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Voce del verbo… Perdere

Ogni viaggio si apre con una partenza e si chiude con una destinazione, è formata da due cesure, nette e distinte, due case, una lasciata al tempo dei ricordi e una nuova dove ricominciare la vita. Ogni viaggio prima di tutto è una scelta, e poi, in secondo luogo, è un’opportunità che ci pone di fronte ad altre scelte e ad altri bivi, che ci fa valutare le possibilità, compiere degli errori, capirli e poi ci fa tornare indietro e rifarli uguali perché l’uomo vive di difetti e si muove nell’eterna imperfezione della sua esistenza. La scelta richiede del coraggio, una sorta di sacrificio a senso unico, qualcosa da dare nella speranza, poi, di ricevere qualcos’altro in cambio. L’opportunità invece ci offre un ventaglio pressoché infinito di nuove strade da intraprendere e speranze in cui credere. Ed è proprio nella dimensione di una parola, speranza (dal latino spes, a sua volta proveniente dalla radice sanscrita spa, letteralmente «tendere verso una meta»), che si mostra la profonda, insanabile spaccatura tra illusione e realtà, tra ciò che vogliamo che avvenga e ciò che poi avviene, tra tensione e realizzazione. Ogni viaggio, come una candela, si consuma nell’attesa del futuro e passa nel fragile volgere di uno sguardo. Eppure non inizia mai, se prima non viene accesa una scintilla, che possa dargli fuoco.

Il viaggio della vita però non è fatto soltanto da partenze e arrivi. È tutto un marasma confuso di emozioni e sensazioni che spesso neanche capiamo fino in fondo. Ci sono cadute e ad ogni caduta bisogna rialzarsi. Ci sono ferite, superficiali o nel profondo, e per ogni colpo assorbito bisogna curarsi e ripartire. Ci sono attese snervanti e corse a perdifiato. Corse al buio della notte, sotto una tempesta da diluvio universale, con il cuore che ad ogni passo manca un battito per l’ansia; e corse per tagliare un traguardo, con il sorriso dipinto sul volto e il sudore che bagna la fronte, verso un orizzonte sempre più vicino e sempre più bello.

Eppure tutto passa e non torna, come un fragile germoglio nato in primavera e sopravvissuto al gelo dell’inverno, che ora è diventato pianta e vive il suo carpe diem cercando catturare momenti di vita e registrarli nel profondo del cuore, pur sapendo benissimo che tanto non vivrà un altro cambio di stagione. Ognuno di noi è un sentiero, ha un cammino da percorrere, incontra altre strade, forma incroci, e l’insieme di questi tragitti costruisce la trama della vita. Una tela di Penelope in continua costruzione e destrutturazione. Un disegno ordinatissimo e allo stesso tempo simbolo perfetto del caos e del caso ai quali siamo abbandonati. Un’immagine formata di incontri e perdite, quella che Cesare Cremonini in una sua recente canzone sulla solitudine ha definito «una sala d’aspetto affollata e di provincia», dalla cui porta di ingresso entrano ed escono continuamente persone. Dopo il viaggio e la condivisione, passiamo alla terza fase della vita, il momento della perdita. Perdita intesa non solo in senso negativo, ma anche con la sfumatura riflessiva di perdersi. La radice etimologica del verbo corrispondente proviene dall’omonimo latino, composto di “per” e “dare”, con il significato di «mandare in rovina», «consumare», e da qui la metafora della candela come simbolo della vita.

Oggi il termine ha assunto numerosi valori, talvolta anche completamente diversi. Prima di tutto quello di «essere sconfitti»: perdere una gara, un incontro, un gioco, una partita, uno scontro o una battaglia; può indicare il «cessare di possedere qualcosa», sia dal punto di vista materiale che figurato. E allora una persona folle si dice che abbia «perso il lume della ragione» (da qui proviene anche l’espressione «perdere il senno», ciò perdere la ragione, come Orlando nel capolavoro di Ariosto); una persona distratta che stia iniziando a «perdere colpi»; se, mentre parliamo, ci distraiamo per un qualche motivo diciamo che abbiamo «perso il filo del discorso»; una persona innamorata ha «perso la testa» (e, nel linguaggio colloquiale, si dice anche che questa persona sia «persa»); mentre una arrabbiata può «perdere le staffe», cioè il controllo. Quando sprechiamo una giornata a non fare niente, siamo soliti dire che abbiamo «perso il nostro tempo». E poi si può perdere la fiducia, la pazienza, l’onore, il rispetto, il coraggio… Un altro significato importante è il sinonimo di abbandonare, tanto utilizzata come espressione che, per smettere di pensare a una cosa o a una persona, si dice comunemente “lasciar perdere”.

Quando i problemi della vita sembrano insormontabili ed è come se tra noi e il resto del mondo ci fosse un muro alto e invalicabile, c’è chi si abbatte, non trovando più la forza di andare avanti; e chi combatte, perché tanto la vita è una sola e non ci sono possibilità di tornare indietro e recuperare un’occasione persa. Il καιρός greco, «momento giusto, opportuno». Chi si perde d’animo e chi, proprio perché non ha più nulla da perdere, trova la forza di non perdere di vista l’obiettivo che vuole raggiungere, qualunque sia il risultato. Chiedilo a Orfeo, che piange ancora per quello sguardo che ha condannato Euridice alle tenebre della notte; e ad Admeto, anche lui in lacrime – queste di gioia – da quando uno sguardo gli ha restituito l’amata Alcesti dall’oltretomba.

Ci si può perdere durante il viaggio, come Odisseo di ritorno da Ilio; oppure perdere nei meandri di un labirinto infinito, a tu per tu con quel mostro che vive dentro tutti gli uomini e che giorno dopo giorno ci divora sempre di più. Come Teseo di fronte al minotauro. In entrambi i casi sono momenti difficili, scelte coraggiose, in cui ogni certezza vacilla e ogni speranza di colpo si fa cenere e fumo. Momenti in cui l’istinto dice di fuggire e il cuore di restare, e in cui emerge la misura eroica e tremendamente umana che caratterizza la nostra esistenza, anche solo per un giorno. Momenti in cui solo l’amore può salvare una persona dall’abisso che si fa strada dentro il suo cuore e che cerca di smontarlo pezzo per pezzo. Un amore inteso in senso lato anche come affetto, stima, amicizia e soprattutto, come occasione per condividere esperienze. L’amore di Arianna ha portato Teseo fuori dal labirinto. L’amore per Penelope ha riportato Odisseo a Itaca, dopo tanto peregrinare nel Mediterraneo.

Entrambi questi eroi hanno capito fino in fondo la seconda e sostanziale dimensione del viaggio, quella interiore. L’esplorazione del mondo che ci circonda come pretesto per esplorare il mondo che sta dentro di noi, come disse Howard Phillips Lovecraft. Un viaggio lungo e quasi disperato, che ha la consistenza delle nuvole, la solidità dei sogni e il colore dell’acqua di fonte. Nuvole che danzano al vento come le vele della nave di un esploratore, e lo può confermare Ferdinando Magellano, che, per non perdersi nella storia e non lasciare traccia di sé, ha perso tutto, anche la vita. Sogni che possono diventare anche incubi, come sa bene Dante, che, solo per Amore, ha attraversato il buio disperato dell’inferno e la luce accecante del paradiso. Acqua che diventa simbolo di una vita, e concorderebbe Alfeo, da quando ha visto la bellissima ninfa Aretusa tramutarsi in fonte davanti ai suoi occhi – direbbe lui – innamorati. Quella stessa acqua che riempie il bicchiere in cui ti perdi, ci perdiamo, quando la solitudine del viaggio della vita si fa troppo pesante, un bicchiere che può essere piccolo come una goccia di pioggia trasportata dal vento o grande come un oceano intero, ma contenere comunque la forza dell’infinito. 

Eppure, quando tutto sembra perduto non puoi fare altro, solo rimetterti in viaggio, come un vagabondo, con in spalla il fardello del passato e le speranze del futuro, cambiare punto di vista, perdere i punti di riferimento (tramontana o certezza che sia) per non avere perso – sprecato – alla fine del tuo cammino una vita intera.

Lorenzo Bezzi

In collaborazione con:

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