
I fondamenti dello Stato liberaldemocratico
Uno dei princìpi fondanti delle moderne democrazie liberali occidentali è la separazione dei poteri. Un’altissima scoperta dell’Illuminismo, in particolare di Montesquieu, che nello storico saggio Lo spirito delle leggi, nel lontano 1748, teorizzò per la prima volta la necessità di separare il potere politico dal potere amministrativo, di modo che, qualunque forza politica fosse salita al potere seguendo i corsi e ricorsi della Storia, il cittadino che avesse sostenuto la parte opposta sarebbe stato trattato esattamente come tutti gli altri da parte degli organi dello Stato.
Oggi, il principio si è per fortuna consolidato e buona parte della popolazione mondiale vive sotto forme di Stato che riconoscono il pericolo dell’accentramento della sovranità assoluta nelle mani di un unico individuo o anche di un’assemblea. Siamo andati anche molto oltre nella nostra accezione di termini quali democrazia o uguaglianza davanti alla legge, ma il princìpio è rimasto fondamentalmente lo stesso: un’Assemblea che scrive le leggi; un Governo che le esegue; un Apparato giudiziario che dirime le controversie.
Non è una novità che dopo 270 anni dalla pubblicazione del saggio di Montesquieu molte cose siano cambiate, in particolare da quando nel nostro Paese vige la Costituzione repubblicana del 1948 e migliaia di regolamenti parlamentari, leggi speciali, codici, decreti ministeriali, regolamenti governativi, decreti del Presidente della Repubblica delineano in pressoché ogni circostanza le procedure da seguire, le forme da rispettare, i poteri, la composizione, l’organizzazione, le funzioni, l’elezione o la nomina di ciascun organo.
Le mutazioni del paradigma democratico-costituzionale
In virtù di tutto questo, è naturale che si siano formate numerose declinazioni del modello iniziale, diverse da Paese a Paese, ma soprattutto diverse nel tempo, visto che, considerando soltanto il periodo della nostra Repubblica, i ruoli di Parlamento, Governo e Magistratura sono profondamente mutati. Il Parlamento ha perso parte della propria centralità come legislatore, il Governo ha acquisito ampi poteri in termini di regolamentazione autonoma e di decretazione, anche al di fuori, spesso, delle reali situazioni di urgenza previste dall’articolo 77 della Costituzione.
Al contempo, così come hanno fatto notare insigni giuristi quali Galgano e Grossi, la produzione del diritto si è decentrata e il giudice, monocratico o collegiale che sia, ha progressivamente acquisito sempre maggiore rilevanza nella formulazione del diritto vigente. Parte della dottrina sostiene che questo sia un male perché i giudici non hanno legittimazione democratica e, nei sistemi di civil law come il nostro, sono di fatto dei funzionari dello Stato, burocrati con il potere di decidere del destino della vita delle persone.
Pertanto, il ruolo del giudice dovrebbe essere quello di applicare la legge così come è scritta, secondo il metodo, che deriva sempre dall’illuminismo, del sillogismo giuridico, teorizzato da Cesare Beccaria in Dei delitti e delle pene (1764), secondo l’ideale di giudice come “bouche de la loi” (bocca della legge), per scomodare ancora l’illustre conte transalpino.
La dimensione politica del diritto
Fortunatamente, questo tipo di opinioni costituisce oggi una minoranza superata dalla Storia e da un mondo che spesso non riesce ad aspettare le lentezze dei sistemi parlamentari moderni in termini di evoluzione giuridica, cosicché i giudici si ritrovano a interpretare le disposizioni di legge, adattandole al caso concreto, o a creare nuovo diritto partendo dai princìpi fondamentali dell’ordinamento e dalla prassi per enucleare nuovi paradigmi, come è successo per i contratti di leasing e di factoring, frutto della nuova Lex Mercatoria di Galgano.
Lenin sosteneva che nella futura società comunista nata dalla rivoluzione il diritto privato si sarebbe risolto nel diritto pubblico, e così ammettono anche tanti studiosi del diritto comparato, che ravvedono in questo uno dei tratti caratteristici dei sistemi socialisti.
Tale destino sicuramente non riguarda un sistema economico capitalista come il nostro, ma il sunto teorico del messaggio contenuto in Stato e rivoluzione (1917) ha un grande insegnamento da trasmetterci nell’interpretazione del diritto, un filtro ripreso, da un punto di vista completamente differente, negli anni ’70 dal filone dei Critical legal studies nelle università americane: il diritto è intrinsecamente politico, perché rispecchia i rapporti sociali, economici e politici vigenti in un dato momento storico e li applica a tutti coloro che vivono nel sistema politico di cui quel diritto costituisce l’ordinamento.
Se questo è vero, e non è detto che lo sia, il ruolo del giudice va completamente ripensato: che cosa diventa una sentenza se non l’interpretazione che il giudice dà in relazione a un singolo caso dei rapporti intrinseci della società nel momento storico in cui la emette?
Il giudizio di ammissibilità sui referendum
Nel corso degli ultimi mesi la scena mediatica italiana è stata dominata, tra le altre, dalle notizie provenienti dal palazzo della Consulta. La Corte Costituzionale il 15 febbraio ha espresso il primo verdetto sull’ammissibilità dei referendum che hanno visto ampie fette della società civile e dei partiti impegnarsi nella raccolta delle 500.000 firme necessarie durante l’estate 2021. Degli otto quesiti passati al vaglio della Corte, soltanto cinque sono stati dichiarati ammissibili, mentre la Corte ha giudicato inammissibili i quesiti riguardanti la depenalizzazione dell’omicidio del consenziente, la legalizzazione della cannabis e l’introduzione della responsabilità civile per i magistrati giudicanti.
Le decisioni della Consulta erano molto attese da tutto il panorama politico, perché la base elettorale della grande maggioranza dei partiti ha partecipato intensamente nelle campagne referendarie, peraltro in modo spesso trasversale, nonostante la chiara connotazione partitica dei quesiti. Il messaggio proveniente dagli elettori risulta chiaro, insomma: da una parte la diffusa volontà di rimuovere alcuni vulnus giuridici che limitano i diritti di autodeterminazione dei cittadini e, dall’altra parte, l’obiettivo di mandare un segnale di sfiducia verso una magistratura, che gode di sempre minore stima da parte della popolazione, visti i recenti scandali in cui è rimasta coinvolta e la reazione da parte della società civile e della politica alla svolta giustizialista data dal ministro Bonafede sotto il governo Conte I.
Le decisioni della Corte sull’inammissibilità dei referendum su eutanasia e cannabis hanno sollevato molte critiche, per quanto a livello tecnico siano ineccepibili (d’altronde la Corte Costituzionale è composta dai vertici della scienza pratica e della dottrina giuridica, sarebbe strano il contrario). Ritengo, dunque, di non poter fare altro che constatare la correttezza del ragionamento giuridico nelle valutazioni della Consulta, sia per le ragioni di carattere scientifico precedentemente addotte, per cui ubi maior minor cessat, sia in base all’assioma per cui il diritto non è una scienza capace di superare l’esame di falsificabilità popperiana.
Sintetizzando il ragionamento, è indubbio che le motivazioni addotte dalla Corte siano giuridicamente incontestabili, ma allo stesso tempo, partendo dallo stesso ordinamento giuridico e dagli stessi quesiti, anche un modesto giurista potrebbe costruire una motivazione tale da giungere alle conclusioni opposte. E tuttavia, d’altra parte, visto l’imponente significato mediatico e politico delle decisioni, è necessario in questo senso prescindere dalle considerazioni di strictum ius e concentrarsi sul merito delle scelte stesse.
La Corte Costituzionale non è (solo) un organo giudicante…
Non tutti i pronunciamenti di un tribunale o di una corte hanno la medesima rilevanza. La stragrande maggioranza delle sentenze e delle ordinanze passa inosservata al grande pubblico e in realtà anche agli addetti ai lavori. A fortiori considerando che la maggior parte delle sentenze non si instaura sulle norme positive, ma sull’interpretazione data nel corso degli anni dai giudici dei tre gradi di giudizio sulle stesse norme: ciò rende complesso, per chi non ha ricevuto una formazione giuridica, comprendere la ratio decidendi di una sentenza, dal momento che l’interpretazione dei fenomeni interni alla società di cui si parlava precedentemente rimane nascosta sotto una fitta coltre di accorgimenti tecnici e procedurali.
Questo discorso è certamente applicabile agli organi giudicanti di ogni ordine e grado, ma si tratta di un metodo che spesso non basta a risolvere quelle questioni che, per quanto trovino una soluzione nel diritto positivo, ricevono una risposta completa solamente nel più ampio contesto formato dall’opinione pubblica, dalla società civile, dalla struttura politica e socioeconomica e dalla cultura condivisa.
Non tutte le corti condividono questa prospettiva, e ciò è coerente con quanto detto sopra: spesso una sentenza non ha rilevanza sul piano generale, ma rimane confinata nei registri del Tribunale o di un’altra Corte; pertanto, non deve scandalizzare che il giudice, nel compiere il proprio sillogismo, si attenga strettamente a quanto dettato dalle norme o dai casi precedenti. In Costituente, tuttavia, si decise di introdurre un altro organo giudiziario a tutela dell’ordinamento costituzionale.
Per quanto la scelta abbia subìto critiche rilevanti, dal momento che una Corte non eletta con il potere di sentenziare sulle leggi avrebbe costituito un limite al potere sovrano del popolo enunciato all’articolo 1, la necessità di proteggere la nuova Costituzione repubblicana fece prevalere l’idea che servisse un tribunale capace di esaminare e nel caso espungere dall’ordinamento una legge che contrastasse con la carta fondamentale.
La Corte Costituzionale non è stata pensata per costituire un ulteriore grado di giudizio, perché non fa parte dell’ordinamento giudiziario: è un organo completamente a sé, i cui connotati non possono ricercarsi solamente nelle teorie di Kelsen, ma vanno adattati ad un’evoluzione storica che ha portato la Consulta a farsi non solo giudice delle leggi, ma anche giudice tutelare dei diritti fondamentali, oltre che, ma questo per cause esterne, giudice dell’ammissibilità dei quesiti referendari.
La composizione della Corte Costituzionale, proprio per la sua vocazione indipendente dalla magistratura ordinaria, è stata pensata appositamente per convogliare competenze ed esperienze differenti nella risoluzione delle controversie, cosicché hanno non solo giudici di carriera, ma anche professori ordinari e grandi avvocati, nonché spesso importanti personaggi politici – Mortati, De Nicola, Amato, Mattarella, ecc. – hanno trovato posto al palazzo della Consulta. Questa variegata composizione denota, almeno idealmente, l’estraneità nelle valutazioni compiute dalla Consulta da una rigida applicazione dei dettati normativi priva di qualsivoglia attenzione alla realtà politica che le circonda.
Non è soltanto giuridica, dunque, la dimensione in cui si gioca la disamina della bontà di una decisione della Corte Costituzionale. Numerose volte la Consulta si è ritrovata a compiere delle scelte che di primo acchito potevano sembrare contrastanti rispetto al dettato costituzionale, che tuttavia si sono rivelate efficaci nella più ampia tutela dell’ordinamento giuridico.
Altre volte la Corte Costituzionale ha trovato ragioni di utilità sociale per mantenere in vita norme che tutelavano determinate posizioni, finché, una volta che i rapporti sociali si dimostrarono mutati, decise finalmente di mutare anch’essa orientamento, abrogando le norme contrastanti con il dettato costituzionale.
Un esempio molto vicino di quanto la Corte Costituzionale possa dimostrarsi attenta alle necessità del Paese si trova nella sentenza Cappato, con la quale la Consulta ha di fatto indicato la strada al legislatore per la scrittura di una legge sul suicidio assistito conforme al dettato costituzionale, strada che, a causa di un Parlamento procrastinatore, è stata imboccata dalla Camera dei Deputati soltanto di recente.
…ma (anche) un organo creatore di leggi
Insomma, la Corte Costituzionale ha realmente il potere di creare e modellare il diritto e spesso lo ha esercitato anche al di là di quanto previsto dalle leggi che regolano il suo funzionamento (mi riferisco in particolare alla legge 87 del 1953, che disciplina la costituzione e il funzionamento della Corte Costituzionale). Basti pensare alla profusione di sentenze interpretative di rigetto nelle loro varie forme (sentenze correttive, sentenze adeguatrici, sentenze monito, sentenze decalogo, ecc.) per comprendere come la Corte abbia spesso ecceduto il proprio mandato, modificando leggi, inserendo distinzioni, abrogando commi, superando precedenti.
Si tratta di una caratteristica di tutte le Corti Supreme e Corti Costituzionali dei moderni ordinamenti di civil law, che, come precedentemente accennato, hanno acquisito nel corso del tempo un ruolo nomopoietico sempre maggiore, in virtù di un avvicinamento al modello del giudice di common law. Giudice di common law che ancora oggi, per quanto questo suo ruolo sia minore di fronte all’avanzata della statute law (il diritto legiferato), trova nei precedenti giurisprudenziali e non nella legge la maggior parte delle soluzioni alle controversie che si trova a dirimere e difficilmente vi si discosta.
Il reale punto di forza e di responsabilità della Corte Costituzionale è il potere – chiaramente nei limiti del dettato normativo e dei principi fondamentali dell’ordinamento – di determinare la portata di un diritto, determinare cioè fin dove l’ordinamento tutela un interesse legittimo del soggetto richiedente, ed eventualmente di espandere o di restringere questa tutela a seconda dei casi.
Ne è un esempio l’evoluzione della tutela dei diritti personali assoluti, ossia quei diritti inviolabili dell’uomo che, pur non espressamente indicate nella carta costituzionale, sono protetti dall’ordinamento in quanto figlie di una lunga evoluzione di giurisprudenza costituzionale che ad oggi ha posto questi diritti al centro del sistema giuridico di tutela della persona umana: il diritto alla vita, al nome, alla privacy, alla casa, alla libertà sessuale, il diritto all’onore, alla reputazione e alla dignità personale.
Ugualmente, si potrebbe discorrere del progressivo ampliamento nella tutela dei diritti relativi e delle situazioni di fatto nell’ambito della responsabilità civile, ma una trattazione completa appesantirebbe troppo un tema già di per sé non agevole. Quando il presidente della Corte Costituzionale afferma in conferenza stampa che se il quesito depositato dal comitato “Eutanasia legale” fosse ammesso alle urne e fosse votato dalla maggioranza degli elettori provocherebbe un vulnus nella tutela del diritto alla vita, egli non sta enunciando una verità assoluta, sta enunciando il frutto di una precisa e deliberata scelta non solo giuridica, ma anche, inevitabilmente, politica. E di grande miopia.
Uno stallo all’italiana
Cosa si può trarre, in conclusione, dall’analisi dei fatti riportati? Innanzitutto, un grande insegnamento in termini di relativismo giuridico: nel diritto è altamente improbabile che ci sia un’opinione sbagliata e una giusta a certi livelli di scientificità. Il giudizio della Corte Costituzionale è di certo formalmente corretto dal punto di vista giuridico, ma qui la Consulta ha deliberatamente deciso di abdicare al proprio ruolo (in)volontario di law maker.
Certamente non è stata la sola ad aver peccato di mancanza di responsabilità, visto e considerato che in materia di eutanasia il Parlamento ha avuto più di due anni per adeguarsi alle condizioni poste dalla Consulta, scegliendo di non scegliere nonostante la normativa sul testamento biologico ormai non corrispondesse più al termometro reale della società civile.
Sul fronte cannabis, poi, ci sarebbe altrettanto da discutere: l’aver utilizzato come ragione di inammissibilità il combinato disposto dell’articolo 73 del Testo unico sugli stupefacenti risulta strumentale a un continuo rinvio della presa di responsabilità del nostro ordinamento nei confronti delle sostanze stupefacenti, il cui consumo, volenti o nolenti, è un fenomeno radicato e diffuso trasversalmente tra tutte le fasce d’età e di reddito del Paese.
La Corte Costituzionale è risultata colpevole di un comportamento politicamente omissivo che rallenterà l’adeguamento del nostro ordinamento ai modelli europei e nordamericani più avanzati in materia di diritti civili, nell’attesa che un Parlamento e un Governo adeguati producano le riforme che il Paese reale ha richiesto con le proprie firme e la propria mobilitazione. Ma questo discorso va oltre il mio articolo.
Tommaso Malpensa
(In copertina il Palazzo della Consulta a Roma)