Linguistica

La leggenda del latino d’Africa

Latino Africa Cartagine

Le lingue romanze hanno conosciuto alterne fortune, a seconda del luogo e delle circostanze in cui furono parlate. Il latino d’Africa, benché estinto, ha lasciato dietro di sé alcune tracce che restituiscono un affascinante ritratto dell’area linguistica berbera, dall’Impero Romano fino alle conquiste arabe.


Per “area romanza” si intende oggi l’area linguistica che comprende tutti i territori in cui si parla una lingua derivata dal latino. Essa si estende dalle coste del Portogallo a quelle del Mar Nero. Com’è noto, il latino è stato per secoli lingua ufficiale dell’Impero Romano, sopravvivendo poi ben oltre il suo crollo. Eppure, è evidente che non in tutti i territori che sono stati sotto il governo di Roma si sono poi evolute, mantenendosi nei secoli, delle lingue romanze.

Sono diverse le zone d’ombra dell’Impero, in cui da un momento all’altro il latino sembra scomparire a favore di altre lingue, anche genealogicamente molto lontane. Una di queste aree comprende l’intera costa del Nord Africa, un tempo florida provincia romana.

Il punico, lingua di sostrato

Gli studiosi hanno ipotizzato l’esistenza di una lingua romanza d’Africa ormai estinta, ma non per questo priva di interesse. Ben prima della conquista romana, in questa precisa regione del Mediterraneo la lingua ufficiale era il punico, detto anche fenicio-punico, una lingua semitica (come l’ebraico e l’arabo) un tempo diffusa lungo tutte le rotte del Mediterraneo.

Rivelano una chiara radice punica toponimi come Qart-ḥadašt, ‘Tq e Hippo, tradotti poi in latino rispettivamente come Cartagine, Utica e Ippona. Nei confronti di questa lingua romanza d’Africa, il punico agì verosimilmente come lingua di sostrato.

L’esito delle guerre puniche determinò la sconfitta del punico, che tuttavia affianca il latino in alcune iscrizioni conservate e, raramente, in testi letterari latini (come il Poenulus di Plauto). Durante il periodo di maggior splendore romano questa regione assimilò la lingua di Roma, divenendo una delle aree più attive sia economicamente che culturalmente sino al V secolo.

I Vandali e il latino volgare

Con la disgregazione dell’Impero, le città caddero a mano a mano sotto gli attacchi dei Vandali, che imposero con la violenza il loro dominio, senza mai tentare qualche sorta di legittimazione agli occhi dei locali. A questo periodo risale una delle testimonianze più preziose pervenute fino a noi, quella di Agostino. Il vescovo di Ippona, ormai in età avanzata, si preoccupa di ammonire i parlanti riguardo l’uso corretto del latino più nobile, che andava perdendosi:

Cur pietatis doctorem pigeat imperitis loquentem, ossum potius quam os dicere, ne ista syllaba non ab eo quod sunt ossa, sed ab eo quod sunt ora intellegatur, ubi Afrae aures de correptione vocalium vel productione non iudicant?

Agostino – De Doctrina Christiana (IV, 10)

[Perché a un oratore sacro dovrebbe rincrescere di dire, parlando a degli ignoranti, ossum piuttosto che os, per impedire che questa sillaba venga presa come derivante non da quel nominativo il cui plurale è ossa ma da quell’altro da cui deriva il plurale ora, dal momento che l’orecchio degli africani non è capace di distinguere la brevità o la lunghezza delle vocali?]

Agostino ci informa del fatto che i latinofoni d’Africa non sanno distinguere un “osso” da una “bocca”: le loro orecchie non percepiscono più la durata delle vocali, che invece nel latino classico era un tratto distintivo, perché differenziava ōs (bocca) da ŏs (osso). Tornando alle invasioni di cui sopra, anche i Vandali, come altri popoli barbarici, fanno proprio il latino, ma non quello classico. Lo sappiamo grazie ad alcuni documenti che attestano la lingua d’uso del tempo, in particolare le cosiddette tavolette Albertini, una serie di trentuno documenti legali scritti su supporto ligneo che costituisce una fonte di primaria importanza per conoscere il latino d’Africa.

Nelle tavolette Albertini molti sono gli “errori di ortografia” tipici del latino volgare, come la caduta di -m in posizione finale (salute per salutem; matre per matrem) e la spirantizzazione di B (passaggio da B intervocalica a V, mutamento portato probabilmente da questa zona alla penisola iberica, dove sopravvive ancora oggi). Per queste caratteristiche, le tavole mostrano anche l’evoluzione del sistema vocalico di questo particolare volgare.

Per fare un esempio, se ĭ nelle lingue romanze occidentali e orientali evolve in un suono /e/. (dal latino pira all’italiano pera), nel latino d’Africa ĭ evolve in un suono /i/. A partire dal latino pĭra, dunque, si avrà come esito finale “pira”. Questo stesso esito si può osservare in un’altra intrigante lingua romanza, sardo, con cui forse il latino d’Africa ha condiviso altre isoglosse.

L’ipotesi sarda

Lo studioso J.N. Adams, e ancor prima di lui l’umanista Paolo Pompilio, suggerisce qualche affinità tra l’idioma diffuso in Nord Africa e il sardo dei giorni nostri. Adams nota che alcuni termini, come spanus e spanu (“rossiccio”) o chenapura (“venerdì”), mantengono la stessa forma e il medesimo significato sia in una che nell’altra lingua.

Un’altra testimonianza a favore di questa tesi ci arriva dal geografo Muhammad al-Idrisi, che nella sua opera Kitāb Rujār (“Il libro di Ruggero”) definisce i sardi come Rūm Afāriqa (“romani d’Africa”), descrivendo il loro modo di vivere come simile a quello dei berberi.

I relitti latini

Qualche traccia di quest’antica eredità linguistica è osservabile nelle parlate delle popolazioni Amazigh. Il loro lessico è influenzato dalle numerose lingue che si sono succedute nell’area: dal punico, all’arabo o addirittura dal francese in età più recente. Tra queste lingue di superstrato trova spazio anche il latino d’Africa.

Bisogna tuttavia saper distinguere i prestiti dal latino da quelli dal francese, un compito arduo data la facilità con cui i vocaboli si mimetizzano rendendosi irriconoscibili. Secondo il linguista Vermondo Brugnatelli, esperto di lingua e cultura berbera, alcuni vocaboli di origine latina conservati nei dialetti berberi sono ad esempio i seguenti:

  • La parola äng’alus (ⴰⵏⵖⴰⵍⵓⵙ, أنغلس), mutuata da angelus, indicante un’entità spirituale;
  • La parola ickirtickirt derivata probabilmente da aesculus (un tipo di quercia), che suggerirebbe un legame ad sostrato mediterraneo comune sulla scorta del confronto col basco ezkur.

Inoltre, vengono in genere considerati derivanti dal latino d’Africa i seguenti termini:

  • I prestiti che terminano in -u (per es. berbero abekkadu “peccato”) e non in -us (come berbero asnus “giovane asino”);
  • Termini con un aspetto fonetico o morfologico che non è già più latino, e che è allo stesso tempo diverso da quello di italiano, francese o spagnolo (per esempio berb. agursel “fungo”, che suppone una base *agaricellus)

Bisogna tuttavia tenere a mente che, con ogni probabilità, si svilupparono diverse varianti dialettali del cosiddetto latino d’Africa. Alcuni termini, poi, devono la loro forma o a differenti epoche dell’acquisizione o a differenti “parlari romanzi” d’origine. È necessario, quindi, tenere in considerazione eventuali prestiti di forma diversa, ma con una stessa origine latina, come nel seguente caso:

  • Marocco centr. ayugu “bue da lavoro”, cabilo (dialetto berbero) tayuga “coppia di buoi” (< lat. iugum);
  • Cabilo azaglu  “giogo” (< lat. iugulum);
  • Cabilo aguglu “cagliata fresca”, cabilo kkal “cagliare” ikkil “latte cagliato” (< lat. coagularicoagulum).

La lingua dello spirito

È d’obbligo procedere con grande cautela nel momento in cui si cerca un qualche legame etimologico latino, tenendo ben presente anche il lungo processo di arabizzazione in cui gli idiomi autoctoni sono stati coinvolti.

Molti termini in origine con una patina romana, in misura maggiore quelli del campo semantico religioso e spirituale, si sono presto arabizzati in seguito all’avvento dell’Islam. I vocaboli che hanno resistito nella loro forma più romanza sono ben pochi, tra i quali:

  • taghawsa (dal latino causa);
  • tanumi “norma, abitudine” (connesso forse al greco nómos);
  • tuar. émerkid , emârked “ricompensa divina”, dal latino merced(em), presente anche —con diverse sfumature di significato— a Ouargla (amerkidu “elemosina”), nello Mzab (amerc’idu “ringraziamento, ricompensa”), a Ghat (amarkidu “ricompensa per le buone azioni”), nel Marocco centrale (bu-imercidan nome del settimo mese islamico, corrispondente a bu-lajur’ “quello delle ricompense”);
  • tuar. abekkâd’  “peccato”, cabilo abekkad'(u)  “male/malattia; grande disgrazia”, dal latino peccatum;
  • Il già citato äng’alus.

Risulta sempre affascinante riscoprire, nella nebbia del passato e di una storia caotica, le tracce di una lingua ormai estinta come il latino d’Africa, custode di una memoria che si perde tra verità e leggenda. Nessun filo di Arianna, ma solo qualche flebile bagliore in questa Babele oscura che è l’universo delle lingue più antiche; una realtà che forse è destinata a rimanere avvolta per sempre in un buio quasi religioso.

Jon Mucogllava

(In copertina Didone costruisce Cartagine, di William Turner)


Per approfondire

  • Brugnatelli Vermondo. I prestiti latini in berbero: un bilancio, in M. Lamberti e L. Tonelli (a cura di), 9º Incontro di Linguistica Afroasiatica (Camito-Semitica) Trieste, 23-24 aprile 1998Afroasiatica Tergestina, Padova 1999, pp. 325-332.
  • Fanciullo Franco. Un capitolo della Romània submersa: il latino africano, in D. Kremer (a cura di), Actes du XVIIIe Congrès International de Linguistique et de Philologie Romane – Universitè de Trèves (Trier) 1986, vol. I, Tübingen 1992, pp. 162-187.

La sezione di Linguistica di Giovani Reporter è a cura di Elettra Dòmini, Francesco Faccioli e Davide Lamandini.

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