Mancano pochi giorni ormai al famigerato referendum giustizia in programma il 12 giugno. In questo articolo troverete una guida sintetica per informarvi sui cinque quesiti referendari.
Il contesto del referendum giustizia
Il 12 giugno 2022 i cittadini italiani saranno chiamati ad esprimersi su cinque quesiti referendari in materia di giustizia. Si tratta, nel complesso, di un referendum abrogativo presentato ai cittadini nell’estate 2021, in un contesto di forte entusiasmo nei confronti di questo istituto di democrazia diretta: allo stesso periodo risalgono anche le proposte referendarie sul fine vita e sulla legalizzazione della cannabis, ritenuti però inammissibili dalla Corte costituzionale.
Questo referendum in materia di giustizia è stato proposto da Lega e Radicali italiani. Attualmente è sostenuto anche da Forza Italia, Azione e Italia Viva; Fratelli d’Italia ha espresso delle perplessità rispetto ad alcuni quesiti; il Partito Democratico ha optato per la libertà di voto, mentre il Movimento 5 Stelle si è detto nettamente contrario.
Il presidente della Corte Costituzionale, Giuliano Amato, ha sottolineato come il referendum abrogativo non sia il mezzo più idoneo per gli scopi perseguiti, rimarcando che spetta al Parlamento, rappresentante del potere legislativo, rispondere alle esigenze dei cittadini attraverso l’approvazione di nuove norme che disciplinino materie tanto delicate.
La Corte costituzionale ha autorizzato cinque dei sei quesiti proposti; quello ritenuto inammissibile riguardava la responsabilità civile dei magistrati.
Primo quesito: legge Severino
Il primo riguarda l’abrogazione del d. lgs. 235/2012, quindi uno dei decreti attuativi della c.d. legge Severino, dal cognome della Ministra della Giustizia che se ne fece promotrice. La legge disciplina in tema di prevenzione e lotta alla corruzione.
Il decreto legislativo, nello specifico, predispone che chiunque abbia ottenuto una condanna definitiva superiore ad un certo periodo di tempo in relazione al reato commesso, sia incandidabile alle cariche pubbliche; il decreto prevede inoltre che chiunque ricopra una carica venga sospeso dal suo ruolo anche in assenza di una condanna definitiva. Nel caso in cui il decreto venisse abrogato, l’eventuale interdizione sarebbe lasciata alla discrezione del giudice.
I sostenitori dell’abrogazione ritengono che questo meccanismo sia inutile ai fini della lotta alla corruzione, ma soprattutto criticano i vuoti di potere causati dalla sospensione automatica di cui sopra, che spesso colpisce persone dichiarate successivamente innocenti. Coloro che si oppongono all’abrogazione fanno notare come l’intervento riguardi l’intero decreto, e non solo la parte in cui si predispone la sospensione in assenza di una condanna definitiva.
Secondo quesito: custodia cautelare
La custodia cautelare è una misura che prevede una limitazione della libertà personale di un indagato in tre casi specifici: pericolo di fuga, di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato ex art. 274 c.p.p.. Il referendum si propone di abrogare una parte del suddetto articolo, dove disciplina il ricorso alle misure cautelari per pericolo di reiterazione del reato.
I sostenitori ritengono che la custodia cautelare non sia più utilizzata come misura emergenziale, ma come prassi, abusando della terza categoria prevista dal codice; se ne richiede quindi l’abrogazione in relazione ai reati meno gravi.
I favorevoli, poi, ragionano sulle condizioni in cui versano le carceri italiane, che sono state oggetto, in svariate occasioni, di sentenze di condanna dello Stato italiano da parte della Corte EDU [Corte Europea dei Diritti dell’Uomo]: si tratta di criticità legate al sovraffollamento, a condizioni igieniche pessime, ad alti tassi di suicidio e depressione.
Un altro punto che viene sottolineato riguarda il dispendio economico che questa misura comporta: nel momento in cui una sentenza definitiva dovesse stabilire che un individuo che è stato sottoposto a misure cautelari è innocente, questo avrà diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, proporzionato al lasso di tempo in cui la sua libertà personale è stata sottoposta a restrizioni.
Chi si oppone al quesito riconosce l’abuso che viene fatto di questa misura, ma sottolinea che il codice di procedura penale provvede già adesso a porre delle restrizioni in merito.
Terzo quesito: separazione delle carriere
Per comprendere il significato di questo quesito è necessario specificare che i magistrati si suddividono in due macro-categorie: magistrati giudicanti e magistrati requirenti. I primi sono i giudici, che in un processo svolgono un ruolo di soggetti super partes, caratterizzati da terzietà e imparzialità (art. 111 Cost.); i secondi sono sostanzialmente i Pubblici Ministeri, coloro che si occupano delle indagini e che in un processo rappresentano la pubblica accusa.
Attualmente un magistrato, nel corso della sua carriera, può cambiare funzione per un massimo di quattro volte; con l’approvazione del referendum un magistrato non potrebbe più cambiare ruolo: una volta scelto all’inizio della carriera rimarrebbe il medesimo fino alla fine.
I sostenitori ritengono che la vicinanza che esiste tra magistrati requirenti e giudicanti metta in pericolo la distinzione dei ruoli in un processo, ragione per cui sarebbe necessaria una netta separazione delle carriere.
Chi si oppone alla modifica, invece, afferma che una materia così delicata non possa essere oggetto di un referendum abrogativo. Costoro sottolineano come il titolo IV della Costituzione, che disciplina la Magistratura, si riferisca ai magistrati in modo generale: separare le due carriere isolerebbe la funzione requirente dalla cultura giurisdizionale, slegandola ipoteticamente dalle regole deontologiche e sottoponendola all’influenza dell’esecutivo.
È opportuno un cenno ad alcuni dati per dare un’idea del fenomeno: dal 2016 al 2021, i magistrati che sono passati dalla funzione requirente a quella giudicante sono due su mille, quelli che hanno fatto il passaggio inverso tre su mille.
Quarto quesito: valutazione delle carriere dei magistrati
Il quarto quesito riguarda la modalità di valutazione delle carriere dei magistrati all’interno del CSM [Consiglio Superiore della Magistratura]. Attualmente il meccanismo prevede che siano gli stessi magistrati a dare un giudizio sulle loro carriere in modo reciproco; con l’abrogazione prevista dal referendum si permetterebbe anche agli avvocati e ai docenti universitari in materie giuridiche di esprimere una valutazione.
I sostenitori del referendum ritengono che il sistema attuale non sia oggettivo: la percentuale di valutazioni positive negli ultimi cinque anni si aggira intorno al 99,2%. Chi si oppone ritiene, invece, che il nuovo metodo potrebbe mettere in pericolo la terzietà del giudice: la consapevolezza del magistrato che l’avvocato che ha di fronte in un processo possa influenzare la sua carriera, potrebbero portarlo a valutare gli elementi in modo differente.
Quinto quesito: elezioni nel CSM
Il CSM è l’organo di autogoverno della Magistratura che, essendo slegato dall’esecutivo, ne garantisce l’indipendenza. È composto da ventiquattro membri, di cui due terzi eletti dai magistrati (membri togati) e un terzo dal Parlamento in seduta comune (membri laici). Attualmente, per presentare la loro candidatura i membri togati hanno bisogno di almeno venticinque firme da parte di altri magistrati: devono quindi essere sostenuti da una corrente. All’interno del CSM, come in qualsiasi organo di governo, esistono infatti delle correnti politiche.
Il referendum si propone di diminuirne il peso, permettendo ad un magistrato di candidarsi senza il bisogno delle firme. Chi si oppone ritiene che questo non sarebbe un mezzo efficace, in quanto le correnti all’interno dell’organo rimarrebbero. C’è chi ritiene anche che questo non costituisca un reale problema, anche in virtù della libertà di associazione garantita dall’art. 49 della Costituzione.
Chi crede, invece, ci siano delle criticità, si riferisce in particolare agli accordi che le correnti intessono tra loro in materia di nomine e conferimento di incarichi: basti pensare al caso Palamara.
L’inammissibilità del quesito sulla responsabilità civile dei magistrati
Il progetto dei promotori prevedeva un ulteriore quesito relativo alla responsabilità diretta dei giudici. Attualmente la materia è disciplinata dalla legge 117/1988, detta legge Vassalli, riformata in parte dalla legge 18/2015. Questa norma prevede che chiunque abbia subito un danno ingiusto possa agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali. Si prevede quindi una responsabilità indiretta: il privato agisce contro lo Stato che a sua volta, eventualmente, agirà sul singolo magistrato.
Il referendum prevedeva un ritaglio di diverse disposizioni della legge Vassalli, tale da ricavare un’azione risarcitoria nei confronti del singolo magistrato. La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il quesito in quanto si sarebbe trattato di un’abrogazione positiva, ovvero produttrice di una nuova norma non prevista dal legislatore. Un altro elemento sottolineato dalla Corte riguarda l’oscurità che avrebbe caratterizzato l’azione risarcitoria, di cui non venivano disciplinati i termini e le condizioni di procedibilità.
Riforma Cartabia
Dopo l’approvazione alla Camera, è in esame al Senato un disegno di legge che delega il Governo a riformare l’ordinamento giudiziario. Questo disegno tocca le materie previste dagli ultimi tre quesiti del referendum. Per quanto riguarda la separazione delle carriere, si prevede che venga data la possibilità di cambiare funzione una sola volta entro i primi dieci anni di servizio. Rispetto alla valutazione delle carriere, la riforma permetterebbe solo agli avvocati di esprimersi e non ai docenti universitari, come previsto dal quesito referendario. Infine, renderebbe il sistema elettivo all’interno del CSM più complesso, combinando sistemi maggioritario e proporzionale e rimuovendo l’obbligo delle firme.
È importante sottolineare che, se la riforma venisse approvata prima delle consultazioni, i quesiti referendari andrebbero riesaminati; nel caso opposto, quindi se il referendum venisse approvato, e successivamente venisse approvata la riforma, il comitato promotore potrebbe aprire un contenzioso davanti alla Corte costituzionale.
Affluenza e diritto di voto
Trattandosi di un referendum abrogativo, affinché le votazioni abbiano un effetto, è necessario il quorum strutturale: il 50% + 1 degli aventi diritto deve recarsi ai seggi. Perché il referendum venga approvato, poi, è necessario che la maggioranza si esprima positivamente. Nonostante in quasi mille comuni le votazioni per il referendum siano accorpate con le amministrative, Demòpolis e SWG stimano che l’affluenza alle urne si aggirerà intorno al 30%.
La criticità che salta subito all’occhio in relazione a questi quesiti è l’eccessivo tecnicismo: come si può pretendere che un corpo elettorale, che lo Stato non ha mai avuto interesse a educare in materia di funzionamento degli organi e delle istituzioni, si esprima su tematiche così settoriali e percepite come distanti?
Riflettendo sul consistente astensionismo che sempre più caratterizza il nostro Paese, ho ragionato sulla mia condizione di studentessa fuori sede che non potrà votare se non nel suo comune di residenza; mi sono quindi chiesta che cosa significhi garantire il diritto di voto. Nell’anno accademico 2017/2018 circa il 27% degli studenti universitari era iscritto ad un corso di laurea in una regione diversa da quella di residenza – e si tratta di una percentuale in continua crescita.
La categoria di studenti e lavoratori fuori sede è un bacino di potenziali elettori che non vengono in nessun modo sostenuti nell’esercizio del loro diritto. Votare diventa così una prerogativa di chi ha la possibilità materiale (e quindi economica) di tornare nel comune di residenza, perché lo Stato non garantisce nessuna alternativa.
Sara Nizza
(Immagine di copertina da Breitbart, relativa al precedente referendum)