
Cosa resta di un film dopo la visione? E, in particolare, cosa ci resta dopo aver visto “È stata la mano di Dio”, il nuovo film di Paolo Sorrentino candidato all’Oscar e disponibile su Netflix?
Il silenzio dopo il film
Solo di recente ho cominciato a valorizzare un momento specifico di quel rituale magico che per me è vedere un film: il dopo. Nella mezz’ora successiva al termine della visione cerco di elaborare la storia, assaporo ancora un po’ l’atmosfera che la pellicola ha creato, ascolto le sensazioni suscitate. Ho anche scoperto che quell’arco di tempo diventa molto più produttivo se partecipano altre persone al rituale: in quelle occasioni mettere a confronto i diversi punti di vista aiuta tutti a capire di più il film e forse anche a conoscere meglio le persone con cui abbiamo condiviso quelle due ore di silenzio in sala o sul divano.
Eppure, per quanto ami quel momento di condivisione e mi piaccia prendervi parte attivamente, ci sono state delle occasioni in cui non sono riuscita a dire niente: ascoltavo distrattamente i commenti degli altri senza riuscire a formularne uno mio, perché una parte di me era rimasta dentro la sala, ancora seduta sulla poltrona con la netta sensazione di aver appena visto qualcosa che mi avrebbe cambiata, arricchita, senza avere ancora capito come.
I film che mi hanno provocato questa sensazione sono pochissimi: l’ultimo, in ordine di tempo, È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino.
Adolescenza e paura di scontrarsi con la realtà
Il nuovo film di Paolo Sorrentino porta sullo schermo una fase della sua adolescenza, forse la più importante, perché probabilmente la parte della vita che l’ha reso la persona che è. Sono pochi i film che riescono a rendere in modo così chiaro e toccante quanto la realizzazione personale, che parte dal guardarsi dentro, passi e spesso tragga origine dal dolore.
Il regista accompagna con grande delicatezza lo spettatore nella quotidianità del suo alter ego cinematografico, Fabio Schisa, da tutti chiamato Fabietto. Fin da subito, si ha l’impressione che la sua vita segua un ritmo molto più interiore che esteriore: nella dimensione di intimità della casa si costruisce l’universo di Fabietto, i cui punti di riferimento sono la madre, il padre e il fratello. Il legame strettissimo che ha con ognuno di loro li rende anche la lente con cui scopre la realtà, senza mai farlo in prima persona.
Osservando il rapporto tra i genitori conosce l’amore, che per lui ha il suono di un dolce fischiettare; ma anche la delusione, la rabbia del tradimento e la disinvoltura con cui questi sentimenti possono diventare parte integrante della quotidianità familiare. Attraverso il fratello vive il suo primo contatto con il cinema, scopre il coraggio di mettersi in gioco e la capacità di imparare anche dal fallimento. In questo stesso modo Fabietto sperimenta anche il suo primo approccio alla sessualità: nonostante per tutta la prima parte del film non riesca quasi a rivolgerle la parola, ha un intenso scambio di sguardi con la zia, carichi di erotismo.
Fabietto sta sempre dietro le quinte, osserva gli altri e quello che fanno, assorbendo tutto; finché una sera si verifica un evento che lo strappa da quell’universo interiore in cui era solito rintanarsi e lo proietta nella vita vera nel più brusco dei modi: la morte improvvisa dei suoi genitori. È in questo momento che il suo mondo viene stravolto: non c’è più il calore del “dentro”, dentro di sé, dentro la casa, ma solo il “fuori” della vita vera, fredda e spesso incapace di offrire un riparo dal dolore. La disgregazione del nucleo vitale del protagonista lo lascia improvvisamente solo ad affrontare la realtà, senza che ci sia più nessuno attraverso cui può toccarla.
La necessità di crescere (e andare via)
Nel faticoso tentativo di restare a galla e non soccombere al dolore della perdita, Fabietto trova un’ancora di salvezza nel cinema e soprattutto nel celebre regista napoletano Antonio Capuano, che incontra casualmente a teatro. Durante il loro bellissimo incontro, il ragazzo si rivolge a lui come se fosse l’unico in grado di salvarlo: gli confessa di voler cominciare a fare cinema per costruirsi una realtà migliore di quella che è costretto a vivere, quella in cui ha perso tutto. La risposta di Capuano è simile a quella di un oracolo: enigmatica e definitiva, ma anche determinante per il cambiamento che avverrà nella vita del giovane.
È ora che ti fai chiamare Fabio. Non ti disunire mai, Fabio […] e lo sai perché? Perché non ti hanno lasciato solo: ti hanno abbandonato.
Capuano sprona il protagonista a crescere, non perché può, ma perché deve: non è più un ragazzino, non può più farsi chiamare con un diminutivo; e Fabietto è diventato Fabio nel momento in cui le figure che fino a quel momento l’avevano protetto sono svanite, abbandonandolo in un mondo troppo duro e complicato da fronteggiare per chi ha sempre vissuto dentro di sé, in compagnia dei suoi pensieri e dei suoi desideri.
Eppure, il vero motivo per cui il personaggio di Capuano è fondamentale nella crescita di Fabietto è un altro: perché gli dice che la cosa migliore da fare è restare. E forse è in quel momento che il ragazzo capisce davvero quanto sia per lui necessario andarsene.

Il film si conclude con la scena di Fabietto sul treno diretto a Roma, mentre il paesaggio gli scorre davanti agli occhi. Su questa inquadratura cominciano i titoli di coda, dando l’impressione che il film sia finito nel momento in cui la vita del protagonista è sul punto di iniziare. Probabilmente la bravura di Sorrentino nel raccontare la sua storia sta proprio in questo: nel trasmettere quanto sia più importante guardare non ai traguardi, alla crescita, ma a ciò che li ha resi prima di tutto immaginabili, a volte quasi necessari.
Il valore dell’incertezza
Le storie non dovrebbero essere sempre di successi e conquiste, ma raccontare anche di quei momenti in cui il mondo ci crolla addosso e cerchiamo di rimetterne insieme i pezzi, senza sapere da dove cominciare. Ho amato anche questo aspetto del film: lo spettatore non sa cosa succederà a Fabietto una volta arrivato a Roma, se riuscirà a realizzare i suoi sogni, come si approccerà a questo nuovo mondo. Eppure, mentre ero ancora seduta sulla poltrona del cinema a guardare i titoli di coda, con lo stesso rapimento con cui avevo visto tutto il film, non ho potuto fare a meno di chiedermi che cosa avrebbero pensato i genitori del regista se fossero stati presenti nel pubblico.
Forse sarebbero stati felici nel vedere che Fabio non ha mai smesso di essere Fabietto, che crescendo non ha rinunciato al suo mondo interiore, ma anzi ha trovato un modo per farci entrare tutti quelli che ne erano al di fuori, raccontando con grande amore la storia di una famiglia nella sua chiassosa presenza e nella sua assordante assenza.
Matilde Catelli
(In copertina e nell’articolo immagini tratte dal film È stata la mano di Dio, disponibile su Netflix)
Per approfondire: I migliori 10 (+1) film e serie TV usciti nel 2021 (un articolo di Alessandro Leo)