Una delle prime regole che gli insegnanti di lingua (viva o morta che sia) impartiscono con sacralità, scandendo a gran voce le sillabe come alla rivelazione di chissà quale dottrina esoterica, è che tradurre significa tradire: la traduzione perfetta non esiste, l’originale è un asintoto che la retta della nostra resa potrà soltanto lambire. Proviamo allora a tradire il frammento 168b Voigt di Saffo.
La traduzione perfetta, appunto, non esiste. Che poi, alla prova dei fatti, “traduzione perfetta” e “traduzione del professore” tendano a coincidere sistematicamente è un fatto di rilievo solo finché ci si trova sui banchi; quando infine arriva il vero tête-à-tête col testo, senza timore di voti o sbisciolate rosso-blu, ci si accorge – questa volta per davvero – che ogni traduzione, come insegna Umberto Eco, dice “quasi la stessa cosa”. E si capisce che quel piccolo spazio bianco tra quasi e la stessa cosa è un precipizio senza fondo, dentro il quale il traduttore rischia di precipitare ad ogni passo.
Prendendo come palestra alcune famose traduzioni italiane di un frammento di Saffo, cercheremo di mostrare quanto sia complesso e potenzialmente infinito il lavoro del traduttore, determinato ad agguantare la chimera di una traduzione perfetta e più spesso, anzi quasi sempre costretto a scendere a compromessi con la propria lingua.
“Tramontata è la luna”
Diamo un’identità al nostro banco di prova: frammento 168b Voigt. La classificazione stessa di frammento (ma alcuni credono si tratti di un breve carme completo) suggerisce che il testo è un brano, un relitto che apparteneva a qualcosa di più esteso che, purtroppo, per noi è andato perduto. Ci si potrebbe chiedere, allora, se esistano particolari motivi per cui sia stato proprio questo pezzo a salvarsi, e non un altro qualsiasi. La ragione è di natura metrica: è l’erudito Efestione, vissuto nel II d.C., a tramandarcelo in una sua opera, Έγχειρίδιον (un compendio “a portata di mano” della sua più vasta e perduta opera di metricologia), in quanto, secondo lui, si tratterebbe di un distico di tetrametri ionici a maiore.
Il brano viene citato senza indicazione di chi sia l’autore, ma il colorito lesbico della lingua, l’atmosfera generale e il riferimento a un io femminile fanno pensare subito a Saffo, la grande poetessa della lirica greca (non mancano però studiosi di prim’ordine che hanno negato la maternità del frammento).
Frammento 168b Voigt
Δέδυκε μὲν ἀ σελάννα
καὶ Πληΐαδες· μέσαι δὲ
νύκτες, παρὰ δ’ ἔρχετ’ ὤρα·
ἔγω δὲ μόνα κατεύδω.
La brevità del testo (appena 17 parole) non deve ingannarci sulla facilità del compito. Esistono, infatti, almeno tre grandi ordini di problemi aggiuntivi alla questione della traduzione in sé:
- Il testo è un estratto da una lirica più ampia, di cui non sappiamo nemmeno se costituisse l’inizio, la fine o una sezione centrale;
- Si tratta di un testo poetico, in cui la lingua raggiunge vette di pregnanza espressiva che obbligano il traduttore a scegliere che cosa mantenere dell’originale;
- L’incredibile iato temporale (oltre 2500 anni) che ci separa dal testo pone notevoli problemi di sensibilità culturale e “lirica” in senso lato.
Tutti questi problemi sono anzitutto di natura culturale nel senso che essi stessi mutano con il mutare della lingua, della poesia e della sensibilità linguistica; e così poeti diversi di tempi diversi offrono, nella stessa lingua, traduzioni completamente differenti.
La via dello spunto
Foscolo
Sparìr le Pleiadi
Sparìo la Luna
È a mezzo il corso
La notte bruna.
Già fugge rapida
Ogni ora e intanto
Sola in le piume,
Io giaccio in pianto.
[quinari, schema rimico ABCB DEFE. I vv. 1 e 5 sdruccioli]
Leopardi
Oscuro è il ciel: nell’onde
La luna già s’asconde,
E in seno al mar le Pleiadi
Già discendendo van.
È mezzanotte, e l’ora
Passa frattanto, e sola
Qui sulle piume ancora
Veglio ed attendo invan.
[settenari, schema rimico AABC DEDC. I vv. 4 e 8 sono tronchi, v. 3 è sdrucciolo]
Le prime due traduzioni illustri dell’Ottocento portano il nome di due giganti come Foscolo e Leopardi. Entrambi furono fini conoscitori della lingua greca: Foscolo, greco di origine, si cimentò nella traduzione di diversi libri dell’Iliade; Leopardi è ormai considerato da molti il più importante filologo classico italiano dell’Ottocento. Pur giungendo a rese molto diverse tra loro, Foscolo e Leopardi utilizzano la stessa strategia traduttiva nei confronti del frammento: entrambi vogliono anzitutto produrre, nella lingua di arrivo, un testo poetico coerente ed unitario, cercando una completezza che nel testo originale manca.
Non dobbiamo affatto pensare che le loro rese siano piene di errori dovuti a una cattiva interpretazione del testo originale: il loro obiettivo consisteva non solo nella comprensione della lettera del testo, ma anche nella ricerca di una traduzione fruibile anche da chi non conosce il greco antico. Da questo punto di vista, allora, queste traduzioni sono senza dubbio ambiziose.
La scelta inclina, dunque, per una riscrittura più ampia, che si snoda per ben due quartine (di quinari nel primo caso, di settenari nel secondo) e si deve inevitabilmente confrontare – questa era la sensibilità poetica del tempo – con l’utilizzo della rima. Un’ultima affinità tra le due rese è costituita dal linguaggio chiaramente aulico, con largo uso di termini già consolidati della tradizione poetica italiana (bruna; piume; asconde; sparìo etc.), di costruzioni classicheggianti (è a mezzo il corso) o arcaiche (in le).
Una riscrittura porta con sé, inevitabilmente, anche una sua interpretazione: così, ad esempio, il κατεύδω dell’originale, che vale un semplice (e più ambiguo) “giacere”, diventa in Foscolo un “giacere in pianto”; e παρὰ δ’ ἔρχετ’ ὤρα, “trascorre il tempo [di mezzanotte]” si trasforma in “fugge rapida / Ogni ora”, laddove il poeta interpreta l’espressione come una variante della fuga temporis. La resa di Leopardi invece aggiunge, nel quadro naturalistico d’apertura, l’elemento marino a dialogo con quello celeste; la costruzione discendendo van è poi tipico stilema leopardiano, per cui basterà citare il famosissimo vo comparando. Nel finale, Leopardi interpreta il giacere del soggetto lirico come una attesa inutile, destinata a un’inevitabile frustrazione: veglio ed attendo invan non porta con sé tanto della poetessa di Lesbo, ma appare piuttosto il frutto della riflessione filosofica di Leopardi.
Le traduzioni del Novecento
Pavese
Tramontata è la luna
E le Pleiadi, è a mezza
Notte, è passata l’ora:
giaccio sola nel letto.
[settenari]
Quasimodo
Tramontata è la luna
E le Pleiadi a mezzo della notte;
giovinezza dilegua,
e io nel mio letto resto sola.
[coppia di settenari alternata a coppia di endecasillabi]
A questo secolo appartengono due traduzioni molto famose del frammento 168b: la prima è contenuta nel carteggio di Cesare Pavese, e si data a qualche tempo prima della pubblicazione di Lavorare Stanca, del 1936; la seconda è invece parte della celebre raccolta Lirici greci di Salvatore Quasimodo, pubblicata a Milano per Hesperia (ora Mondadori, 2018) nel 1940 (trascuro qui la prosecuzione della lirica o le rielaborazioni più tarde a opera di Quasimodo, che pertengono esclusivamente a lui).
Intercorre, dunque, poco più di cento anni tra queste e le traduzioni ottocentesche proposte; e basta un colpo d’occhio per rendersi conto di quale terremoto abbia scosso la poesia a cavallo tra i due secoli. Anzitutto, Pavese e Quasimodo cercano di replicare ai quattro versi dell’originale con altri quattro versi, senza aggiungere né togliere nulla; la scelta metrica ricalca quella leopardiana, cioè il settenario, che Quasimodo alterna all’endecasillabo.
L’approccio, dunque, è nel complesso più attento alla lettera del testo, che cerca di non stravolgere. Anche per questa ragione in Pavese e Quasimodo manca ogni traccia di rima, prezzo necessario alla ricerca di una traduzione aderente all’originale. Sarebbe sciocco, tuttavia, ritenere queste traduzioni più “corrette” di quelle di Foscolo e Leopardi: anche in queste c’è molto di arbitrario e di interpretativo. Bisognerà semmai notare come sono cambiati, in un periodo di tempo relativamente breve, gli strumenti a disposizione di un poeta-traduttore.
In Pavese e Quasimodo, anzitutto, il tono lirico assume forme più smussate. Non si incontrano, ad esempio, vocaboli propriamente aulici, e le uniche concessioni in questa direzione sono conseguenza dell’originale: così l’identico Tramontata è la luna riflette l’ordine delle parole di Δέδυκε μὲν ἀ σελάννα, con la significativa inversione degli elementi del verbo; lo zeugma col secondo soggetto, le Pleiadi, è un precipitato del greco; e l’ultimo verso (Giaccio sola nel letto / E io nel mio letto resto sola) è piuttosto vicino all’originale.
La personalità dei traduttori, in questo caso, emerge soprattutto nel terzo verso: Pavese, forse anche per l’occasione compositiva, preferisce tradurre alla lettera, spezzando come il greco in mezza / Notte e proseguendo con un più neutro è passata l’ora, del quale bisogna notare non solo l’azzardata, ma interessante corrispondenza ὤρα = hora = ora, ma soprattutto il cambio di prospettiva, ottenuto spostando l’inizio dell’azione nel passato anziché nel presente; Quasimodo, invece, interpreta (con una certa disinvoltura) il movimento temporale come il veloce passaggio del καιρός, del momento giusto, e la conseguente fine della ἥβη, della gioventù, e scrive allora giovinezza dilegua.
Tre proposte di traduzione
Questa una sommaria ricognizione delle proposte italiane degli ultimi duecento anni per la traduzione del carme di Saffo. Adesso, si parva licet, ci si può arrischiare a proporre non una, bensì tre traduzioni del frammento, elencando pregi e difetti di ciascuna:
Traduzione in versi liberi
Son declinate
Luna e Pleiadi,
Mezzanotte
Il tempo vola;
Io giaccio
Sola.
Questa prima resa sfrutta tutti gli espedienti “tipografici” di matrice ungarettiana per donare poeticità al testo: così si spiega la rarefazione degli articoli e delle parole stesse, come a v. 3 e a v.6, che dona al testo un dettato lirico e partecipato. Tuttavia, la resa senza metro né rima (se si eccettua vola / sola), rischia di allontanarsi molto dal testo di partenza, che è in metro; e bisogna notare che l’ordo verborum della prima sezione è stato rimaneggiato sensibilmente.
Da ultimo, la resa di παρὰ δ’ ἔρχετ’ ὤρα con il tempo vola ha il buon gusto di cogliere il sapore popolare che molti hanno voluto rintracciare nel frammento; ma connota il tempo rifacendosi al sopraccitato topos della fuga temporis che è assente nell’originale, dove piuttosto il tempo oggettivo della natura si contrappone al tempo soggettivo dell’io che giace.
Si notino qui le soluzioni comuni anche alle altre due proposte di traduzione: anzitutto per quanto riguarda la punteggiatura e in particolare la resa del δὲ di v.4 con il punto e virgola, funzionale a evidenziare l’opposizione tra le due diverse concezioni del tempo – ammesso e non concesso che si consideri il punto e virgola uno strumento adeguato alla poesia; è poi difficile da criticare la traduzione di κατεύδω con “giacere”, traducente che conserva la sfumatura (non la chiara connotazione!) erotica dell’originale e ha un sapore lirico che ben si accorda con l’ascendenza omerica del verbo; infine, l’eliminazione del “letto” che si era sostituito alle “piume” mi pare salutare avvicinamento alla lettera del testo di partenza.
Traduzione in quinari
Sono discese
Luna e Pleïadi,
È mezzanotte
Il tempo vola;
Io giaccio sola.
Questo tentativo in quinari (con una scansione anomala di Io nel verso finale) ha il pregio di salvare la metrica e la rima finale, anche se la dieresi di Pleiadi si può considerare un po’ artificiosa. La scelta di discese anziché tramontate o declinate è portata dal metro: abbastanza infelice in quanto inappropriato per degli astri, ma più conservativo di uno scomparse. Nel complesso, questa traduzione mitiga gli aspetti più criticabili della prima, anche se di quella perde la forte tensione lirica.
Traduzione in settenari
La Luna è tramontata
E le Pleiadi; mezza-
Notte, va la stagione;
Ma io giaccio sola.
Questo tentativo in settenari molto deve a Quasimodo e Pavese: si limita a ridisporre gli elementi del primo verso in favore di una sintassi più piana (d’altronde già lo zeugma interviene a complicarla), e da Pavese eredita l’idea piuttosto interessante di spezzare mezza– / Notte.
Più originale, invece, pare lo sviluppo del terzo verso: anzitutto, la corrispondenza perfetta tra andare e ἔρχομαι (ma si ricordi che il greco ha anche παρὰ); poi la resa piuttosto fedele all’originale di ὥρα con “stagione”, inteso come un semplice iperonimo delle μέσαι νύκτες. Il tentativo, nel complesso, sembra abbastanza felice, anche se, per le ragioni sovraesposte, utilizzare contemporaneamente il punto e virgola e ma potrebbe essere considerato un inutile pleonasmo.
Problemi di traduzione aperti
Le tre proposte presentate possono aver risolto qualche criticità presente nelle precedenti traduzioni; ma questo non è accaduto senza danno della metrica e specialmente dell’impianto di rime. Non solo: nessuna di queste versioni offre una proposta pienamente soddisfacente a proposito di alcuni problemi traduttivi irrisolti, e forse irrisolvibili per la nostra lingua, quantomeno in poesia:
- È possibile rendere con un plurale italiano il greco μέσαι δὲ / νύκτες, nel quale la mezzanotte viene percepita come l’insieme delle tre (o quattro) parti in cui gli antichi erano soliti dividerla?
- Posto che davvero l’originale παρὰ δ’ ἔρχετ’ ὤρα fosse così polisemico come ci appare, esiste una resa che ne salvi la molteplicità dei significati e un’aderenza anche iconimica all’originale (trascorrere?)?
- È possibile conciliare uno schema rimico/ritmico autorizzato dalla tradizione e non banale con una resa italiana che aggiunga il meno possibile al greco?
- Ci si può affrancare con efficacia da alcuni automatismi, come la resa del primo verso con parole molto simili a “Tramontata è la luna”?
Il fatto più sorprendente è che una simile congerie di problemi e soluzioni nasce dal trasporto in lingua italiana di meno di una ventina di parole. Questo ci porta, forse, a riflettere sull’importanza della traduzione come “apnea linguistica”: tradurre è anzitutto un esercizio di penetrazione verticale di un testo, che viene analizzato contemporaneamente a livello metrico, retorico, stilistico, lessicale, sintattico, grammaticale, semantico ed iconimico in vista di una traduzione che lo rispecchi e lo rispetti. A volte il lavoro è piuttosto semplice, e si potrebbe quasi credere al miraggio della traduzione perfetta; altre, come in questo caso, decisamente complesso.
Capita, ad esempio, di trovarsi a un bivio: conservare oppure compensare una perdita inevitabile? Dare per scontato un dettaglio rilevante, o esplicitarlo? E quale scegliere tra la traduzione bella e infedele oppure la brutta e fedele? In altri casi ancora, il traduttore non può che darsi per vinto, e dichiarare lo scacco. Tuttavia, non bisogna pensare che una bandiera bianca sia una sconfitta: segnala il limite a cui un certo traduttore può arrivare seguendo un certo tipo di traduzione, dato un preciso momento storico e letterario.
In questo caso, dunque, arrendersi non significa tanto cedere alle pressioni del testo quanto dichiarare, con una certa dose di umiltà intellettuale, che non si è riusciti a trovare una soluzione soddisfacente; e questo non significa tanto piantare una croce su questo o quel problema, ma piuttosto evidenziare il luogo da cui dovrà necessariamente partire una nuova traduzione. Certo, sempre che gli epigoni non decidano di rimescolare completamente le carte sul tavolo.
Francesco Faccioli
(In copertina Pawel Czerwinski da Unsplash)
Consigli di navigazione:
- Mi sono rifatto all’edizione critica di Voigt, Eva-Maria (a cura di), Sappho et Alcaeus. Fragmenta, Amsterdam, 1971; ma sull’attribuzione del frammento a Saffo bisogna confrontarsi con l’oxoniense di Lobel-Page, che la nega;
- Per avere un’idea piuttosto precisa di Saffo ci si può rivolgere all’accessibile Neri, Camillo; Cinti, Federico (a cura di), Poesie, frammenti e testimonianze. Rusconi, 2017; più impegnativo ma più completo Neri, Camillo, Saffo, testimonianze e frammenti (De Gruyter, 2021);
- Una semplice traduzione in prosa è quella di Ferrari, Franco (a cura di), Saffo. Poesie (Rizzoli, 1987);
- Le traduzioni qui proposte derivano da una selezione di quelle già selezionate da Camillo Neri per un proprio seminario su Saffo all’Università di Bologna;
- Costituisce un ottimo approccio al testo anche il commento presente in Degani, Enzo; Burzacchini, Gabriele (a cura di), Lirici Greci. Antologia (Pàtron, 2005); nonché Neri, Camillo (a cura di), Lirici greci. Età arcaica e classica (Carocci, 2011);
- Per i discorsi sulle traduzioni: Tosi, Renzo; Neri, Camillo (a cura di). Hermeneuein. Tradurre il Greco (Patron, 2009), in particolare Condello, Federico. Tradurre la lirica; e anche Condello, Federico; Pieri, Bruna (a cura di). Note di traduttore (Patron, 2011).
Esperimenti di traduzione di Saffo 168b V è un articolo della rubrica I Corsari, di Francesco Faccioli, Davide Lamandini e Lorenzo Bezzi.