Quante volte nella nostra vita giudichiamo qualcosa che ammiriamo alla follia o distruggiamo con tutti noi stessi? Quante volte guardiamo una persona, un oggetto, una situazione e il solo atto di formularvi intorno un pensiero diventa improvvisamente, spesso senza neanche rendercene conto, un giudizio? Quante volte, tra le porte di diamante di una fede – religiosa, politica, ideologica o soltanto materialista – costruiamo altari di cartapesta e vi entriamo per pregare al cospetto di un dio fatto di fumo di candele e profumo di incenso, per poi giudicare le mode che cambiano, lamentarci delle mezze stagioni, ricordare i bei tempi passati e negare che ci possa essere un futuro migliore?
Tante, troppe, verrebbe istintivo dire. E, in parte, è anche vero. Eppure, il verbo giudicare ha due significati fondamentali e infinite sfumature che si formano in mezzo. Infinito credo che sia il termine più adatto a spiegare il senso di questo verbo, un senso che in continuazione diventa (come direbbe Eraclito) e spaventa (e potreste chiederlo a un qualsiasi artista romantico, da Wordsworth a Friedrich); un senso così profondo da essere radicato nell’essenza stessa del nostro pensiero. Così tanto che certe volte anche il suo utilizzo può indicare tanto una cosa specifica quanto il suo opposto, e la differenza diventa abissale, pur mantenendo la stessa forma morfologica, le medesime nove lettere e sempre quelle quattro sillabe. Soltanto quattro, che nascondono un mondo. Il primo significato che racchiude è sinonimo di pensare, valutare, stimare, e indica un atto che compiamo di continuo nella vita di tutti i giorni, quando ci troviamo di fronte una persona oppure quando sentiamo un discorso. Lo giudichiamo. Cioè, formuliamo un’opinione dopo aver fatto una valutazione più o meno attenta. E questa è la dimensione soggettiva di giudicare. La seconda accezione invece dovrebbe essere il contrario, oggettiva, e segnala il processo mentale (e anche materiale) che compie un’autorità giudiziaria quando emette una sentenza, di condanna o assoluzione. E anche qui si giudica. Inoltre, ha anche un valore intransitivo, come ad esempio «giudicare dalle apparenze», frase comunemente usata per parlare di una persona che rimane solo in superficie e non cerca mai di scendere in profondità e capire gli altri; e uno riflessivo, «quell’uomo si giudica onesto», in cui il valore è un generico sinonimo di ritenere, valutare. Questi ultimi concetti sono molto interessanti nell’ottica della costruzione dei rapporti umani, nell’eterno conflitto tra giudicare se stessi e giudicare gli altri, giudicare e farsi giudicare, accettare le opinioni spontanee che nascono a prima vista – e allora creare un pregiudizio – oppure cercare di capire, accogliere e di conseguenza farsi accettare. Ma, del resto, come ha detto Antoine de Saint Exupéry, «è molto più difficile giudicare se stessi che gli altri». E si può vedere tutti i giorni, in Italia come nel resto del mondo, un mondo che vorrebbe aver superato pregiudizi e stereotipi, che vorrebbe essersi lasciato alle spalle le ombre del razzismo e dell’ignoranza, ma che in ogni epoca comunque deve farvi fronte, combattere e rimettersi in discussione.
L’origine etimologica è abbastanza semplice e risale al latino iudicare, derivato di iudex–iudicis (letteralmente «colui che applica un giudizio»). I greci per esprimere questo concetto utilizzavano il verbo κρίνω, che ha l’origine contadina di separare – inteso come setacciare, distinguere la crusca dai chicchi di grano macinato per produrre la farina, e quindi compiere una divisione, una cernita (dal latino cernere) – ma poi assume anche numerosi valori collaterali come discernere, scegliere, e quindi anche giudicare. Nel senso di «dividere ciò che serve da ciò che è superfluo», e poi, di conseguenza «ciò che è giusto da ciò che non lo è». Su una base generalmente soggettiva; nel particolare il più possibile oggettiva quando entra in gioco la legge. E pertanto la giustizia, che per sua natura proprio dalla soggettività dei giudizi dovrebbe prescindere. Da κρίνω deriva la parola greca κριτής (giudice, arbitro) e da lì provengono termini di tutti i giorni come critica, criterio e crisi, oggi quasi tutti caratterizzati da una connotazione negativa, all’epoca generalmente positiva.
La gente, senza fare distinguo di sorta tra genere, cultura, credo e tradizione, ha da sempre avuto in mente – saldo come una certezza e indefinito come un banco di nebbia – il concetto di “fare giustizia”, che fosse questa giustizia all’interno del villaggio, dentro i recinti di una proprietà privata, nella giungla di asfalto e vetro di una grande città, o tra le mura di casa. Ma sempre alla base di questa giustizia, come fondamenta, pilastro, radici che si diramano nella terra fertile del mondo, c’è un giudizio. Un pensiero che filtra il mondo che conosciamo e le persone che incontriamo nel nostro viaggio e compie sempre e comunque una scelta. Giusta o sbagliata che sia. Le conseguenze di queste scelte diventano il nostro modo di intendere ed esplorare la realtà che ci circonda, di conquistarla o farla a pezzi, e soprattutto determinano delle decisioni necessarie e inevitabili. Chi vogliamo sul nostro carro – come un vero e proprio viaticum, «ciò che occorre per intraprendere un viaggio» – per accompagnarci e condividere il percorso della nostra esistenza e chi invece si perderà lungo la strada e passerà come foglie morte all’arrivo dell’autunno?
Lorenzo Bezzi
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