
Per la seconda volta di fila, l’Italia guarderà dal divano i Mondiali di calcio. Uno scenario inimmaginabile appena pochi mesi fa, forti dell’Europeo vinto a Wembley. Tuttavia, i problemi sono sotto gli occhi di tutti da anni, e nessuno sembra veramente interessato a risolverli.
Sono passati appena 9 mesi dalle notti magiche di Euro 2020, da quel trionfo europeo che molti avevano considerato fantascientifico, nonostante nei precedenti tre anni Roberto Mancini avesse rilanciato la nostra nazionale, portandola ad una striscia record di 37 risultati utili consecutivi. In quella magica notte dell’11 luglio era sembrato che l’Italia fosse tornata a pieno titolo tra le potenze internazionali del calcio; posto che, del resto, le spetterebbe quasi di diritto, visti i 4 titoli mondiali in bacheca.
Tuttavia, sono bastati appena nove mesi a sgretolare tali certezze: l’assurda sconfitta a Palermo contro la Macedonia del Nord ha sancito la mancata qualificazione ai mondiali di Qatar 2022. Per la seconda volta di fila, gli Azzurri guarderanno dal divano il campionato più importante, l’evento più seguito al mondo: non era mai successo. Oltretutto, nelle ultime due partecipazioni l’Italia non era andata oltre la fase a gironi. Insomma, nel 2026 saranno almeno 20 anni che l’Italia non disputa una partita nella fase a eliminazione diretta della competizione iridata: dal 9 luglio 2006, dalla Notte di Berlino.
Sarebbe stupido addossare tutte le responsabilità di questa débâcle a Mancini al suo gruppo. Questi ultimi, ovviamente, hanno la loro fetta di colpe, come testimoniano il brusco calo di rendimento e i risultati da settembre a oggi, inclusi i due rigori sbagliati da Jorginho tra andata e ritorno contro la Svizzera, da noi battuta 3-0 agli Europei. Ma i risultati della Nazionale nelle ultime quattro coppe del mondo, insieme ad altre evidenze, impongono una seria riflessione sullo stato di salute del nostro movimento calcistico: un’industria che, incluso l’indotto, è responsabile di un giro d’affari di circa 15 miliardi di euro all’anno.
Giovani talenti cercansi
In un certo senso, il calcio italiano sembra essere rimasto proprio al 2006. La Rosa della squadra di Lippi aveva nomi di indubbia caratura: Buffon, Totti, Del Piero, Pirlo, Toni, Inzaghi, De Rossi, Cannavaro e via discorrendo. Alcuni di loro sarebbero rimasti nel giro della nazionale fino al 2017, sintomo di un ricambio generazionale che tarda ad arrivare. Purtroppo il problema principale è sempre quello: la crescita di nuovi giovani.
Nelle squadre di serie A i calciatori con meno di 21 anni sono in media 2,7, e di questi solo 0,24 sono schierati come titolari nella massima serie, disputando complessivamente appena il 4% dei minuti nel campionato in corso. Anche le primavere non se la passano meglio: qui 10 club su 18 hanno oltre 10 stranieri in rosa.
Di conseguenza, tra gli Azzurri di oggi, pochissimi possono essere davvero definiti campioni di livello internazionale: Donnarumma, Verratti, Jorginho, forse Chiesa. La situazione è ben spiegata da Paolo Nicolato, allenatore dell’Under-21:
“Il calcio italiano rischia di subire questa situazione (la penuria di giovani, nda), abbiamo bisogno di ragazzi per la Nazionale A. Se continuiamo così, dovremo pescare dalla Serie C o trovare oriundi. In attacco praticamente non gioca più nessuno. L’Europa ci sta insegnando molte cose, dobbiamo avere umiltà e occhi.”
Paolo Nicolato
Tutto il contrario di quanto accade all’estero, dove i migliori prospetti vengono impiegati nelle seconde squadre perché facciano esperienza: in Italia solo la Juventus (e solo dal 2018) ha istituito una selezione under-23.
Gli allenatori ci salveranno?
A dare lustro al nostro movimento calcistico sembrano essere rimasti i soli allenatori (se si escludono gli arbitri, al di là delle solite polemiche interne). Sono infatti diversi i mister che allenano prestigiose squadre straniere: da Ancelotti al Real Madrid a Conte al Tottenham, passando per De Zerbi a capo del martoriato Shaktar Donetsk. Senza contare i tanti tecnici che hanno in passato guidato compagini all’estero o comunque di indubbia caratura internazionale: Allegri, Sarri, lo stesso Mancini.
Tutti questi sono calcisticamente figli di un’altra epoca, in cui l’Italia era davvero una superpotenza di questo sport. Ma visto il decadimento che sta vivendo il nostro calcio, anche questa fortuna, che finora ci ha permesso di limitare i danni, sarà destinata a finire. E a quel punto l’Italia rischia di ritrovarsi definitivamente nella serie B del calcio mondiale – ammesso che già non lo siamo.
Una rinascita lontana
Ormai è dal 2010 che si parla di rifondazione del calcio italiano. E finora, dopo ogni débâcle mondiale, si è sempre ritenuto sufficiente nominare CT della Nazionale un “nome forte” (nell’ordine: Prandelli, Conte e Mancini), credendo così di risolvere così ogni problema. L’unico risultato ottenuto, anche grazie a buone prestazioni agli Europei, è stato quello di mettere la polvere sotto il tappeto.
È evidente che le società debbano investire sui loro vivai, sostenendo i giovani talenti italiani. Ma i club sembrano latitare, poiché la spasmodica ricerca del risultato immediato non permette loro di fare scelte a lungo termine. Poche sono le eccezioni virtuose, tra cui il Sassuolo e l’Atalanta. E questa è anche una delle cause della crisi che vivono i club italiani in Europa: non è un caso che l’ultima Champions vinta da un’italiana risalga al 2010.
Bisogna soprattutto riconoscere che l’esigenza di rilanciare il nostro movimento non è solo dovuta a mere ambizioni di prestigio, ma alle ricadute economiche e sociali che possono essere generate dal calcio, e dallo sport in generale. Tuttavia, è risaputo che chi invoca lungimiranza nel nostro Paese è un profeta nel deserto, in qualsiasi ambito: come ha laconicamente ricordato Gian Piero Ventura, il capro espiatorio della mancata qualificazione del 2018: “Cinque giorni dopo l’eliminazione dal Mondiale c’è stata Juve-Inter, e da allora nessuno ha più parlato di riforme“.
Riccardo Minichella
(In copertina Pexels da Pixabay)
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