
Il 2021 ci ha regalato una miriade di nuovi progetti, dal ritorno di veterani del mondo rap come Marracash e Salmo ad artisti emergenti di grosso spessore mediatico, come Blanco. Tuttavia, il genere che quest’anno ha brillato di più è stato il pop. Qui di seguito ci sono i miei 10 album italiani del 2021 preferiti.
La classifica di questi 10 album italiani non ha la pretesa di essere oggettiva, ma si baserà quasi esclusivamente sui gusti dell’autore. Anche perché chi scrive ritiene che parlare di oggettività in musica nel 2022 sia abbastanza riduttivo e causa di fraintendimenti.
10. Fastlife 4, di Guè Pequeno
Con l’annuncio del mixtape, il quarto della storica saga, l’hype era salito vertiginosamente. Il video promo dal sapore gangsta e i numerosi richiami al cinema di strada lasciavano presagire un lavoro crudo, grezzo e pieno di barre: esattamente quello che avevo bisogno di sentire in questo momento dal Guercio nazionale. Le aspettative sono state rispettate. Infatti, dopo un progetto dall’enorme pretesa ma decisamente dimenticabile come Mr Fini, il rapper è tornato in grande forma.
In 35 minuti di durata ha dimostrato come la sua attitudine, il suo stile e la sua tecnica siano appannaggio di pochi in Italia. E che non basta rappare bene per avere credibilità. Il merito è anche dell’ottimo lavoro di Dj Harsh, che ha cucito le produzioni sul rappato di Guè, con un occhio di riferimento al Southern hip hop. Menzione d’onore per le collaborazioni di Vettosi, rapper emergente dalla delivery importante, e a Bassi Maestro, che ha firmato il miglior beat del disco ovvero Fast Life.
9. Primo Soccorso, di Ugo Borghetti
Parlare di Ugo Borghetti non è affatto facile. La sua capacità di descrivere il quotidiano mediante immagini crude e a tratti rozze, ma al contempo poetiche, è quasi un unicum nella scena. Ugo racconta le sue relazioni, i pomeriggi al Calisto a bere con gli amici della 126 o semplicemente riflette su ciò che lo circonda.
Anche lo spunto più piccolo può generare una serie di fotografie su carta, che la sua penna irregolare e genuinamente incolta sa trasformare. Ugo sembra quasi parlare sul beat, senza una vera e propria metrica e in maniera spesso dissonante, per questo può risultare ostico all’ascolto.
Il lavoro di Dr. Wesh alle produzioni è semplice ma efficace e le sue produzioni sono spoglie e lasciano il giusto spazio all’artista principale. Le collaborazioni sono poche e non molto riuscite. Troviamo un Gianni Bismark decisamente poco in forma e un Kaneki monotono e generico. La voce femminile (S.o.f.i.a) poi, non appare come un grande match per Borghetti, dando l’impressione di non riuscire a catturare il suo immaginario pienamente.
8. Taxi Driver, di Rkomi
Questo disco non lo volevo mettere. Però, complice il fatto che Rkomi sia il mio rapper preferito e che, malgrado tutto, l’abbia ascoltato a lungo, ho deciso di inserirlo comunque. È un progetto con alla base un concept interessante. Un Mirko versione Travis Bickle accompagna i propri ospiti nelle rispettive case, cercando di immedesimarsi nel genere di ognuno di essi e mantenendo la propria identità.
Dal punto di vista commerciale il prodotto è riuscitissimo, superando notevolmente la stessa operazione fatta da Sfera in Famoso. Ogni pezzo funziona ed è una potenziale hit, ma a livello qualitativo il disco dimostra evidenti limiti in fase di scrittura, produzioni e sound generale. Tutto questo porta ad un inevitabile minestrone di generi, senza capo né coda.
Il disco ha infatti al suo interno quella che reputo la peggiore traccia di Rkomi fino ad oggi, Nuovo Range (feat. Sfera Ebbasta). Su una produzione dalle influenze pop punk, rip-off di un Machine Gun Kelly degli ultimi 2 anni, Rkomi incasella una serie di barre raccapriccianti come “Ogni volta che amo la donna che scopo facciamo l’amore”. Sfera poi completa il tutto con una delle sue prestazioni più discutibili.
Salvano il tutto tracce come Cancelli di mezzanotte con Chiello (di cui parlerò più avanti) e l’ottima Paradiso vs Inferno con una Rochelle nelle vesti r/b di una nostrana Teyana Taylor.
7. Banzai (Lato Arancio), di Frah Quintale
Seconda parte dell’ultimo progetto del cantautore bresciano Frah Quintale. L’autore abbandona le atmosfere sognanti e fredde della prima parte e si dedica invece ad un mood più estivo, con un’impronta più funky come nel singolo Sì può darsi. Il disco spazia dal cantato al rap con buoni risultati. Qualche insuccesso a livello lirico (come Cardio) fa da contraltare a ballad assolutamente riuscite (come Sempre bene).
Da riconoscere anche lo straordinario lavoro alle produzioni di Ceri, che si riconferma una garanzia e che troviamo ancora più ispirato rispetto alla prima parte. Sicuramente è uno dei produttori con più gusto nella scelta dei campionamenti, sempre in grado di integrarsi perfettamente con l’atmosfera del pezzo. In un anno in cui sono usciti un numero esorbitante di producer album sarebbe interessante vederne uno suo.
6. Non esiste amore a Napoli, di Tropico
Secondo lavoro per Davide Petrella, conosciuto principalmente più come autore che come musicista in toto. Ha scritto per grandi artisti della scena pop, come Elisa, Achille Lauro, Mahmood e Cesare Cremonini, e anche per numerosi esponenti della scena rap, tra i quali si contano Marracash, Ernia e Nitro.
Il disco è stato anticipato da due singoli. Il primo è Carlito’s way, strepitosa ballad dalle influenze calcuttiane (che troviamo nella traccia successiva). La produzione è semplice ma efficace e, nel passaggio tra bridge e ritornello, esplode insieme alla linea melodica creando una sensazione di catarsi.
L’altro singolo è Piazza Garibaldi, pezzo al quale sono particolarmente legato e dove troviamo un’ottima strofa di Franco126. Petrella rappresenta la stazione di Piazza Garibaldi come il simbolo della partenza e dell’abbandono della donna amata.
Nel complesso il disco non è fortemente variegato a livello di sound, e per questo riesce a evitare il minestrone di generi di Rkomi. Resta estremamente compatto e bilanciato. Si tratta, dunque, di un solido secondo lavoro, per una delle penne più interessanti e capaci del panorama pop italiano.
5. My Mamma, di La rappresentante di lista
Dopo una strepitosa partecipazione al festival di Sanremo 2021, il giovane duo produce un lavoro estremamente moderno e variegato. La voce di Veronica Lucchesi non è mai stata così potente e Dario Mangiaracina, la parte forse più compositiva, risulta puntuale in ogni intervento. Inoltre, anche lui dimostra un notevole talento di voce, come ad esempio nella delicata Fragile.
Il disco è pieno di vita e incredibilmente movimentato. Si sente moltissima elettronica e synthwave, che mi richiamano i Matia bazar di Tango. L’impressione all’ascolto è quella di essere catapultati in un vortice di suoni e colori che difficilmente lascia indifferenti.
4. Ghettolimpo, di Mahmood
Passato forse in sordina in proporzione alla fama di Mahmood dopo il festival di Sanremo 2020, il disco è comunque notevole. L’album si apre con Dei, una intro dalle atmosfere imponenti che apre al miglior inedito del disco, la titletrack Ghettolimpo. Un brano bellissimo, dove il cantato di Mahmood si sposa perfettamente con la produzione di Dardust più ispirata tra quelle presenti nel disco.
Oltre ad altri buoni inediti e a qualche pezzo forse più debole come Talata, il disco contiene tra i migliori singoli del pop italiano recente: Rapide e Inuyasha, due ballad devastanti dai ritornelli incredibilmente memorabili; Klan e Dorado, dalle atmosfere più spagnoleggianti e vagamente reggaeton, anche se il sound di riferimento è un altro; e infine Zero, un singolo buono ma che forse non esplode come gli altri.
La problematica principale del disco è proprio questa: troppi singoli che da una parte hanno alzato enormemente l’aspettativa e dall’altra hanno reso l’album molto più pesante da ascoltare nel suo insieme, trovando una tracklist piena di brani già usciti. Nonostante tutto, il risultato è assolutamente godibile e contiene alcuni dei migliori pezzi del repertorio dell’artista.
3. Ira, di Iosonouncane
A livello qualitativo il disco meriterebbe probabilmente il primo posto della classifica. L’ho però ascoltato molto meno dei due album che lo seguono, considerata anche la sua durata di quasi 3 ore. Un lavoro mastodontico e quasi un unicum in Italia, che solo un compositore della caratura di Jacopo Incani poteva produrre.
A distanza di ben sei anni dall’incredibile DIE, Iosonouncane produce una epopea musicale, mescolando al suo interno italiano, inglese, francese, arabo, dialetti particolari e persino del lessico inventato di sana pianta con il fine di essere più musicale possibile.
A livello di strumentali Ira abbraccia una miriade di generi, dalla ballata d’autore all’elettronica, dall’edm al progressive. Un disco sicuramente impegnativo, ma che lascia moltissimo anche senza ascoltarlo nella sua interezza. Ho avuto anche la fortuna di vedere un suo concerto live quest’anno ed è un’esperienza quasi ultraterrena, dalle atmosfere estremamente psichedeliche.
L’album, inoltre, è stato anticipato da Novembre, assente nella tracklist: un brano molto più riconducibile a DIE. Una canzone classica di musica leggera italiana, basata quasi interamente sullo stesso accordo di piano, per poi esplodere con i cori e i synth finali. Un pezzo incredibile, il mio preferito del 2020.
2. Oceano Paradiso, di Chiello
Da grande fan dell’FSK Satellite più sporca, più rumorosa e trap, ho sempre considerato Chiello il membro meno interessante rispetto a Taxi B e Sapobully. La sua proposta è sempre stata molto più generica a confronto con l’attitudine e l’utilizzo del lessico degli altri due. Con l’uscita di Acqua salata, nel 2019, ho iniziato ad intravedere le potenzialità di Chiello nell’ambito pop/Itpop. Timbro particolare e ritornelli memorabili su una produzione semplice ma suggestiva.
Solo con l’uscita di Crema di buccia, secondo singolo del disco, ho capito che avrebbe potuto dare molto in questa veste di poeta maledetto. Il brano è una cannonata, la produzione di Greg Willen si muove su un duo chitarra-batteria ben congegnato che si chiude con l’esplosione di uno splendido sintetizzatore. Chiello accompagna con un cantato sofferente, ma nuovamente memorabile e ben gestito.
Il disco è stato anticipato dal pezzo meno interessante del lotto, Quanto ti vorrei, un brano rockabilly molto musicale che ha dominato su TikTok per qualche settimana. Il resto però, grazie anche alla fondamentale partecipazione del cantautore Colombre, è estremamente solido. Passiamo dal pop morbido di Mare Calmo alle chitarre distorte e quasi sommerse di Abisso di Xanax. Il pezzo che spicca maggiormente, tuttavia, è Sul fondo dello scrigno, un pezzo quasi metal dalle incursioni Screamo, dove troviamo un Chiello incredibilmente emotivo.
Le influenze sono poco sentite nell’attuale panorama italiano; e poi è tutto così dannatamente orecchiabile che il valore di replay è alle stelle.
1. Magica Musica, di Venerus
In assoluto il lavoro che nel 2021 più mi ha emozionato, colpito, incantato e fatto cantare. Un lavoro fenomenale, di uno dei migliori artisti pop italiano, se non addirittura il migliore. Mace alle produzioni è perfetto, persino più ispirato che nel suo ultimo disco, Obe.
Magica Musica si apre con il singolo Ogni pensiero vola, un brano molto morbido , dove la produzione arabeggiante di Mace regna sovrana. Venerus ha un timbro estremamente riconoscibile e delicato e un modo di scrivere molto interessant.
Il disco presenta influenze dall’R&B all’elettronica, dal blues al jazz, al rock e chi più ne ha più ne metta. Nonostante questa enorme combinazione di influenze, il disco è estremamente solido, con pochissimi momenti di noia o musicalmente poco ispirati. Ogni brano ha il suo mondo, dalle atmosfere spaziali di Cosmic Interlude al basso estremamente groovy di Lucy, fino alle atmosfere orientali di Brazil (suppongo una citazione al film cult di Terry Gilliam). In più, è presente anche un’ottima collaborazione con Rkomi in Namastè, duo che si riconferma dopo il successo di Non vivo più sulla terra di Mace. Sarebbe interessante vedere un joint tra i due.
La mia traccia preferita, però, resta Sei acqua con la collaborazione dei Calibro 35. Un pezzo struggente, dove nella seconda metà troviamo uno skit parlato di Venerus mentre la strumentale diventa quasi psichedelica, con continui cambi di ritmo e suoni diversi. Ritornello breve ma intenso e un cantato nuovamente malinconico e delicato. Live il disco suona ancora meglio: gli strumenti hanno ovviamente più corpo e Venerus tiene il palco magistralmente. Un disco necessariamente da ascoltare.
Marco Moncheroni