“Hò fatto”, “pasiensa”, “solenzio”: è la “lingua degli incolti“, come la definisce Tullio De Mauro. L’italiano popolare degli analfabeti (circa il 10% degli italiani), una “lingua altra” rispetto a quella standard. Si tratta di una varietà inclusiva o arretrata?
Una lingua per gli incolti
Nella lettera all’antropologa Annabella Rossi da parte di Anna del Salento, rinominata “la contadina tarantata”, leggiamo una serie di errori di fronte a cui noi inorridiremmo: “Buona Signorina”, “mi sono stato in solenzio”, “hò fatto”. Inoltre, la punteggiatura è ridotta al minimo. Ancora, in un testo scritto da un soldato a Mauthausen troviamo “Bevero”, “Pasiensa”, “sborgna”. Anche qui i segni di interpunzione sono “selvaggi”.
Tullio De Mauro, uno dei più esperti linguisti italiani contemporanei, analizzando prodotti di questo tipo, ha rilevato un tipo “altro” di italiano che nasce già nell’Ottocento, in seguito alla creazione di una lingua unitaria. Parla di un italiano delle classi popolari, da ricondurre ai parlanti incolti, analfabeti (si stima circa il 10% degli italiani adulti). Il linguista lo definisce così:
Il modo di esprimersi di un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza addestramento, maneggia quella che ottimisticamente si chiama lingua nazionale.
Tullio De Mauro
Per il collega Manlio Cortelazzo è invece:
L’italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto.
Manlio Cortelazzo
Una varietà unitaria
Ciò che hanno in comune Anna e il soldato sono una minima scolarizzazione, la provenienza da regioni poco alfabetizzate, zone che magari risentono ancora dell’industrializzazione, della guerra o delle migrazioni. Potremmo dire che i due mittenti siano semicolti. Le loro lettere sono intrise di dialettalismi, malapropismi (come “palchè” al posto di parchè), ridondanze, ipercorrettismi (“squola” al posto di scuola), interpunzione selvaggia, maiuscole improprie, segmentazioni erronee (“l’aspirale” invece di la spirale). I suoi parlanti sentono l’urgenza, il bisogno, di parlare la stessa lingua di tutti. Che sia per mandare una lettera alla famiglia, o per trovare lavoro, bisogna cercare di maneggiare la lingua.
Saremmo portati a credere che questa poca capacità di adoperare la lingua italiana sia motivo di marginalizzazione, eppure l’italiano popolare è una varietà unitaria. Lo è in quanto italiano, in quanto linguaggio verbale umano. In aggiunta, anche i nostri due personaggi hanno una capacità linguistica: sono in grado di trascrivere ciò che esprimono oralmente. L’italiano che scrivono è lo stesso italiano che parlano. Di fatto questa variante è prettamente orale, non scritta. Si parla di lingua trascritta.
L’italiano popolare oggi
E questo ci porta ad un’altra questione: è così facile ravvisare l’italiano popolare nella scrittura oggi? Pensiamo semplicemente alla frequenza con cui troviamo espressioni quali “il giorno che ti ho incontrato” o anche “oggi stò male”. Questa varietà esiste ancora ai giorni nostri e, anzi, i media hanno reso più labile il confine tra un linguaggio standard e uno popolare, considerando in primis la rapidità di scrittura online.
Lì anche noi usiamo una sorta di lingua trascritta, in quanto rendiamo sulla tastiera la nostra parlata colloquiale. Non usiamo l’italiano standard, che tra l’altro è utilizzato correttamente da pochissimi parlanti, facenti parte della fascia sociale più alta. Parlando con un amico, anche se possediamo la conoscenza della norma linguistica, useremo acronimi, abbreviazioni, regionalismi, anglicismi, emoticon, e via dicendo.
La lingua come strumento identitario
L’italiano popolare può diventare un vero strumento di identificazione. In sociolinguistica, con il termine “gergo” intendiamo una cerchia di persone, solitamente ai margini della società, che vuole promuovere il senso di appartenenza al gruppo. La lingua, in questi casi, è un modo per escludere vi chi sta al di fuori. Una sorta di lingua segreta.
Il gergo può essere parlato da vagabondi, malviventi, persone che svolgono lavori umili, magari nelle piazze, ma parliamo anche di gergo transitorio per definire un gergo utilizzato per un periodo di tempo non troppo lungo, per esempio tra carcerati.
Questa varietà può anche essere assorbita dai giovani. Se pensiamo ad un gruppo di ragazzi che escono sempre assieme, questi svilupperanno un linguaggio (magari solo poche parole o modi di dire) che solo loro conoscono e che finirà per caratterizzarli. In questo caso possiamo parlare di giovanilese o italiano giovanile. La nascita si fissa intorno alla seconda metà del Novecento, quando i giovani hanno cominciato a ricercare una propria identità per distinguersi dagli adulti. Anche in questo caso, tuttavia, il giovanilese è utilizzato solo in alcuni momenti, e non significa che il parlante non conosca la norma linguistica.
Arretratezza o inclusività?
Ancora oggi i linguisti non sono concordi sul modo in cui definire l’italiano popolare. Questa varietà è un italiano arretrato o avanzato? Una lingua che esclude dalle classi più alfabetizzate e agiate o una lingua inclusiva, che tiene conto delle fasi evolutive del popolo? Possiamo parlare di italiano popolare come un italiano “sbagliato”, o come una lingua parlata semplificata in alternativa a quella scritta elitaria? L’italiano popolare fa emergere la consapevolezza del bisogno di tutti di parlare l’italiano, e dal momento che la lingua è il riflesso di un popolo, riflette necessariamente anche le sue diversità.
Blu Di Marco
(In copertina Mr Cup / Fabien Barral da Unsplash)
La sezione di Linguistica di Giovani Reporter è a cura di Elettra Dòmini, Francesco Faccioli e Davide Lamandini.