La petizione contro lo schwa, promossa dal professor Massimo Arcangeli e firmata da diversi studiosi, ha esasperato il dibattito fra detrattori e sostenitori della proposta. Analizziamo la questione da un punto di vista strettamente linguistico.
Basta davvero poco per scatenare uno scontro feroce: una semplice e rovesciata può dividere le persone in due fazioni contrapposte, fra chi rivendica di utilizzare una lingua più inclusiva e chi teme la morte dell’italiano. Basta guardare su un qualsiasi motore di ricerca: “Lo schwa (Ə)? No grazie. Pro lingua nostra“.
Pro lingua nostra o pro schwa?
La bomba è stata sganciata da Massimo Arcangeli, linguista e professore presso l’università di Cagliari, che ha indirizzato la petizione al Ministero dell’Istruzione e a quello dell’Università.
Tra i firmatari spiccano non solo linguisti illustri come Luca Serianni, Claudio Marazzini (presidente dell’Accademia della Crusca) e Francesco Sabatini, ma anche storici come Alessandro Barbero e filosofi come Massimo Cacciari.
La loro richiesta è chiara: impedire la diffusione di schwa, asterischi e altri segni diacritici usati per rendere neutre le desinenze di sostantivi, articoli, aggettivi e pronomi. Secondo i firmatari, si tratta di una minoranza che pretende di imporre ed estendere questa innovazione a tutti i livelli della lingua per
Un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell’inclusività.
Parole pesanti, che hanno suscitato svariate repliche: la scrittrice Michela Murgia ha risposto provocatoriamente con la petizione “L’apericena? No grazie!“.
Altri studiosi, come la linguista Vera Gheno, si sono schierati contro la petizione di Arcangeli, sostenendo in primis che non si tratta di una minoranza che riprogetta la lingua a tavolino, ma di una spinta proveniente dal basso. Tuttavia, cos’è lo schwa? E perché ultimamente si parla tanto di queste tematiche?
Lo schwa: un morfema controverso
Lo schwa (o scevà, se si preferisce la versione italianizzata) è un simbolo a forma di e rovesciata [Ə] che identifica una vocale intermedia, o meglio la vocale intermedia – ovvero quel suono che si ottiene, semplicemente, aprendo il canale fonatorio ed emettendo un suono. Questo fonema è presente in moltissime lingue, fra cui l’inglese (in parole come mother) e il napoletano, per citare due esempi.
In italiano non esiste un fonema come lo schwa; tuttavia, sono state avanzate alcune proposte di utilizzo per indicare la neutralità rispetto al genere (ragazzə) e per sostituire il maschile sovraesteso nei plurali (ragazzɜ, con uno schwa lungo, pronuncia /ə:/).
Non si tratta di cambiare una lettera, sostituendola con un simbolo più “neutro”: vuol dire intaccare in profondità la morfologia della nostra lingua, smagliandone anche la sintassi (…) e la testualità.
Cristiana De Santis. L’emancipazione grammaticale non passa per una e rovesciata
In questo caso parliamo di un morfema, ossia della più piccola unità del linguaggio dotata di significato: ad esempio, la parola ragazzo comprende due morfemi, ovvero “ragazz-“ e “-o”. Il primo, ragazz-, è un morfema lessicale: ci dà l’informazione sul significato del referente. “-o”, invece, è un morfema grammaticale, più precisamente un morfema flessivo: specifica alcuni elementi, in questo caso indica quali sono il genere e il numero della parola.
Mettendo lo schwa al suo posto, avremmo soltanto l’informazione sul numero della parola, ma non sul suo genere. Il procedimento, già di per sé complesso, non è nemmeno così automatico come si pensa: a volte non basta applicare uno schwa, un asterisco, o una u per risolvere il problema.
Talora, infatti, è il morfema lessicale a distinguere il genere: se prendiamo due parole come fonte e ponte, vediamo che entrambe presentano il morfema flessivo “-e”, da cui ricaviamo soltanto il numero. Come possiamo sapere, allora, che fra questi due nomi uno è maschile e un altro è femminile? L’informazione, laddove il contesto non venisse in aiuto, proviene esclusivamente dai morfemi lessicali “font-” e “pont-”.
Un altro problema rilevante riguarda il piano orale della discussione: la questione si pone soprattutto per asterischi e chiocciole, in quanto essi non sono segni linguistici, cioè non possiedono un significato né tantomeno un significante (l’espressione acustica associata al significato).
D’altra parte lo schwa, non appartenendo all’inventario dei suoni dell’italiano standard, potrebbe essere assimilato a una “e” o a un’altra vocale, provocando quindi dei fraintendimenti nella comunicazione.
Ma perché lo schwa ci farebbe sbagliare così tanto? Perché la lingua funziona per opposizioni, che sono diverse fra un idioma e l’altro: in italiano, ad esempio, riconosciamo che /a/, /ɛ/ (cosiddetta e aperta) ed /e/ (cosiddetta e chiusa) sono tre suoni distinti che, se scambiati fra loro, possono generare dei cambiamenti di significato, cioè riconosciamo che sono dei fonemi.
Lo stesso non accade con /ə/, perché se viene scambiato con /e/ non genera delle opposizioni e non viene percepito come un suono distinto dagli altri: sostanzialmente, non verrebbe percepita nella pronuncia la differenza fra /ragattse/ e /ragattsə/. Queste innovazioni sono nate nell’ambito della lingua scritta, ma in realtà dovremmo invertire i termini del nostro ragionamento. La scrittura è secondaria, dato che la trasmissione dei nostri pensieri avviene in primis mediante l’oralità: un’innovazione di questo tipo deve tenere conto di tutte le dimensioni della lingua.
Gender e genere grammaticale
Il focus della questione risiede nella nozione di genere grammaticale, che spesso viene confusa – a torto – con la nozione, assai diversa, di gender o di genere socio-culturale. Dare una definizione di gender e di genere grammaticale è molto complesso e, ad ogni modo, non c’è quasi mai una corrispondenza biunivoca fra i due, né in italiano né in altre lingue.
Partiamo da gender: esso è una costruzione culturale che indica l’appartenenza a uno dei due sessi in base a elementi di natura socio-culturale. Bisogna rilevare che il gender non coincide né col sesso, che indica le differenze anatomiche fra uomo e donna, né col genere grammaticale.
In una lingua, invece, con genere si intende una categoria lessicale che classifica i nomi e, come spiega Marina Chini, il sesso è solo uno dei criteri usati per l’assegnazione del genere. Oltretutto, sostenere che maschile equivalga a “maschio” e femminile significhi “femmina”, oltre a essere errato, è una banalizzazione. Ad esempio, nella lingua italiana esistono sostantivi di genere femminile che designano dei referenti tendenzialmente maschili, come guardia o recluta.
Forse, se cambiassimo il nome di genere maschile e femminile in genere 1 e genere 2 o se addirittura sostituissimo la parola “genere” con classe o categoria morfologica, non ci porremmo nemmeno questi problemi.
Infine, va anche notato che esistono lingue totalmente prive di genere come l’inglese, con l’eccezione dei pronomi di terza persona singolare, o il turco, dove il genere è lessicalizzato; questo, tuttavia, non basta per fare della società inglese o di quella turca società eque e inclusive.
Infatti, non ci sono prove definitive sul fatto che la lingua determini con certezza le nostre strutture cognitive e il nostro modo di pensare: da questa teoria, conosciuta come ipotesi Sapir-Whorf, non possiamo quindi trarre delle conclusioni affrettate o che facciano comodo per sostenere determinate argomentazioni.
Il neutro come terzo genere
Il latino, da cui discendono le lingue romanze o neolatine, possedeva anche il genere neutro; il tedesco ce l’ha ancora perché, come il latino, discende da una lingua, l’indoeuropeo, che distingueva appunto tre generi. Perché allora non possiamo avere il neutro anche noi?
Posto che cambiamenti di questa portata avvengono molto gradualmente e in maniera inconsapevole da parte degli utenti della lingua, nella maggior parte delle lingue, fra cui latino e tedesco, il neutro viene usato soprattutto per enti inanimati.
Con l’evoluzione linguistica avvenuta nel corso dei secoli, abbiamo perso questo genere perché era il meno produttivo e presentava notevoli affinità con il genere maschile, con cui condivideva la flessione nei casi obliqui. Di conseguenza, i nomi appartenenti a questa classe sono stati assorbiti perlopiù all’interno del genere maschile (con cui il neutro condivideva alcune desinenze), e in qualche caso del genere femminile (il plurale del neutro ricordava i nomi femminili).
Abbiamo detto che il neutro viene utilizzato soprattutto per enti inanimati, ma esistono diverse eccezioni a questa regola. Prendiamo ad esempio la parola tedesca Mädchen, che significa “ragazza”. Saremmo portati a pensare che il suo genere sia il femminile. E invece no, è neutro. Cosa lo determina? La terminazione in “-chen”: tutte le parole che finiscono con questa desinenza infatti sono neutre.
Anche Kind, un altro nome neutro, comprende tutti i generi perché significa sia bambina che bambino, oltre che figlio e figlia. Manca quindi, ancora una volta, una corrispondenza fra genere grammaticale e gender.
La vexata quaestio della lingua inclusiva
Diversamente da quanto sostenuto nella petizione di Arcangeli, la vexata quaestio della lingua inclusiva non è una moda degli ultimi anni. Nel XX secolo, ad esempio, diverse teoriche femministe hanno riflettuto molto sulla lingua. Riguardo a questo tema sono note le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana (1987) di Alma Sabatini per la Commissione Nazionale per le Pari opportunità, in cui la linguista sconsiglia l’uso del maschile sovraesteso e l’uso di “uomo” a favore di parole più “neutre” come individuo o essere umano.
Di questi temi, oltretutto, non si discute solo in Italia: il caso più eclatante è forse quello della Norvegia, dove si pensa di introdurre un pronome neutro, ma ci sono proposte originali anche in altri Paesi europei come la Francia e la Germania.
Tuttavia, prendersela con la lingua significa guardare il dito e fare finta che la luna non esista. Proporre una nuova desinenza e non curarsi delle ricadute di un gesto così rivoluzionario è un modo superficiale di trattare questioni delica
te e caleidoscopiche come l’identità di genere e la lingua, che continuano a fornire spunti di riflessione e di ricerca. Oltretutto, la discussione tra chi è favorevole e chi è contrario sfiora spesso i toni da talk show: Non si può parlare del problema in maniera seria, scientifica e al tempo stesso accessibile, anziché rispondere a colpi di mirabolanti petizioni?
Essere contrari a queste soluzioni non significa necessariamente essere conservatori o voler ignorare l’esistenza di molteplici identità e delle loro istanze: chi studia la linguistica sa che l’essenza di una lingua è il cambiamento. Questi, però, sono cambiamenti che richiedono secoli per attuarsi: pensare di poter cambiare la struttura di una lingua in pochi anni è impossibile. È come voler distruggere le fondamenta di un edificio: il rischio è che crolli tutto e che rimangano soltanto le macerie.
Bisogna mutare lo sguardo sulla lingua e sulla grammatica: non sono nostre nemiche, anzi, permettono a ognuno di noi di condividere in maniera efficace i propri pensieri affinché tutti possano coglierli e comprenderli, senza differenze di alcun tipo. Non è vietato sperimentare, così come non è proibito introdurre parole nuove (ogni anno si aggiornano i dizionari) o attribuire nuovi significati a parole già esistenti: la lingua è ricca, nasconde molti più tesori di quanto si possa credere. Basta solo selezionarli con cura e nel rispetto delle strutture che li sostengono.
(In copertina Christian Lue da Unsplash)
Per approfondire:
- De Santis, Cristiana. L’emancipazione grammaticale non passa per una e rovesciata (Treccani) [articolo];
- De Santis, Cristiana. Emancipazione grammaticale, grammatica ragionata e cambiamento linguistico (Treccani) [articolo];
- Chini, Marina, Genere grammaticale e acquisizione. Aspetti della morfologia nominale in italiano L2, Milano (Franco Angeli, 1995) [monografia];
- Grandi, Nicola. Maschile, in Enciclopedia dell’italiano (Treccani) [voce enciclopedica];
- Arcodia, Giorgio Francesco; Mauri, Caterina. La diversità linguistica (Carocci, 2016).
La sezione di Linguistica di Giovani Reporter è a cura di Elettra Dòmini, Francesco Faccioli e Davide Lamandini.