L’Ucraina si trova circondata su tre fronti: lungo il confine meridionale in Crimea, annessa alla Russia nel 2014; lungo quello orientale nella regione filorussa del Donbass; lungo quello settentrionale in Bielorussia, dove Putin ha iniziato da alcune settimane ad ammassare truppe per quella che ha dichiarato essere un’esercitazione congiunta con Minsk.
Un totale di centomila soldati che guardano a una regione sulla quale il Cremlino ritiene di avere un “diritto storico”, ma che invece negli ultimi decenni si è spostata sempre più verso Occidente. Una massa di combattenti pronti ad intervenire a un cenno del loro capo, e dal momento che il capo in questione è Vladimir Putin il resto del mondo ha tutte le ragioni per temere un’escalation.
Escalation o bluff?
Mentre Mosca nega l’intenzione di occupare l’Ucraina — le forze dispiegate non sono forse sufficienti a conquistare l’intero Paese, ma di sicuro la regione separatista del Donbass — lo Stato minacciato prepara il proprio corpo militare e allerta i civili, guardando con fiducia al continente europeo e al di là dell’Atlantico. Il presidente statunitense Biden non ha esitato a mettere il naso in quella che sembra a tutti gli effetti la nuova polveriera dell’equilibrio geopolitico mondiale.
Le intenzioni del Cremlino sono difficile da interpretare e ancora di più da prevedere. Il fronte occidentale si divide tra chi, come Biden e Johnson, vede le truppe schierate al confine come un chiaro segno di conflitto imminente; e chi, come il neoeletto cancelliere tedesco Olaf Scholz e l’Alto rappresentante dell’Unione Europea Josep Borrell, ritiene si tratti solo di un bluff per ottenere concessioni.
Una questione di influenza
Anche se la Russia non sembra interessata a scatenare una guerra, le condizioni che pone risultano perentorie. L’intento evidente è ricostruire la sfera d’influenza russa, ristretta notevolmente dopo il crollo dell’URSS nel 1991. La perdita dell’Ucraina è stata sicuramente una delle più dolorose, e ha lasciato profonde ferite in parte della popolazione di entrambe le regioni. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti temono un’espansione russa in Europa dell’Est e si ergono in difesa del diritto di ogni Paese di scegliere il proprio destino e le proprie alleanze.
Il destino a cui punta Kiev è la piena ammissione nell’élite occidentale che orbita intorno agli Stati Uniti, obiettivo esplicitato dalle numerose richieste di ammissione alla NATO. Mosca si oppone nettamente a questa possibilità, ponendo addirittura un veto che non viene tuttavia considerato valido dall’Organizzazione. Il Cremlino punterebbe addirittura a strappare dalla NATO tutti i Paesi, principalmente ex repubbliche sovietiche, che vi hanno aderito nell’ultimo ventennio, riportando l’equilibrio nel Vecchio continente al 1997.
Equilibri anacronistici
È proprio di equilibrio che si tratta: di quella balance of power deteriorata e ricostruita più volte nel corso del secolo scorso che ancora oggi, anche se apparentemente dietro le quinte, governa la situazione geopolitica mondiale. L’area balcanica ne costituisce da tempo il baricentro: una buffer zone che si frappone tra Mosca e Washington, mediandone – simbolicamente e non – i contatti. La Guerra Fredda si è, almeno formalmente, conclusa da tempo, e la necessità di mantenere neutrale l’area in questione potrebbe risultare anacronistica. Ciò non toglie che, di fatto, se le due (ex) superpotenze si scaldano ancora fino a questo punto quando si tratta di sfere d’influenza, forse le dinamiche del bipolarismo sono ancora in qualche modo presenti.
La condanna russa non è tuttavia il solo ostacolo all’ingresso dell’Ucraina nella NATO. L’Organizzazione non può infatti accettare nuovi membri che siano coinvolti in conflitti. Sarebbero inoltre necessarie numerose riforme politiche e militari per allineare il Paese agli standard richiesti dall’Alleanza.
Il coinvolgimento dell’opinione pubblica
Capirci qualcosa in questo intreccio di interessi e taciti accordi costituisce un’impresa non da poco, resa ancora più ardua da un naturale bias informativo. Osservando la questione da questa parte dei Balcani, viene spontaneo pensare a Mosca come al predatore aggressivo – e, ammettiamolo, anche un po’ irrazionale – e a Washington come all’intrepido difensore, in una concezione non prettamente positiva. Biden, apparentemente meno guerrafondaio del suo predecessore, ha adottato da subito una politica attiva e reattiva: non si è lasciato certo pregare prima di intervenire contro il suo nemico storico. E, mentre la Cina osserva da lontano e l’Europa teme una guerra in casa e ostacoli alle forniture di gas da cui tanto dipende, trattative e negoziati hanno ceduto il passo alla open diplomacy, che negli ultimi tempi si rafforza sempre di più.
La Casa Bianca, la NATO e l’Unione Europea stessa stanno infatti diffondendo informazioni solitamente riservate all’intelligence o sfruttate per fini negoziali, oltre a lanciare pubblicamente minacce e accuse che non fanno altro che allarmare l’opinione pubblica. L’effetto in risalto è quello di compattare il fronte occidentale contro la minaccia di Putin. Un elemento che potrebbe tornare utile anche a Biden nel più ristretto contesto americano: i margini di consenso del presidente stanno crollando, e storicamente una guerra (che vada a toccare quindi il manifest destiny americano) ha buone probabilità di suscitare una spinta patriottica per recuperare unità e compattezza politica. Non dimentichiamo tuttavia il recente ritiro di Washington dall’Afghanistan: vale davvero la pena rischiare un terzo Vietnam?
Il pericolo dell’allarmismo
L’atteggiamento di pieno coinvolgimento dell’opinione pubblica provoca tuttavia un secondo effetto: un allarmismo generalizzato che potrebbe portare a scartare frettolosamente i mezzi diplomatici per passare subito alle mani. Nonostante ci siano stati vari tentativi di dialogo, soprattutto da parte dei leader europei, asserzioni come quella di un attacco russo programmato e dichiarato fanno propendere verso un intervento necessario, magari addirittura preventivo. E una tale reazione porrebbe i “difensori” allo stesso livello dei “predatori”. Non è forse l’effetto che Putin vuole suscitare?
Mentre si diffondeva la notizia che la CIA avesse le prove di un attacco imminente, Mosca spingeva per un accordo che riprendesse quello di Minsk del 2014, per ritrattare l’annessione del Donbass ed escludere la possibilità dell’ingresso dell’Ucraina nella NATO, quasi facendo del Paese uno Stato-cuscinetto in pieno modello Guerra Fredda. Non c’è dubbio che le modalità scelte da Mosca per portare avanti le proprie richieste siano discutibili, ma la sensazione è che la Casa Bianca non si sia fatta problemi ad assecondarle.
Il nemico è relativo
Secondo Frankly Fukuyama, l’Ucraina oggi è uno Stato in prima linea nella battaglia geopolitica globale tra democrazia e autoritarismo. Il mancato attacco e il recente ritiro delle truppe russe mostrano che, alla fine, la diplomazia è risultata la via scelta per la risoluzione della crisi. Una crisi che, agli occhi dell’opinione pubblica, sembra aver riconfermato la costante e imprevedibile minaccia di Mosca.
Quello che forse noi “Occidentali” dovremmo considerare è che, se Mosca per noi è un nemico, noi siamo un nemico per Mosca. E, se noi non vogliamo che l’Ucraina cada sotto l’influenza della Russia (cosa che ci porterebbe il nemico e le sue base militari alle porte dell’Europa), Mosca non vuole che l’Ucraina diventi un membro della NATO per lo stesso motivo.
Un punto di vista troppo di parte potrebbe portare all’offuscamento delle vere ragioni della crisi, e di conseguenza all’impossibilità di trovare soluzioni concrete. Se davvero vogliamo difendere la nostra amata democrazia, non serve dimostrare di essere i più forti. Anche perché, a forza di far vedere i muscoli, prima o poi si finisce per usarli davvero.
Clarice Agostini
(In copertina nytimes.com)