Un po’ come Calvino nel suo celebre romanzo del 1963, Sara Bichicchi racconta la sua esperienza di scrutatrice per il referendum giustizia 2022, tra urne vuote e deprecabili sprechi di materiale.
“Ci vediamo domattina alle 6.50”.
“Ma presidente, non sarà troppo tardi? Il seggio apre alle 7.00”.
Sguardo di chi la sa lunga, scrollata di spalle: “Tanto non verrà nessuno“.
La profezia del presidente del seggio elettorale in cui chi scrive è stata scrutatrice, in occasione dei referendum sulla giustizia del 12 giugno 2022, si è avverata. In una città senza amministrative, la giornata è scivolata via tra afa appiccicosa, zanzare fin troppo affettuose e un’estenuante attesa. Vana, perché gli elettori non sono mai arrivati.
Nessuna fila nei corridoi, nessuna ressa nel parcheggio. Non si sono fatti vedere nemmeno i rappresentanti di lista, che di solito pattugliano il seggio come squali, pronti, al momento dello spoglio, a scattare su ogni voto dubbio.
Nei seggi, invece, regnava un silenzio da deserto dei Tartari, e un’indolenza estiva che sembrava dilatare la giornata in eterno. È andata a finire che, con tanto tempo libero a disposizione, hanno preso piede i commenti: sul caldo, sull’affluenza, sullo “spreco” di questa giornata.
Uno spreco non ideale, s’intende, ma materiale: milioni di schede stampate, firmate e timbrate non sono mai state consegnate, e qualche elettore ha scosso la testa con disappunto di fronte a tutta quella carta inutilizzata (le cartiere sono tra le cosiddette industrie “energivore” di cui si fa un gran parlare oggigiorno, e il prezzo della carta è in continua crescita); l’unica consolazione è che, tra cinque anni, tutte queste schede inutili potranno essere riciclate.
Se poi si aggiungono alla carta le altre spese, tra cui i compensi degli scrutatori (di solito tre per ogni sezione, più un presidente e un segretario) e i costi di spedizione dei materiali, il conto è probabilmente abbastanza salato. Tanto dispiegamento di forze (e soldi pubblici) per una consultazione che, alla fine, si è rivelata un clamoroso flop.
La débâcle dei referendum sulla giustizia
I referendum sulla giustizia non hanno fatto breccia nel cuore dei cittadini. Anzi, con un’affluenza definitiva che si è fermata poco sopra il 20%, questi sono stati i referendum meno partecipati di sempre. Forse gli italiani sono davvero andati al mare, come qualcuno temeva e qualcun altro si augurava.
Da quando, nel 1991, Bettino Craxi suggerì (invano) agli elettori di starsene in spiaggia e di ignorare il referendum sulla preferenza unica, andare al mare in un weekend elettorale è diventato sinonimo di disertare una tornata poco interessante.
La spiaggia, quindi, è ormai la peggior nemica di chi ricerca un’affluenza alta in una consultazione estiva e la miglior alleata di chi spera nel fallimento. “Saranno al mare“, si diceva ieri, con rassegnazione, come se il Mediterraneo fosse il vero responsabile di questo tracollo.
Ma che cosa è andato storto?
La frenata delle amministrative
Accoppiare i referendum con le elezioni amministrative in un unico election day non è bastato per salvarli: l’affluenza delle comunali non è stata brillante (54,72% alle 23, in calo rispetto alla tornata precedente), segno di una crescente disaffezione per gli appuntamenti elettorali. Di conseguenza, l’effetto traino che queste avrebbero potuto avere sui referendum è stato molto limitato.
Una magrissima consolazione può arrivare solo dalla valutazione della massa degli astenuti: in questa rientrano, infatti, coloro che non si sono recati alle urne perché disillusi, non informati o poco motivati, ma anche chi consapevolmente ha deciso di non votare per impedire il raggiungimento del quorum.
Trattandosi di referendum abrogativi, la votazione sarebbe stata valida solo se vi avesse partecipato il 50% + 1 degli aventi diritto.
Questa tattica non è nuova. Nel 2005, infatti, a restarne vittima fu il referendum sulla fecondazione assistita: il fronte cattolico, guidato dal cardinale Camillo Ruini, invitò i cittadini ad astenersi e così affossò la consultazione, che si fermò al 25,9%.
Ma come distinguere gli assenteisti strategici da quelli non interessati? Se anche si riuscisse, in qualche modo, a stimare i due tipi di astensionismo, molte altre questioni resterebbero in sospeso. Possibile, ad esempio, che agli italiani non interessi il tema della giustizia? O magari i quesiti erano troppo tecnici e poco comprensibili? Ancora, quanto ha influito il poco entusiasmo dei partiti e dei media?
Queste domande saranno sicuramente al centro delle molte analisi che, da oggi, proveranno a cercare delle risposte. Possibilmente più costruttive di quella dataci ieri da un elettore deluso: “Siamo un popolo di coglioni”.
Sara Bichicchi
(In copertina rielaborazione da Fanpage)