Cultura

Femmes Fatales – Il ruolo della donna nella tragedia greca

Donna tragedia greca 2

È d’obbligo fare una premessa metodologica. Del grande oceano della tragedia attica del V secolo non ci restano che pochi frammenti. 32 tragedie in tutto: 7 attribuite ad Eschilo (anche se la paternità di una, il Prometeo Incatenato, resta dubbia), 7 a Sofocle e 18 ad Euripide (delle quali una, il Reso, pare di un mediocre imitatore del IV secolo). Nulla, se si conta che per il solo periodo che va dal 472 al 401 a.C. si stima la messa in scena ad Atene di quasi 800 tragedie.
Recenti calcoli hanno valutato che ci sia giunto circa l’8% della produzione eschilea, il 6% di quella sofoclea e qualcosa tra il 18 e il 23% di quella euripidea (Avezzù, 2003). Premessa necessaria a questo breve approfondimento è la totale parzialità della ricerca, condotta su un campione di pochi testi.

Nell’apprestarsi a vedere in scena, leggere o studiare il mondo della tragedia attica del V secolo al lettore d’oggi sorge spontaneo notare la netta contrapposizione tra quello che comunemente conosce sul ruolo delle donne nella Grecia antica e ciò che trova rappresentato in queste opere. Su tutti i personaggi, emergono eroine statuarie nel loro dolore, che hanno conquistato spettatori e calcato palcoscenici da ormai oltre duemila anni a questa parte.

La risolutezza di Antigone, le terribili azioni di Medea, l’aura divina di Elena e la solitaria sofferenza di Elettra, l’estremo sacrificio di Ifigenia e il tormento interiore di Fedra; al punto che, non senza provocazione, si può dire che la tragedia greca – nelle sue linee essenziali e per come è stata recepita dal grande pubblico – sia fatta di donne (con come forse unica vera grande eccezione il personaggio di Edipo).

Che poi non fosse rappresentata da donne, scritta da donne, neanche pensata per essere vista da donne, è ovviamente un altro discorso (Loraux, 2001).

Mondo interno e mondo esterno

Se, tra le poche tragedie che ci sono giunte, per Eschilo e Sofocle possiamo trovare una sostanziale divisione netta tra una metà con protagoniste femminili e una metà con protagonisti maschili, con Euripide il discorso cambia radicalmente. La Suda ci riporta 92 titoli a lui attribuiti; altre fonti ne calcolano tra i 72 e i 75.

E, di 18 drammi conservati, ben 13 hanno come protagonista o personaggio centrale – motore dell’azione tragica – una donna: Alcesti, Andromaca, Baccanti, Ecuba, Elena, Elettra, Fenicie, Ifigenia in Aulide, Ifigenia in Tauride, Ippolito, Medea, Troiane e Supplici. Parecchie, se si pensa che la vulgata comune (si legga: Aristofane) parla di un Euripide misogino e maschilista. Troppe, se si riflette sul ruolo marginale che avevano le donne nella società dell’epoca (Castiglioni, 2019).

Viene da chiedersi a questo punto cosa suscitasse nel pubblico coevo la visione in scena di tante e tali donne.

[Ad un] lontano passato eroico rinviava del resto anche l’universo femminile che le tragedie esibiscono: eroine come Clitemestra, Antigone, Medea, Elettra, sono figure dotate di una grande libertà di pensiero e d’azione, ben al di là dei limiti concessi alle donne ateniesi del V secolo.

Massimo Di Marco. La tragedia greca (2019)

Come sottolinea giustamente anche Foley (2001), le donne messe in scena nella tragedia greca hanno poco a che spartire con le donne che effettivamente vedevano queste opere a teatro (poche, ma alcune c’erano), e più in generale con quelle che vivevano ad Atene nel V secolo.

Ovviamente, questo confronto continuo tra passato mitico e presente storico provocato dalla tensione tragica doveva creare una sorta di dialogo tra due epoche, una reale e una immaginaria (Vernant, 1981), una lontana e una quotidiana. E, più questo dialogo si costruisce sulle differenze rispetto alle analogie, più emerge la lontananza tra due mondi: quello dell’οἶκος [casa] e quello dell’ἀγορά [piazza], spazio della casa – interno – e spazio della politica – esterno.

Femminile e maschile, secondo la contrapposizione tradizionale di Hestìa ed Hermes (Vernant, 1963). Del resto, sorge spontaneo notare come l’infrazione dello spazio a loro assegnato porti le donne tragiche ad una fine inevitabilmente – verrebbe da dire – tragica.

Prenderemo un esempio per ogni autore (Clitemestra per Eschilo, Antigone per Sofocle, Medea per Euripide) e uno comune a tutti e tre (Elettra), cercando di indagare il ruolo femminile nella tragedia greca.

Sebastiano Ricci. Sacrificio alla dea Vesta (1723).

Clitemestra: moglie e assassina

Per quanto riguarda il primo dei tre grandi tragediografi, Eschilo (525-456 a.C.), nella sua opera dobbiamo leggere una fase intermedia della rappresentazione femminile, tra il classico Omero (XII-XVIII secoli a.C.) e quello che sarà Euripide (V secolo). E come caso di studio è opportuno prendere Agamennone (458), primo dramma dell’Orestea, l’unica trilogia tragica che ci sia arrivata in forma integrale.

A dispetto del titolo, non è il mitico sovrano di Argo-Micene figlio di Atreo il vero protagonista dell’opera, l’uomo è soltanto la vittima, sta in scena per circa un’ottantina di versi e non dice niente di degno di nota. Ad emergere è invece il personaggio della moglie/assassina Clitemestra, che resta in scena muta nel corso di tutta la parodo iniziale (per Condello, 2021), figura silenziosa e imperscrutabile che prepara nell’ombra l’assassinio del marito e tiene i fili della messinscena.

E, proprio sulla tessitura, a partire da Omero, viene costruito il parallelismo e contrario tra Clitemestra (esempio negativo dell’adultera per eccellenza, traditrice di Agamennone) e Penelope (modello della moglie fedele per eccellenza; cfr. Odissea XI 405-434): la prima tesse un inganno ai danni del marito, e non sarà un caso che Seneca metta in scena proprio un Agamennone prigioniero di una veste appena prima del delitto; mentre la seconda, proprio grazie ad una tela, riesce a rinviare il più possibile le nozze con uno dei proci, in attesa del ritorno a casa di Odisseo.

Del resto, lanificio e tessitura sono attributi tipici del femminile, sia in Grecia che nella Roma antiche (Cenerini, 2002). A tal proposito, bastino come campioni Elena e Andromaca, fin dall’Iliade raffigurate come “intente al telaio” (la stessa Elena racconta su una grande tela purpurea la sua versione della Guerra di Troia); e la mitica Lucrezia, che viene sorpresa a tessere quando il marito Collatino torna a sorpresa dall’assedio di Ardea (Lentano, 2021).

In ogni caso, che sia una tela o un inganno, l’attributo tipico delle donne greche e romane è la tessitura (Petrocelli, 1995). E la negatività del personaggio di Clitemestra è evidente anche dal suo rifiuto di stare al telaio, per ordire invece un inganno e alla fine macchiarsi dell’omicidio del marito.

Pierre-Narcisse Guérin. Clitemestra ed Egisto in procinto di uccidere Agamennone (1822).

La scelta di Antigone

Per Sofocle valga come esempio il personaggio di Antigone (dell’omonima opera del 442), l’eroina del “sempre” che sacrifica la sua stessa vita pur di offrire una sepoltura al fratello Polinice, il cui cadavere è ingiustamente (?) lasciato a marcire fuori dalle mura di Tebe.

Antigone esce dallo spazio a lei riservato (doppiamente, nel senso che oltre ad uscire dalla casa, esce anche dalla città – e per ben due volte!) e alla fine il suo destino è una morte tragica murata nella grotta che Creonte le sceglie come prigione.

La storia di Antigone non è poi altro che la storia di una donna che difende disperatamente il mondo sicuro del dentro (legge del γένος [stirpe]) dal mondo violento del fuori (legge della πόλις [città]).

E alla fine ottiene soltanto dolore, non solo per se stessa, ma anche per tutti gli altri soggetti coinvolti (tra gli altri, il promesso sposo Emone, morto suicida, e i genitori di lui: Euridice, anche lei suicida, e Creonte, solo in scena, statuario nella sua solitudine, in mezzo ad un cimitero di cadaveri da lui indirettamente uccisi).

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Jean-Joseph Benjamin-Constant. Antigone sul cadavere di Polinice (1868).

E poco importa se il lettore di oggi “sceglie” la parte di Antigone in un confronto del genere; la vittoria sarà sempre e soltanto di Creonte.

Medea VS Alcesti

È sempre un’uscita dalla casa – paterna – la premessa tragica della Medea di Euripide (431). Qui la donna decide di rinnegare il suo γένος, svelando a Giasone il segreto per sottrarre a suo padre Eeta il Vello d’Oro, per poi fuggire insieme a lui a Corinto.

Al tradimento iniziale della famiglia di origine corrisponde l’abbandono da parte dell’amante, che trova un’altra moglie, e a quest’ultimo la risposta sproporzionata e folle di Medea, che si suicida e porta nell’Ade anche i due figli avuti da Giasone.

Anche qui l’uscita dallo spazio domestico finisce in una tragedia collettiva in cui è difficile distinguere vincitori e vinti. E forse è l’umanità stessa a restare sconfitta, impigliata nella ragnatela dei suoi difetti.

Mentre un’uscita e un rientro nella casa del nucleo familiare determina il finale positivo della vicenda di Alcesti. Non sarà un caso, ovviamente, che la greca Alcesti incarni alla perfezione il modello della donna ideale greca – disposta addirittura a offrire la propria vita al posto di quella del marito –; mentre Medea sia una barbara, figlia di un re della Colchide (nell’attuale Georgia occidentale). Ancora una volta, dunque, la tragedia è funzionale a un preciso disegno politico e ideologico.

Tre Elettre a confronto

Tuttavia, più di tutti, è interessante l’esempio del personaggio di Elettra, la cui materia mitica è l’unica trattata dai tre tragediografi in opere che ci siano giunte in forma integrale (Coefore per Eschilo [458], Elettra per Euripide, Elettra per Sofocle [entrambe tra il 425 e il 410]). Il confronto è d’obbligo, se si intende analizzare il diverso modo che i tre poeti hanno avuto di intendere e rappresentare i loro personaggi femminili.

Per quanto riguarda la prima opera, Eschilo fa emergere Elettra subito dopo la grandezza tragica della madre Clitemestra e di fatto ne crea il personaggio; anche perché tracce di una tradizione letteraria precedente di Elettra sono tanto vaghe da far pensare all’assenza di un ruolo centrale per il suo personaggio, che prima di Eschilo tra l’altro probabilmente non ha neanche un nome vero e proprio.

Si chiama Laodice (cioè, letteralmente “giustizia” [δίκη] del λαός, “la comunità in armi”, cioè l’esercito), con la tipica usanza arcaica di nominare il figlio con un epiteto del padre, in questo caso ovviamente di Agamennone, ἄναξ ἀνδρῶν dell’esercito acheo (Iliade I, 7).

Si può dire, in ogni caso, che il personaggio di Elettra sia “invenzione tragica” (Condello, 2010), anche se in Eschilo è poco più che questo. E, dopo il grandioso corale che anticipa la vendetta finale, Elettra scompare per lasciare il fratello Oreste a macchiarsi di sangue.

Ben più importante è il suo ruolo nell’Elettra di Euripide, in cui Elettra viene allontanata dal palazzo degli Atridi (ancora di uscita dalla paterna casa si parla, ovviamente) e data in sposa ad un “onesto contadino” di origini micenee. Il suo personaggio emerge con grande forza rispetto all’ingenuo e poco deciso fratello Oreste, che dovrebbe assumersi la responsabilità di compiere la vendetta. È Elettra, alla fine, a convincerlo ad uccidere i due amanti, in entrambi i casi a tradimento, come nessun vero eroe farebbe.

In Euripide, la forza e determinazione di un personaggio femminile non è poi altro che consolidamento di un chiaro disegno politico che mira a de-eroizzare il personaggio maschile ad essa affiancato (in questo caso Oreste). La decisione di Elettra dunque amplifica l’ignavia di Oreste e la sua cronica incapacità di compiere la scelta tanto cara al concetto stesso di tragedia (Cerri, 1992).

In Sofocle, invece, Elettra è un personaggio solitario nel suo dolore e nella sua sofferenza: in eterno legata al padre morto, prigioniera del passato, non fa che trascinarsi da una stanza all’altra del palazzo, sconsolata e rancorosa (cfr. la versione di Hugo von Hofmannsthal del 1903 e poi 1908, insieme a Richard Strauss: Elektra), in attesa del ritorno di Oreste. Dopo l’agnizione topica, quando il fratello finalmente commette gli omicidi all’interno del palazzo, Elettra si trova al di fuori del portone, a sentire le grida di dolore e ad immedesimarsi a tal punto nella scena da sovrapporsi ad Oreste.

Quasi fosse lei l’assassina di Clitemestra, ad eternare il legame con Agamennone, tanto forte nell’immaginario collettivo da farla finire nel nome di una variante del complesso di Edipo (Jung), come ultimo esempio della sua tradizione letteraria e mitologica.

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Alexandre Cabanel. Fedra (1880).

Eroi e dolori

In conclusione, se di conclusione si può davvero parlare, pare opportuno fare una netta distinzione tra Eschilo e Sofocle da una parte ed Euripide dall’altra. Sui primi due, dunque, poco si può dire e ancora meno si può ipotizzare, e della loro opera restano personaggi immortali come Clitemestra e Antigone (al pari, ovviamente, di Prometeo ed Edipo, per fare illustri esempi maschili). Sul terzo, invece, come si è detto, la fermezza delle sue donne è funzionale alla rappresentazione degli uomini.

In tutti e tre i casi, comunque, l’uscita dallo spazio riservato al femminile – l’οἶκος –, esasperato dal meccanismo stesso della tragedia che prevede continue entrate ed uscite, è premessa, motivo o causa di un atto tragico, che non può che portare dolore, alla donna e a tutti i personaggi che la circondano.

Del resto, l’unico esempio veramente positivo di donna all’interno del mito greco è Penelope, emblema della fedeltà assoluta e custode della casa e del talamo nuziale. Sarà un caso che nessun autore tragico l’abbia mai resa protagonista in scena, da quel che sappiamo, né in opere che ci siano giunte né nel lunghissimo elenco di titoli che ci lascia la Suda?

Davide Lamandini

(In copertina Il salvataggio, di John William Waterhouse, 1890)


Fonti e approfondimenti:

  • Avezzù, Guido. Il mito sulla scena (Marsilio, 2003) [monografia]
  • Bettini, Maurizio. Le riscritture del mito (in Spazio letterario di Roma Antica, Salerno, 1990) [articolo]
  • Canfora, Luciano. Storia della letteratura greca (Laterza, 2013) [manuale]
  • Castiglioni, Maria Paola. La donna greca (Il Mulino, 2019) [monografia]
  • Cenerini, Francesca. La donna romana (Il Mulino, 2002) [monografia]
  • Cerri, Giovanni. La tragedia (in Spazio letterario della Grecia Antica, Salerno, 1992) [articolo]
  • Condello, Federico. Elettra: storia di un mito (Carocci, 2010) [monografia]
  • Di Marco, Massimo. La tragedia greca (Carocci, 2019) [manuale]
  • Distilo, Nuala. Il riuso del mito: femminile e maschile nell’Elettra di Euripide (2010) (in Maschile e femminile. Genere ed eros nel mondo greco, Sargon, 2010) [articolo]
  • Foley, Helene. Female Acts in Greek Tragedy (Princeton University Press, 2001) [saggio]
  • Fornaro, Sotera. Antigone: storia di un mito (Carocci, 2012) [monografia]
  • Lentano, Mario. Lucrezia. Vita e morte di una matrona romana (Carocci, 2021) [monografia]
  • Loraux, Nicole. La voce addolorata (Einaudi, 2001) [saggio]
  • Petrocelli, Corrado. Donne spionaggio delazione (in Vicende e figure femminili in Grecia e a Roma: atti del convegno, Ancona, 1995) [articolo]
  • Vernant, Jean-Pierre. Hestia-Hermes. Sull’espressione religiosa dello spazio e del movimento presso i Greci (1963), in Mito e pensiero presso i Greci (Einaudi, 2001) [articolo]
  • Vernant, Jean-Pierre. Mito e società nell’antica Grecia (Einaudi, 1981) [saggio]
Sull'autore

Classe 2000. Mi piacciono le storie, qualsiasi sia il mezzo che le fa circolare o la persona che le racconta. Credo nella letteratura, nel tempo che passa e nelle torte al cioccolato per le giornate più tristi. Aspetto con impazienza domani e, nel frattempo, leggo, scrivo e traduco qualche lingua morta persa in un passato lontanissimo.
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