il grande ritorno di Adelphi al Ninfeo di Villa Giulia. Come opera, dunque, sembra avere tutte le carte in regola per vincere il più prestigioso concorso letterario italiano, ma non tutto torna…
Fabio Bacà è noto principalmente per essere uno dei pochissimi esordienti italiani pubblicati da Adelphi (con Benevolenza cosmica, del 2019), casa editrice da sempre più propensa a far uscire classici o a recuperare grandi autori del passato. Anche per questo motivo, Nova partiva da premesse positive e un’ottima raccomandazione. Ed è allora un vero peccato che si risolva nel classico tutto fumo e niente arrosto.
Il tran tran di un annoiato bourgeois
Il protagonista di Nova è Davide Ricci, un distinto neurochirurgo che conduce una vita serena e agiata nella cittadina di Lucca.
Con lui ci sono la moglie Barbara, logopedista e fervida propugnatrice dell’etica del veganismo, e il figlio Tommaso, appassionato di astronomia e solitario adolescente impegnato nel confronto con le prime esperienze sentimentali e nella ricerca di sé, nella limatura di un’identità ancora embrionale e fumosa.
Bacà ricorre a un’interessante analogia per esprimere la confusione e l’improvvisa incombenza di problemi e rovelli che contrassegnano l’adolescenza.
Se crescere implica l’accumularsi di complicazioni, pensò, era quasi ironico che un astronomo appassionato come lui si fosse trasformato in un geologo dilettante della sua stessa triste stratificazione di problemi. E qual era il sedimento peggiore da contemplare? Dover attribuire alla ragazza di cui era innamorato il ruolo di principale impulso tettonico della sua balorda orografia di problemi.
Fabio Bacà
Nova (Adelphi, 2021)Le prime esperienze di Tommaso, tuttavia, rappresentano solo l’intreccio secondario che sottende il reale nucleo narrativo del romanzo, costruito attorno alla prospettiva e alle vicende del protagonista, il cui punto di vista è espresso da un narratore esterno a focalizzazione interna.
Fin dalle prime pagine, emergono le venature più macabre che impregnano la psicologia di Davide, anche in quel quadretto complessivamente felice tratteggiato all’inizio: la certezza di una quotidianità placida, vezzeggiata dalla bambagia del suo status borghese.
Il pensiero della morte
“A cosa pensa un uomo appena si sveglia?” Il romanzo inizia con questa domanda. Poi, dopo aver fornito una rassegna condensata delle ipotetiche e condivisibili risposte che potrebbero dare persone qualunque, innesta la prima nota cupa della narrazione non appena menziona il nome del protagonista: “Davide no. Davide pensa alla morte“.
Considera il tutto una specie di rituale, un antidoto ai periodi complicati che assume periodicamente da più di quindici anni. Apre gli occhi, fissa il soffitto di legno e riflette sulle implicazioni della fine della vita.
Fabio Bacà
Nova (Adelphi, 2021)Questa affermazione prelude a tutti gli spunti di riflessione del romanzo: una vita che scorre limpida e fluida come acqua, una quotidianità ordinaria, una famiglia serena; eppure il pensiero di morte e violenza si insinua e serpeggia anche in casi confortanti e gratificanti come questi, negli intimi pertugi del protagonista.
L’amore e la violenza
La deflagrante svolta, l’episodio che sconvolge la vita del protagonista fino a battergli la strada di un nuovo percorso di riflessione su quella dicotomia tra cultura e violenza che ha sempre suggestionato l’uomo, avviene in un ristorante, durante una serata qualunque assieme alla sua famiglia.
Barbara e Tommaso stanno aspettando Davide quando, all’improvviso, un avventore si fa avanti e, con fare molesto, pretende che la donna si unisca al suo tavolo di amici. Il protagonista è poco lontano, ma, annichilito e preda di un panico invalidante, si limita ad assistere alla scena, senza intervenire a difesa della moglie; e tutto questo finché uno sconosciuto non si fa largo tra la folla e non inchioda il molestatore al muro, minacciandolo con un coltello.
Barbara non viene a conoscenza della vigliaccheria di cui si è macchiato suo marito, ma Davide è bruciato da sensi di colpa tali da generare in lui la necessità di un brusco cambiamento e l’acquisizione di una nuova consapevolezza.
Questa scoperta lo pungola, spingendolo a mettere in discussione le sue certezze, che siano le verità scientifiche accluse alla sua professione o l’illusione di sicurezza che aveva sempre pensato poter proteggere lui e la sua famiglia da qualsiasi manifestazione di istinti primordiali.
Al centro del potere
Quando la minacce oblique del suo vicino di casa Lenci, nuove espressioni della violenza da lui sempre negata, lo turbano, i punti interrogativi sulla natura dell’essere umano divengono sempre più martellanti e più avidi di risposte; ed è proprio in questo improvviso barcollamento di tutte le sue certezze, di tutte le verità che pensava di aver trovato proprio nella cultura, che si esprime la contraddizione dell’essere umano: il discrimine tra istinto e ragione, tra verità scientifiche e verità più profonde che anche un uomo come Davide Ricci, imbevuto di una cultura di tutto rispetto, ignora.
Un giorno, però, gli capita di fare l’incontro fatidico con la persona che lo guiderà in questo percorso di rinascita e di crescita, di ricerca e di scoperta: Diego, monaco che, dopo le angherie di un passato gramo e rocambolesco, dedica la sua vita allo zen e quindi alla ricerca di quel qualcosa al di fuori. Di quel qualcosa di meglio.
Diego definisce lo zen “qualcosa che accoglierai con uno smagliante, incredulo – e da quel momento perenne – sorriso da idiota, “qualcosa di simile al grottesco, zoppo, ululante e scorticato sembiante del tuo autentico te stesso”. L’uomo, però, non è solo un monaco, ma anche lo stesso sconosciuto che al ristorante era intervenuto per difendere Barbara, lo stesso energumeno che aveva minacciato un altro uomo con un coltello.
Eppure, proprio questo personaggio, che aveva instillato in Davide riconoscenza ma allo stesso tempo sconcerto per il suo spettacolo di violenza gratuita ma finalizzata al bene, gli impartisce lezioni di vita che né la sua ormai mezz’età né tutte le conoscenze mediche accumulate negli anni gli avevano mai offerto.
Davide ha bisogno proprio di Diego, del suo polo opposto, dell’uomo che guarda in faccia la violenza per quella che è: un potere, un impulso insito nell’uomo, l’interferenza emotiva che, una volta a in relazione con l’impatto razionale, è capace di generare quel collegamento produttivo che può cambiare le cose, tanto da permettere il soccorso di una donna minacciata dalle molestie di uomo machista e aggressivo.
Violenza occidentale
Dio ha creato il mondo con la violenza. L’universo si è espanso nel nulla in virtù della pura violenza. Le nostre anime sono state salvate da un atto di violenza.
Fabio Bacà
Nova (Adelphi, 2021)In una intervista con Marco Rossari, Fabio Bacà afferma di aver tratto ispirazione per il suo romanzo da un articolo di Massimo Fini in cui è riportata una statistica che mostra che su dieci stupri sventati da cittadini, 8/10 di questi ultimi non sono italiani.
Questo è spiegabile alla luce di una società occidentale svilita –così la definisce Bacà – che preferisce negare la violenza e reprimerla del tutto attraverso la stele della civiltà piuttosto che accettarne l’esistenza al fine di domarla.
Po-chang diceva che andare alla ricerca della propria natura è come cavalcare un bue alla ricerca del bue: io aggiungo che il bue prima deve essere domato.
Fabio Bacà
Nova (Adelphi, 2021)Insomma, si tratta di un romanzo che tutto sommato macina tematiche interessanti per l’uomo contemporaneo; ma allora cosa non quadra? Per quanto l’autore millanti grande padronanza lessicale e un bagaglio culturale abbastanza ampio da permettergli di dissertare di questioni medico-scientifiche senza dubbio funzionali a una trama che ha come protagonista un neurochirurgo, le qualità che rendono meritevole uno scrittore e appassionante un romanzo sono ben altre.
Anzi, a onor del vero, lo stile eccessivamente artificioso, intellettualoide e quasi asettico nell’esagerata scientificità e nell’abuso di tecnicismi, per quanto si possa definire personale e facilmente identificabile, non aggiunge valore alla storia; piuttosto rallenta il ritmo narrativo, smussa la passione della lettura e, proprio come si è verificato nel mio caso, invece che carpire l’ammirazioni del lettore, instilla antipatia e noia per una prosa che sembra piegata più all’ostentazione che all’espressione della psicologia dei personaggi.
La forma è sostanza
Inoltre, la storia, per quanto possa essere intrigante e stimolante lo spunto narrativo alla base, ostica nella pluralità di momenti di sospensione: la Spannung della narrazione si verifica alla fine, e fin qua sembrerebbe tutto in regola, se non fosse per l’eccessiva placidità con cui la narrazione scorre prima di giungere a questo punto; e questo non solo per lo stile di scrittura borioso – sia chiaro, non ho niente in contrario alle prose un po’ ampollose e barocche, ma, in casi come questo, il troppo stroppia –, ma anche per una distribuzione disomogenea dei momenti-chiave e dei momenti di sospensione.
Ci sono molti dialoghi noiosi, come quelli tra Barbara e Davide, che, indipendentemente dal fatto che sia funzionali o meno alla narrazione – per esempio, quando si vuole tratteggiare la quotidianità del protagonista – sarebbero dovuti essere alternati in modo più equilibrato a una quantità maggiore di momenti culminanti e di dialoghi meno affettati, dai quali potesse trapelare meglio la personalità dei personaggi.
Anche le vicende adolescenziali e sentimentali di Tommaso – a mio parere, ben rappresentate e quasi più avvincenti della trama portante – mi sono sembrate fuori luogo all’interno dell’economia della narrazione, un tentativo di approfondimento psicologico che però non riesce a costruire un collegamento abbastanza forte con il punto focale del romanzo, con la riflessione sulla natura umana scaturita dalle vicende di Davide.
Quel che resta dei personaggi
Lo sforzo dell’autore di incasellare ogni personaggio in una propria identità è percepibile, ma comunque insufficiente a fare entrare il lettore in empatia con essi, persino con il protagonista: i dialoghi brevi che costellano il romanzo forniscono solo un accenno delle loro personalità, quanto basta a chi legge per elaborare un’idea generale, ma non permettono di scavare negli anfratti delle loro menti.
In più, il linguaggio troppo forbito e scientifico con cui l’autore riporta i pensieri di Davide rende il protagonista distante e alieno alla sensibilità del lettore. E, a dimostrazione di questa disattenzione per i personaggi, ci possiamo avvalere dell’esempio di Giovanni, misterioso figlio del vicino di casa Lenci che si presenta come carta velina per tutto il romanzo, tant’è che l’autore gli riserva al massimo due dialoghi.
Il fatto è abbstanza grave, considerando il ruolo determinante di Giovanni alla fine della storia. Per questo mi sarei aspettata un maggiore approfondimento psicologico. In conclusione, Nova è un romanzo pregno riflessioni stimolanti, affrontate però con modalità narrative inefficaci e incapaci di coniugarle con quel fine che si dovrebbe porre qualsiasi scrittore: appassionare.
Giulia De Filippis
(In copertina Casas, Jove decadent, 1899, olio su tela)
Questo articolo fa parte della rassegna di Giovani Reporter in attesa del Premio Strega 2022.