
Negli ultimi tempi i social hanno contribuito a creare un nuovo tipo di estetica, che, da quando il Metaverso ha iniziato ad occupare una posizione di rilievo nella nostra vita, addirittura oscurando quella che è la realtà tangibile di cui ci circondiamo, è giunta al punto di filtrare anche ogni pensiero in merito al concetto di bellezza. Esiste solo la perfezione. Il bello singolare, ormai, non piace più. Ma siamo davvero così condizionati?
L’importanza dei profili social
Se si pensa al web come un ambiente cittadino alternativo a quello in cui viviamo, il piano urbanistico è scritto e stabilito da Instagram e dai social. I palazzi sono di una certa altezza, con un determinato numero di finestre che devono rispettare una determinata scala cromatica. Insomma, è difficile distinguersi in strutture così ben definite e preimpostate.
Il livellamento di questi panorami digitali spinge, oggi, molti profili innovativi e stanchi a costruire case, strade, finestre diverse. La generazione cresciuta con i social, quella che da anni viene definita “generazione Z“, inizia a dissociarsi da quelli che sono i canoni da copertina, o meglio da profilo.
Persone in gruppo, ma più sole che mai
Con l’avanzare sempre più in discesa del politically correct (un concetto molto discusso, che divide anche il pubblico più proiettato verso il cambiamento, nei temi di attualità) si è giunti ad una sensibilizzazione non poco importante riguardo la bellezza perfetta – aggiungerei quasi malata – che straborda dai social. Più se ne parla più si scardinano stereotipi e pregiudizi che inquinano le nostre menti e ci spingono a sentirci non adatti, inappropriati e fuori luogo.
La necessità sociale delle persone, che si concretizza in uno spasmodico bisogno di accettazione all’interno di un gruppo, è tale da spingersi ben oltre i propri limiti pur di sentirsi parte di qualcosa.
Anche se questo significa entrare nel gioco, e collaborare con l'”esaltazione del bello estetico” pur non credendoci in prima persona. In questo modo si entra, anche inconsapevolmente, nel meccanismo di replica del canone e di offesa di ciò che sorpassa e travalica il confine.
Gli “Instagram Brutti”
Ad oggi, il confine da varcare si è ridotto al minimo. Gli “Instagram brutti” vengono esaltati e celebrati. Lo confermano le numerose pagine come @zerosbattincucina, @normalizenormalhomes, @libri.brutti e i rispettivi numeri di like e follower che ne testimoniano l’approvazione.
E, del resto, emerge forte anche il bisogno di scardinare i modelli da i quali siamo tempestati da anni tanto da farci sentire persi ed inadeguati. Tutto questo può essere considerato una conseguenza della situazione pandemica, che ci ha costretti a condividere il mondo che ci circondava, senza idealizzarlo o modificarlo, ma mostrandolo così come si presentava nella realtà.
Una ventata d’aria fresca, certamente, ma anche una doccia fredda per coloro che confondono Instagram con la vita vera.
Il bello è un nascondiglio
È molto difficile rispecchiare esattamente quello che mostriamo su un profilo Instagram così come lo è nel palcoscenico sociale. I social sono e rimangono pur sempre delle vetrine: dietro si nasconde molto altro. Si chiama pudore, un concetto spesso confuso e scambiato per intimità, che si sta perdendo nel mondo virtuale.
Siamo tutti abituati ad entrare e far entrare nelle nostre vite chiunque ci segua, condividendo i momenti belli, quelli brutti, tutto ciò che riguarda la sfera privata, intesa come quella cerchia dei sentimenti che si riserva ad un pubblico stretto. Attualmente, le poltrone sono aumentate e gli spettatori, nel buio della sala, cominciano ad essere sempre di più.
Se è possibile, e anche relativamente facile, oggi, portare in scena la nostra intimità, talvolta i riflettori puntati su di noi ci accecano così tanto da non farci ricordare che dietro le quinte c’è la vita vera.
Nascondere, distrarre lo sguardo, sono tutte strategie del bello. E poiché i social non corrispondono alla vita vera è bene chiedersi se il bello sia ciò che non viene pubblicato, ciò che non è considerato giusto o estetico. E se si posta ogni singola sfumatura della nostra pubblica vita privata, comprese le bruttezze, allora cosa può essere considerato bello davvero?
La completa visibilità dell’oggetto annienta anche lo sguardo. Solo il ritmico alternarsi di presenza e assenza, di velamento e svelamento, tiene desto lo sguardo.
Byung-Chul Han. La salvezza del bello (Nottetempo, 2019)
Cos’è bello, cos’è brutto?
In passato gran parte dei profili Instagram rispondeva e chiariva le distinzioni tra bello e brutto. Oggi, invece, si può iniziare ad affermare che il confine non è più così netto. Ciò che ha successo è il sentimento, l’autenticità e tutto quello che riguarda l’interiorità dell’individuo. O almeno, dovrebbe essere così.
Proprio a questo punto entra in gioco quello che Kant chiamava “tratto autoerotistico del bello”: il bello è un sentimento soggettivo. Non è l’altro che rapisce il soggetto, ma il sentimento di piacere al cospetto del bello non è che il sentimento di piacere che il soggetto prova per se stesso.
In parole semplici: non è bello ciò che è considerato bello, ma è bello ciò che ci rispecchia e ci fa sentire veri. Bellezza è dunque autenticità. E quest’ultima deve essere libera da etichette che la categorizzano come bello o brutto. Bellezza è libertà. Nei social, come nella vita vera, dovremmo essere tutti più autentici. Dovremmo essere tutti più liberi.
Maddalena Petrini
(In copertina Eaters Collective da Unsplash)
Per approfondire: Come guardiamo oggi le fotografie? (un articolo di Camilla Galeri).
La celebrazione del brutto, ai tempi di Instagram è un articolo di Voci, una rubrica a cura di Elettra Dòmini.
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