Cronaca

Il labelling umanitario – Il “rifugiato ideale” e l’identità del profugo

Labelling umanitario

Agli occhi dell’opinione pubblica l’accoglienza sembra sempre di più un favore e il profugo deve corrispondere a un certo identikit: apolitico, innocente e vulnerabile; e perdere sempre di più la propria identità.


Cos’è il labelling umanitario?

Nel 2013 la guerra in Siria si stava mostrando in tutta la sua brutalità. Ad agosto il regime di Bashar al-Assad aveva condotto un attacco chimico contro alcune postazioni ribelli, uccidendo centinaia di civili. Fino a quel momento circa 760.000 siriani avevano trovato rifugio in Libano, ma le condizioni nel Paese dei cedri non erano delle migliori, con una situazione instabile, tra disuguaglianze, crisi politiche e tensioni interreligiose che l’arrivo in massa dei profughi aveva esacerbato.

Nel frattempo, il 28 settembre un’imbarcazione partita dall’Indonesia è naufragata nel braccio di mare che separa l’arcipelago dall’Australia. A bordo c’erano un centinaio di migranti provenienti dal Medio Oriente. La polizia indonesiana ha recuperato una trentina di corpi, ma molti occupanti della barca non sono mai stati ritrovati. Avevano pagato enormi somme di denaro ai trafficanti per poter arrivare in Australia. Ma, soprattutto, si è scoperto che la maggior parte di loro erano cittadini libanesi che avevano acquistato dei passaporti siriani falsi per poter accedere allo status di rifugiati una volta giunti a destinazione.

Questo tragico episodio dimostra come i tentativi di classificare le realtà umane possano portare a situazioni estreme come queste, dove il labelling, cioè l’etichettatura da parte dei governi, ma anche degli operatori del settore umanitario, può causare vere e proprie discriminazioni, nonché semplificazioni della complessità. Vediamo come il labelling, anche se utilizzato a fin di bene per organizzare al meglio la logistica dell’aiuto umanitario, possa contenere in sé degli effetti peggiorativi spesso sottovalutati.

Il labelling umanitario delle popolazioni mobili

Oggi ci ritroviamo ad avere varie dicotomie sviluppate in ambiti burocratici sulla base delle quali si possono stabilire vari gradi d’accesso agli aiuti umanitari. Inoltre, tornano utili ai governi per rifuggire cinicamente al rispetto del principio di non-refoulement, l’obbligo di non respingere chi bussa ai propri confini.

La distinzione con cui il dibattito pubblico ha ormai più dimestichezza è quella tra rifugiati e migranti economici. I primi fuggono da una guerra, i secondi dalla miseria. Proprio come quanto accaduto in Libano, ci possono essere condizioni economiche disastrose che tuttavia non garantiscono di ricevere assistenza umanitaria; ma questo caso mostra anche come spesso sia un conflitto situato altrove a determinare le condizioni di povertà da cui il migrante fugge.

Non è una novità, l’Europa si è dimostrata particolarmente ansiosa di rimarcare questa differenza, come se un migrante economico avesse delle ragioni meno importanti per partire. Tuttavia, le burocrazie vogliono risposte univoche, e per loro la fame non può essere un movente di migrazione forzata al pari di un conflitto.

Altre dicotomie riguardano la distinzione tra chi torna al Paese d’origine, i returnee, e i migranti “integrati”. In questo senso, generalmente le nostre società vedono l’integrazione come qualcosa di positivo e necessario, poco importa poi che spesso si abbia a che fare con l’imposizione dell’assimilazione più che con una vera integrazione di chi cerca accoglienza. Al contrario, il returnee viene considerato il risultato di un’integrazione fallita, nonostante la realtà indichi che spesso vi siano storie di successo che portano il migrante a tornare nel proprio Paese con una condizione economica più stabile alle spalle. E anzi, può accadere l’opposto, cioè che l’ex migrante abbia difficolta a reintegrarsi nella società d’origine.

Il “rifugiato ideale”: la rimozione dell’identità del profugo

Partendo dal fatto che spesso le nostre opinioni pubbliche implicitamente intendono l’accoglienza come una sorta di favore, una concessione, e non come un dovere che gli Stati devono osservare, anche l’industria umanitaria rientra in questa tendenza, in quanto il profugo deve corrispondere a un certo identikit. Infatti, esso deve essere apolitico, innocente e vulnerabile, condizioni essenziali per poterlo definire come profugo.

Dal momento che è in fuga, l’apparato burocratico del Paese d’arrivo e gli operatori umanitari tendono a spogliare il migrante della propria identità. La sua estrazione sociale non conta più, così come la professione che l’individuo svolgeva nel Paese d’origine, l’etnia o la religione di appartenenza.

Questa omogeneizzazione si è vista durante l’emergenza umanitaria in Iraq ai tempi di Saddam Hussein. Il profugo iracheno nell’immaginario doveva essere automaticamente povero e sciita, quindi vittima del regime. Ma, nonostante ciò, la diaspora irachena era in buona parte benestante e c’erano anche profughi sunniti, cristiani e assiri. La stessa cosa è avvenuta con chi fuggiva dalla Siria, visto necessariamente come di estrazione sociale povera e di religione islamica sunnita.

I traumi da cambio di categoria

Similmente ai governi nazionali, gli operatori umanitari causano problemi simili quando si tratta di categorizzare i profughi sul campo. L’assistenza di tipo umanitario fornita dai volontari viene condizionata dal labelling dei profughi, soggetto a continui cambiamenti.

La ricercatrice Ilana Feldman ha studiato l’impatto che i frequenti cambiamenti nella classificazione può avere nella vita dei profughi, concentrandosi in particolare sull’esperienza dei rifugiati palestinesi sotto l’UNRWA in Giordania, Siria e Libano. Feldman riporta come improvvisi cambiamenti nelle direttive amministrative, spesso dettati dalla mancanza di fondi, escludano dall’assistenza interi gruppi di profughi, provocando rabbia e frustrazione. Di conseguenza, registrazione e de-registrazione provocano ulteriori insicurezza e marginalizzazione rispetto alla società ospitante, introducendo nuove vulnerabilità nella vita delle persone coinvolte.

Utilità logistica, ordine nazionale e xenofobia

Le organizzazioni umanitarie devono etichettare per per mobilitare a livello logistico risorse, stabilire priorità e agire così nel modo più efficace possibile. Ma per i singoli governi i sistemi di labelling servono a mantenere le proprie politiche di confine di Stato, a giustificarle poiché attuano un discrimine tra chi è ammesso e chi invece è escluso.

Alcune categorie di migranti non sono più viste come prioritarie, mentre altre acquisiscono status più favorevoli. Sono un esempio i rifugiati afghani che prima del ritorno al potere dei Talebani erano stati “de-prioritizzati” in favore di altre nazionalità in fuga. È evidente che il labelling permette anche di criminalizzare facilmente alcune categorie di migranti forzati, viste come un problema di sicurezza nazionale. Da qui alla xenofobia il passo è molto breve.

Evitare le dicotomie

Come si può evitare l’effetto controproducente di una categorizzazione ossessiva di chi a causa della guerra o di calamità naturali è costretto a spostarsi? Bisogna evitare tale appiattimento ricollocando le singole esperienze di vita dei migranti nel loro contesto storico e sociale d’origine. Si annulla così la psicologia problematica prodotta dal labelling che riduce tutto a dannose dicotomie.

È un’operazione estremamente difficile da compiere, in quanto il nostro cervello è abituato a semplificare e riporre gli elementi in compartimenti stagni, e finisce per identificare nei migranti forzati una sorta di tribù a sé stante, senza storia né identità. Questo in particolare dal momento in cui una crisi viene riposta nel dimenticatoio dopo essere sostituita da un’altra più attuale.

Non ci resta che augurarci che avvenga un vero cambiamento nell’approccio alle questioni umanitarie, sperando che lo scenario che si è aperto con l’invasione russa dell’Ucraina e il conseguente afflusso di profughi nei Paesi limitrofi non si risolva in un ennesimo ripetersi di queste dinamiche sconfortanti.

Massimiliano Marra (articoli)

(In copertina tpi.it)


Articolo realizzato in collaborazione con Sistema Critico, un gruppo di studenti universitari che si pone come obiettivo il racconto del reale in modo critico e giovanile, avvicinando le persone alle questioni che il mondo ci pone ogni giorno.

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