La prima volta che ho detto ad amici e parenti che presto sarei partita per l’Erasmus, tutti istintivamente hanno pensato alle spiagge assolate di Barcellona o alle feste infinite di Monaco e Granada. E mi hanno chiesto quanto tempo sarei rimasta, quanto ne avrei dedicato allo studio, quanto mi sarei divertita. “Fermi, no, non avete capito”, li ho subito bloccati, “in realtà vado ad Aarhus“.
“Dove?”, è stata la domanda successiva. E così, tra chi ha scoperto per la prima volta l’esistenza della Danimarca e chi mi ha detto che sarebbe sicuramente venuto a trovarmi, sono partiti i classici luoghi comuni sui Paesi scandinavi: le strade sono perfettamente pulite, la gente è cordiale e simpatica e i treni arrivano sempre in orario. Ecco, dopo tre settimane dal mio arrivo, posso affermare con tranquillità che sono quasi tutti veri. Tutti tranne un settore che in Danimarca ho trovato molto carente: i trasporti pubblici e nello specifico gli autobus.
Il problema principale del trasporto pubblico è che viene sfruttato poco, perché tutti hanno una bicicletta fin da quando sono bambini. Di conseguenza, negli orari meno frequentati ci sono pochissime linee e non è molto chiaro quali fermate siano effettivamente attive. Per illustrare bene la situazione vi racconterò alcuni episodi realmente accaduti negli ultimi tempi.
La fermata fantasma
Una sera io e la mia amica Sibora, anche lei studentessa dell’Università di Padova, decidiamo di andare a cena a casa di altri studenti internazionali. Nessuna di noi due ha ancora preso una bicicletta, perché – da vere italiane – siamo convinte di aspettare un clima più caldo.
A fine serata, quindi, abbiamo studiato il percorso su Google Maps e ci siamo dirette alla fermata più vicina, un semplice palo in una stradina di un quartiere residenziale abbastanza periferico. Passiamo quasi mezz’ora in attesa, saltellando su e giù nel tentativo di riscaldarci. A un certo punto rinunciamo a sperare che l’autobus possa arrivare, probabilmente perché si tratta di una strada non molto trafficata, e quindi non frequentata di sera.
Così, ci spostiamo ad un’altra fermata, anche per sciogliere i geloni che nel frattempo si stanno formando ai nostri piedi. La strada questa volta è grande, trafficata e ben illuminata, e le speranze si fanno decisamente più realistiche.
Finalmente arriva l’autobus, e la nostra zucca si trasforma in una carrozza su quattro ruote. Ci sporgiamo sulla strada, l’autista ci nota, fa per accostarsi e… poi tira dritto. Ignorandoci completamente. Ci passa davanti, rivolgendoci insulti in danese neanche troppo velati e indicandoci vistosamente di andare avanti, avanti. Pochi minuti dopo passa l’autobus di un’altra linea, con cui si ripete la stessa scena. Sempre più confuse e perplesse controlliamo su Google Maps, sull’applicazione apposita e sui fogli appesi alla fermata: tutti e tre indicano quella fermata. Andiamo quindi a quella successiva, che per fortuna era attiva, anche se ad oggi mi sono ancora oscuri sia i motivi di questi cambiamenti sia dove trovare gli effettivi percorsi.
Una volta a casa, provata dall’esperienza e parecchio innervosita, decido di munirmi anche io di una bicicletta, nonostante il tempo inclemente e una città costruita sulle colline. Non inizio nemmeno nel migliore dei modi: dopo nemmeno un paio di giorni manco l’ingresso della pista ciclabile e finisco contro il marciapiede con le ruote. Vengo sbalzata fuori dal sellino, l’intera bici mi finisce addosso e resta un livido ancora in fase di guarigione.
Ma sono andata avanti comunque, decisa a non restare nuovamente a piedi nel freddo della notte, e adesso devo ammettere che mi sta anche piacendo. È bello avere un mio mezzo di trasporto e mi permette anche di dormire di più la mattina. Posso esplorare la città in autonomia e conoscerne tutte le strade, facendo pure esercizio fisico. Mi sono abituata persino alla pioggia costante, un po’ meno al vento che soffia sempre in direzione contraria e fa sbandare le ruote. Ormai posso dire di aver pedalato in qualsiasi situazione e sotto qualsiasi clima, persino con la neve, per orrore dei miei genitori.
La neve
Uno degli scorsi giorni, finita la lezione, ci accorgiamo che ha a scendere della neve. Vortica nell’aria in mulinelli per via del vento e si posa colorando la città di bianco, con grande gioia di una collega californiana, che la vede per la terza volta in vent’anni.
Il mio istinto da sud Europa sarebbe chiudermi in biblioteca e aspettare che diminuisca un po’, visto che sono venuta con la bici. Il professore, però, dice che la situazione rischia solo di peggiorare e che è prevista bufera. Così, inforco il sellino e inizio a pedalare.
Pessima idea: il vento spinge i fiocchi quasi in diagonale e molti mi finiscono dritti in faccia, portandomi a chiudere gli occhi mentre pedalo. Le pozzanghere schizzano al passaggio delle ruote bagnandomi le caviglie, mentre gli altri ciclisti mi spintonano da una parte all’altra. Tuttavia, per fortuna, la strada è in discesa, anche se a un certo punto inizio a temere che i freni non siano sufficienti di fronte alla combinazione di neve e forza di gravità.
La neve si scioglie e mi bagna i guanti, rendendomi le mani due blocchi di ghiaccio. Decido di smontare dalla bicicletta per l’ultimo tratto, visto che la neve sta diventando pericolosamente alta. Arrivo a casa con neve ovunque, mani e faccia completamente insensibili e scrollando acqua con un cane dopo il bagno. E qualche giorno dopo mi capita di molto, molto peggio.
Il danese
Una domenica Matias, uno dei ragazzi con cui condivido la cucina, si offre di farmi fare un giro della città. Accetto e, per farmi immergere nella cultura locale, decidiamo di prendere le biciclette. Siccome la sfortuna ci vede benissimo, dopo un’ora circa iniziò a piovere. La pioggia qui è insidiosa, formata da centinaia di piccole gocce capaci di infilarsi ovunque e inzupparti. Noi, impavidi, continuiamo il nostro giro per almeno due ore, attraversando un paio di foreste fangose e il lungomare, per poi tornare in città.
A questo punto vi prego di immaginarvi la scena: io che sembro uscita da una piscina, con tanto freddo che a malapena riesco a muovermi e il vento che continua a soffiare, rischiando di farmi sbandare. Per coronare il tutto, l’unica strada possibile per tornare a casa dal centro città è una collina ripida quasi al 90%. Al solo pensiero sono sul punto di mettermi a piangere e sinceramente tentata di salire su un autobus con la mia bici al seguito.
Matias, però, non me lo lascia fare, incurante delle mie bestemmie, e continua a lanciarmi parole di incoraggiamento, assicurandomi che a forza di pedalare ci si riscalda. Il calore è indubbiamente arrivato: i miei muscoli in autocombustione per lo sforzo. Per fortuna, nel punto peggiore della salita, Matias inizia a spingermi dalla schiena, per farmi fare meno fatica. Non so se avesse avuto pietà o fosse intimorito dagli insulti che borbottavo contro di lui in italiano.
Arrivati in cima, si volta verso di me: – Posso dirti un segreto?
– Certo.
– Nemmeno i danesi fanno questa salita, anche loro pensano che io sia pazzo a farla in bici.
Alice Buselli
(In copertina uno scorcio di Aarhus, Danimarca)
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