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Mamma, moglie o scienziata? – 3 opere sulle donne nella Scienza

Donne nella scienza 11

Ogni mese suggerimenti, consigli e recensioni di opere d’arte di ogni genere che permettano di aprire una visione ad ampio campo su un argomento scientifico. Ogni mese sarà un’occasione di approfondimento, un punto di vista in più per arricchire la nostra idea di Universo. Sarà un grandangolo, un obiettivo da 8 mm aperto sul mondo della Scienza.


Giornata internazionale delle donne nella scienza

La Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza, ricorsa lo scorso 11 febbraio, è stata istituita dall’Onu per promuovere la piena parità di opportunità nella carriera scientifica. Parità, che a quanto pare, siamo ancora lontani dal raggiungere. 

Oggi, dopo i grandi passi avanti fatti a partire dalla metà del secolo scorso, sembra che anche le donne possano facilmente far parte della comunità scientifica. Nella nostra società l’accessibilità non sembra un problema: certo che è permesso a tutte e tutti di diventare fisici, matematici, medici e ricercatori. Purtroppo, ciò che ancora manca sono considerazione e riconoscimento.

Diversamente da cinquant’anni fa, oggi la quota rosa di grandi ricercatrici e scienziate si è notevolmente ampliata. Eppure, in busta paga la differenza si fa ancora sentire, e anche socialmente il peso non si è alleggerito. Ancora ci siamo sorpresi quando Fabiola Gianotti è diventata direttrice del CERN di Ginevra, nel 2016, e qualcuno ha sgranato gli occhi quando Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna hanno vinto il Nobel per la Chimica, nel 2020. E nel campo dei Nobel la situazione è proprio tragica: dal 1901 i premi consegnati alle donne sono stati appena 60, circa il 4% del totale. Un gender gap non da poco, direi.

Sembra quasi che oggi i diritti siano stati formalmente ottenuti, ma manchino ancora una cultura e una società in grado di garantirli. Ciò di cui avremmo bisogno è un cambio di mentalità: il Nobel assegnato a una scienziata, il primario di Cardiochirurgia donna, una Fisica alla guida di un team di ricerca internazionale dovrebbero essere la norma e non eccezioni che ci fanno sgranare gli occhi.

Donna, madre, moglie e scienziata

Anche la narrazione mediatica che si fa delle donne nella Scienza è ancora troppo scorretta. Per giornalisti e programmi televisivi una grande ricercatrice è prima di tutto una donna, quindi una madre (o una moglie, o entrambe), e solo infine una scienziata. Invece, quando è un uomo a essere al centro di articoli di cronaca, o della presentazione di un talk show, è innanzitutto “luminare della Scienza” o “esimio Professore”. Mai padre, mai marito, mai solo uomo. 

Sono cresciuta in una famiglia che mi ha sempre esaltato per le mie capacità, per i miei talenti e i risultati ottenuti, e mai, crescendo, avrei pensato di poter essere giudicata per altro. Che la mia carriera futura sarebbe dipesa dal mio genere.

Quando ho iniziato a studiare Medicina il mio unico pensiero era diventare un buon medico, uno di quelli che sa ascoltare i pazienti e mettere al primo posto la persona e non la malattia, con empatia e professionalità. Pensavo che sarebbe bastato studiare, dare il massimo e arrivare alla laurea. Quando invece ho iniziato a frequentare come tirocinante l’ospedale, mi sono accorta, per la prima volta, di essere una donna che studia Medicina. Mi sono accorta che per molti pazienti saremo sempre le “signorine” e che quando arriva “il Dottore” stanno tutti più tranquilli. Ho visto che nei reparti di Chirurgia le donne sono sempre meno, e quelle che ci sono stanno lì solo perché sono considerate “donne con i pantaloni”. Ho capito che la strada non è come me l’ero sempre immaginata, e che ancora i cambiamenti necessari sono tanti. Ma spero davvero di poter veder accadere questo cambiamento, con i miei occhi e con il mio camice. 

I miei consigli

1. Il diritto di contare. Un film di Theodore Melf, con Taraji P. Henson, Octavia Spencer, Janelle Monáe, Kevin Costner, Kristen Dunst (Chernin Entertainment, Fox 2000 Pictures, 2016)

La vera storia di Katherine Johnson, Dorothy Vaughn e Mary Jackson, tre scienziate afro-americane che hanno rivoluzionato gli studi alla NASA. Tratta dall’omonimo libro di Margot Lee Shetterly, la pellicola racconta una storia che parla di America, di razzismo e di diritti

La scena si apre con la piccola Katherine intenta a fare calcoli e identificare figure geometriche nel paesino di campagna in cui vive. Il suo talento è presto riconosciuto e, come può accadere solo nelle vere favole a lieto fine, le viene riconosciuta una borsa di studi che permette alla famiglia di trasferirsi e alla giovane promessa della matematica di frequentare scuole di alto livello.

Poi uno stacco: siamo nel 1961, Virginia, auto in panne e tre donne di colore intente a ripararla. Katherine lavora con Dorothy (supervisore non ufficiale) e Mary (aspirante ingegnere) al Langley Research Center di Hampton, sono parte del gruppo di calcolo di donne di colore dell’ala Ovest. Altro stacco: sala riunioni del centro di ricerca, tutti uomini in camicia e cravatta a discutere di traiettorie di lancio e matematica complessa; l’unica donna è la segretaria di Al Harrison, gonna sotto il ginocchio, tacchi neri e un giro di perle al collo. 

Il titolo originale del film di Melfi è Hidden figures, un titolo che evoca in maniera lampante il ruolo del gruppo di calcolo dell’ala Ovest, una manciata di mani che producono numeri per i piani alti. Comunque, il titolo italiano mi sembra migliore, più schietto forse. Il diritto di contare è un film che parla necessariamente di diritti, civili e umani. La segregazione razziale e la discriminazione di sesso sono il perno attorno a cui gravita la vita di Katherine. Il diritto di contare affronta temi ormai pluritrattati e talvolta banalizzati, ma lo fa in un modo molto chiaro e pulito (forse troppo?).

Le violenze dell’epoca restano solo sullo sfondo, M. L. King fa una rapidissima apparizione su un televisore, il marito di Mary si lascia prendere dalla rabbia. Ma nulla di più. I diritti vengono reclamati con audacia ed eleganza, in maniera decisa ma con toni sempre ragionevoli. E alla fine quei diritti, in tanti altri contesti negati, vengono concessi alle tre scienziate (e a tutto il gruppo di calcolo infine) in apparenza solo per uno stato di necessità. Tuttavia, la necessità diventa presto riconoscimento e rispetto: il chilometro che Catherine fa di corsa tutti i giorni per andare al bagno è lo stesso che alla fine l’impiegato di Harrison farà per andare a chiederne l’aiuto. 

Il diritto di contare è un film ben fatto, rassicurante, che racconta una bella storia di coraggio e talento, lasciandone da parte tante altre tremende. Ma forse, ogni tanto, serve anche raccontare una storia rassicurante, che sa di speranza e traguardi. Il diritto di contare è consigliato a chi sa sognare, a chi sa andare oltre e non lasciarsi fermare mai. A chi ama la matematica e a chi sogna lo Spazio.

2. Un laboratorio tutto per sé. Un podcast scritto e condotto da Lucia Mascotelli, disponibile su Spotify e Spreaker.

Un laboratorio tutto per sé, così chiamato in omaggio al celebre romanzo di Virginia Wolf, è uno spazio dedicato alle storie di scienziate italiane intervistate da Lucia Mascotelli, ideatrice e voce del podcast. 

Lucia, forlivese di nascita, è una giovane ricercatrice in ingegneria aerospaziale presso il laboratorio CICLoPE dell’Università di Bologna; ha co-fondato nel 2017 EUROAVIA Forlì-Bologna, Associazione Europea di studenti di ingegneria aerospaziale, e nel 2020 il progetto Monnalisa, collettivo femminista della città di Forlì. E già il curriculum di Lucia fa ben sperare sul contenuto del suo podcast.

Un laboratorio tutto per sé è una chiacchierata informale con ragazze e donne di talento, uno sguardo sul mondo della Scienza al femminile, con tutti i successi e le criticità (ancora troppe) del caso. Tecnicamente il podcast non è perfetto, il prodotto è ancora amatoriale, le voci hanno volumi diversi e non sempre la registrazione è cristallina. Ma ciò che davvero fa la differenza è il contenuto: sempre chiaro e potente. 

Un laboratorio tutto per sé offre molteplici punti di vista, storie personali e opinioni taglienti. Gli argomenti trattati sono vari, così come i pregi e i difetti della comunità scientifica, soprattutto italiana. A raccontare di sé arrivano Silvia De Francia, farmacologa clinica e ricercatrice dell’Università di Torino, che affronta l’enorme problema della medicina di genere; poi Gallina Tullia Toschi, professoressa di Agraria, che si occupa di diritti di genere e che ha collaborato alla realizzazione del progetto europeo PLOTINA. E ancora la giovanissima Linda Raimondo, con la sua inesauribile curiosità, e Antonio Micol Frassino, ricercatrice di fisica teorica che sa trovare bellezza nella quotidianità e conosce la fatica del trovare il proprio posto in questo mondo. E tante altre storie, ognuna con la sua unicità, ma tutte accomunate dalla difficoltà di farsi strada e superare ostacoli imposti dalla discriminazione di genere. 

Un laboratorio tutto per sé è consigliato a chi ama la Scienza e la Ricerca, a chi ha paura di dover scegliere, a chi pensa che la strada sarà troppo in salita. A tutte le donne che sgomitano/lottano quotidianamente per vedere riconosciuto il proprio lavoro. 

3. Dorothy Andersen e la scoperta della fibrosi cistica

Lo scorso anno in occasione del National Women Physician Day, giornata istituita in onore delle Dottoresse americane che coincide con la data di nascita della prima donna laureatasi in Medicina negli Stati Uniti, Elizabeth Blackwell, la Fondazione per la Fibrosi Cistica ha pubblicato questo tweet: 

La fotografia è un ritratto di Dorothy Hansine Andersen, dottoressa che nel 1935 lavorava come aiuto-patologa all’Università della Columbia a New York. A lei si deve il primo case report sulla fibrosi cistica. L’immagine è una semplice fotografia dell’epoca, nulla di artisticamente esaltante, ma è sicuramente uno scatto che porta con sé una splendida storia. 

La dottoressa Andersen, nata in North Carolina nel 1901, dopo aver perso il padre in giovanissima età (e dopo soli sei anni anche la madre), si laurea alla Johns Hopkins University School of Medicine nel 1926 e successivamente cerca di ottenere una borsa come Specializzanda di Chirurgia. In quanto donna, il posto le viene rifiutato. Unitasi al team di Patologia della Columbia University, la Andersen si dedica quindi alla ricerca su ghiandole endocrine e riproduzione femminile. Uno dei suoi compiti è quello di fare autopsie. Ed è così che nel 1935 si trova ad analizzare un bambino con diagnosi di celiachia ma deceduto nonostante la dieta aglutinata. Durante l’autopsia nota lesioni peculiari a livello del pancreas. Lo stesso quadro si manifesta in altri pazienti: da qui viene pubblicato il primo articolo sulla “Fibrosi cistica del pancreas” (1938) e da qui partono tutti gli studi che ci hanno portato, oggi, ad avere approfondite conoscenze di questa patologia. 

La fibrosi cistica è una malattia ereditaria e multisistemica, che colpisce diversi organi e apparati, causando insufficienza pancreatica, complicanze metaboliche e talora infertilità. La malattia polmonare progressiva è la principale causa di mortalità e morbilità in questi pazienti. Le vie aeree vanno incontro ad una anomala e irreversibile dilatazione per distruzione sia della componente elastica che di quella muscolare della parete (in gergo tecnico si parla di “bronchiectasie”). Questa condizione morfologica causa infezioni ricorrenti e pericolose complicanze, quali insufficienza respiratoria, ipertensione polmonare, pneumotorace ed emottisi. Il tutto è causato da una mutazione del gene codificante per CFTR, il regolatore della conduttanza transmembrana della fibrosi cistica, un complesso canale del cloro e proteina regolatrice che si trova in tutti i tessuti esocrini. La sua disfunzione causa, in tutti i tessuti ad eccezione della pelle dove il funzionamento è inverso, un ingresso di sodio, oltre che di cloro, a livello intracellulare. Conseguentemente le superfici esterne si disidratano: a livello dell’epitelio respiratorio il muco ristagna e a livello pancreatico il succo diventa più viscoso. 

Oggi la fibrosi cistica è la malattia genetica ereditaria mortale più comune nella popolazione caucasica, dove colpisce circa 1 soggetto su 2500. Negli Stati Uniti circa 30.000 pazienti ne sono affetti, e la sopravvivenza arriva oggi a 47-48 anni. L’aspettativa di vita di questi pazienti si è allungata notevolmente negli ultimi anni, grazie una diagnostica più precoce e precisa e a trattamenti sempre più mirati. 

Ed è bello e doveroso ricordare che nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile se la dottoressa Andersen non si fosse accorta del bizzarro aspetto anatomopatologico di un pancreas malato. La scoperta di una donna, discriminata e rifiutata dal mondo della Chirurgia, ha cambiato la vita a migliaia di pazienti. 

I consigli della redazione

  • Il genio delle donne: breve storia della scienza al femminile, di Piergiorgio Odifreddi (Rizzoli, 2019).

Ci vediamo il prossimo mese!

Tema di marzo 2022: Giornata mondiale della tubercolosi. Parliamo di patologie infettive.
Hai qualche idea, consiglio, spunto o appunto sul tema? Invialo a redazione@giovanireporter.org o scrivici su Instagram (@giovanireporter)!


Teresa Caini

(In copertina illustrazione originale di Tiziana Capezzera)

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