Come si fa a descrivere la decadenza di un’epoca? E se invece fosse il nostro stesso corpo ad essere in declino? Namaziano e Verlaine ci accompagnano in questo percorso alla scoperta di ciò che finisce.
- Rutilio Namaziano. Il ritorno (V d.C.)
- Paul Verlaine. Languore (1885)
In principio fu la caduta
Come finisce una civiltà? La domanda, lo ammetto, è vaga. Quando diciamo civiltà intendiamo abitudine, cultura (altro termine proteiforme), ma anche tradizione, retaggio, religione. Si può parlare di una civiltà dell’olio, di una civiltà del bon ton; di civiltà musicali, urbanistiche e così via, secondando il proprio gusto tassonomico. Intendiamola come ci pare; nondimeno, simile a coloro che l’hanno creata, una civiltà si manifesta come un vivente: nasce, si sviluppa, se ha fortuna riesce a tramandare la propria eredità – e muore.
È argomento di ampi dibattiti come si manifesti il decesso. Una civiltà muore in maniera rapida e (per così dire) indolore? Oppure si logora al buio, anzi nella penombra, trascinando per una vecchiaia detestabile il proprio piagnisteo? I sostenitori dell’una o dell’altra setta discettano, non senza la finezza del senno di poi, opponendo a date simboliche fenomeni carsici di lungo corso: così, per esempio, la caduta del muro di Berlino può essere spiegata attraverso l’incredibile cronistoria del 9 novembre 1989, oppure con l’attenta disamina degli ultimi 15 anni di politica dell’URSS.
Il dibattito metodologico continua a tormentare gli storici anche ai nostri giorni, specie da quando, dopo le evidenze delle crisi ecologica e virale, è diventato palese a tutti gli occidentali che la Storia, lungi dalla fine che gli aveva pronosticato Fukuyama, sta continuando la propria corsa cieca e precipitosa. La solidarietà col corpo in movimento non ci permette che di avanzare deboli teorie di costanza: i più ottimisti possono credere che ci troviamo nel bel mezzo della galoppata, o ancora agli inizi. Altri, al contrario, credono (o piuttosto sperano?) che manchi poco alla fine. Non sarebbero i primi, del resto, a nutrire il dubbio della decadenza.
Namaziano e la caduta di Roma
Qualcosa di simile aveva detto, infatti, già Rutilio Namaziano. Di questo oscuro politico romano, nato in Gallia Narbonense negli ultimi anni del IV secolo d.C. e praefectus (una sorta di sindaco) di Roma nel 415, rimane ben poco. La ragione è semplice: si tratta dell’ultimo poeta pagano in lingua latina, estremo tedoforo di una letteratura nata più di 650 anni prima e destinata, dopo di lui, a spegnersi. Namaziano si rivolge a un pubblico di lettori pagani che, nell’Impero ormai cristianizzato, non esiste più.
Proprio al disinteresse generale andrà attribuita la mutilazione dell’unica opera superstite di questo autore, il De reditu suo (“Il suo ritorno”), in due libri di distici elegiaci: il primo manca del proemio, il secondo si fa illeggibile dopo una sessantina di versi. Non è ozioso interrogarsi sulle ragioni di questa indifferenza.
Si tratta anzitutto di un fatto culturale. Se da una parte le filosofie del mondo antico (platonismo, epicureismo, stoicismo etc.), abbruttite dal sincretismo, biascicano precetti sempre più estranei all’uomo della strada, dall’altra l’insegnamento di Cristo, corazzato di martiri e apologeti, è ormai consacrato e sistematizzato da intellettuali del calibro di Agostino, Ambrogio, Girolamo. In un mondo in cui ormai la cultura passa attraverso le vetrate dei monasteri, Namaziano esalta i fori, i templi e quant’altro rimane, tra le macerie, del mondo che era stato. Non bisogna stupirsi, dunque, che trascorra la sua vita nel silenzio totale dei suoi contemporanei.
Ci sono poi i barbari: quegli stessi barbari che, quarant’anni prima, avevano sbaragliato le truppe di Valente; che, guidati da Alarico, avevano messo a ferro e fuoco la Capitale; che controllavano ormai gran parte delle vie terrestri e dei territori della parte occidentale dell’Impero.
E infine la città di Roma, che Namaziano aveva tentato di ricostruire al tempo della prefettura e che non è più la stessa: devastata dal recente saccheggio, ormai in mano al potere politico-spirituale del papa, Innocenzo I. L’Altare della Vittoria, sopra il quale dai tempi di Augusto i senatori solevano prestare giuramento, era stato rimosso con un decreto imperiale nel 382, giusto due anni dopo che Teodosio aveva sancito il Cristianesimo religione dello Stato.
Forse è soprattutto per questo che, quando gli giunge la notizia che i barbari minacciano le sue proprietà fondiarie in Gallia Narbonense, Namaziano, benché flagellato dai rimorsi e sconvolto dal pianto per l’abbandono di quella città che a lui “piace senza fine”, decide di partire. Ed è così che ha inizio il suo reditus: un “ritorno”, appunto, a quella casa minacciata attraverso un mondo essenzialmente straniero.
Namaziano si mette dunque in viaggio: non attraverso le vie di terra, stravolte dalle scorrerie dei Goti; ma per mare, al sicuro dai predoni. Prima di affidare le vele ai venti, rivolge a Roma (vv.63-66) un’ultima invocazione che suona come il commiato alla Weltanschauung del mondo antico:
“Fecisti patriam diversis gentibus unam
profuit iniustis te dominante capi
dumque offers victis proprii consortia iuris,
Urbem fecisti quod prius orbis erat”.
“Hai creato da stirpi disparate una sola patria,
Agli uomini senza legge ha giovato la tua conquista;
E mentre offri ai vinti la partecipazione del tuo diritto,
Hai trasformato in città ciò che prima era mondo”.
Ho parlato di commiato a un certo modo di vedere le cose. Naturalmente, si tratta della prospettiva di chi sa come è andata a finire; ma sarebbe sbagliato pensare che anche Namaziano fosse un rassegnato, o che la sua poesia contenga soprattutto caratteri in qualche modo assimilabili a certo decadentismo fin de siècle: il suo distico elegiaco è di cristallina eleganza, così come la lingua, diretta figlia della migliore tradizione aulica latina; il saluto a Roma è anzitutto una lode al suo passato e alla sua potenza eterna; la descrizione della decadenza tutta presente in cui versa la Penisola si propone un risollevamento dalla polvere.
Prendiamo il caso del passaggio vicino all’isola di Capraia (vv. 439-452), sede di alcuni monasteri. Namaziano si indigna contro questi viri lucifugi (“uomini che fuggono la luce”) che, temendo la cattiva sorte, rinunciano a sperimentare quella buona e fuggono dalla politica. Per il poeta l’esilio volontario, specie in momenti così critici, è un segno inequivocabile di sconvolgimento mentale: non può che trattarsi di un morbus, una crudele malattia che ne acceca gli animi.
Come detto, Namaziano non tace la rovina in cui versa il territorio che vede durante la navigazione. Così, quando osserva la rocca del faro di Populonia (399-414), ne deplora l’abbandono selvaggio:
“Agnosci nequeunt aevi monumenta prioris
Grandia consumpsit moenia tempus edax […]
Non indignemur mortalia corpora solvi:
cernimus exemplis oppida posse mori.
“Non si possono riconoscere i monumenti del tempo passato
il tempo vorace ha consumato gli alti bastioni […]
Non indigniamoci che i corpi mortali si corrompano:
l’esperienza ci insegna che le città possono morire”.
Ignoriamo come (in realtà pure se) finisca il viaggio di Namaziano: è probabile che riuscisse a tornare a casa, e che lì terminasse la narrazione. Non possiamo escludere, peraltro, che il finale dell’opera fosse tutto sommato positivo: l’auspicio di una futura rinascita, il desiderio di ritorno a Roma, il sollievo per aver recuperato beni e terre minacciate.
Ciò che più importa, però, è l’immenso abisso che si estende tra la poesia di Namaziano e il mondo intorno a sé, ovvero tra il fine che lui si proponeva – la rinascita – e il reale svolgimento della storia. Anche per questo non bisogna cedere a un’interpretazione “apocalittica” dei versi di cui sopra: l’aevum prius è probabilmente la semplice età di costruzione del faro, e la morte delle città non ne esclude la rinascita. Proprio da questo sfasamento di prospettiva nasce l’ironia tragica del De reditu suo: Namaziano credeva di tornare a casa per nave, ma non si accorgeva (o forse, come Filemazio, era semplicemente “troppo vecchio per capire”) che le acque che solcava erano le acque di Stige; cantando Roma desiderava sollecitare gli animi a una nuova età dell’oro, ma senza saperlo era già diventato Caronte.
Verlaine: soffocare nello spleen
Come già emerso dal commento alla sua opera, Namaziano sembra condividere qualcosa con quel grande movimento artistico di fine Ottocento e inizio Novecento (fino al 1914) che prende il nome di Decadentismo, e che ha il suo centro di irradiazione in Francia. Il paragone, in effetti, sembra sussistere; ne fa fede il grande interesse mostrato per Namaziano da parte del raffinatissimo Des Esseintes di À rebours (“Controcorrente”) di Joris-Karl Huysmans, che ne interpreta (capitolo III) con soverchiante estetismo l’opera:
“Ceux-là étaient alors les maîtres de l’art […]; Rutilius, avec ses hymnes à la gloire de Rome, avec ses anathèmes contre les juifs et contre les moines, son itinéraire d’Italie en Gaule, où il arrive à rendre certaines impressions de la vue, le vague des paysages reflétés dans l’eau, le mirage des vapeurs, l’envolée des brumes entourant les monts”.
“Questi erano allora i maestri dell’arte […]; Rutilio, con i suoi inni alla gloria di Roma, con i suoi anatemi contro gli ebrei e contro i monaci, con il suo viaggio dall’Italia alla Gallia, dove riesce a rendere certe impressioni della vista, l’onda dei paesaggi riflessi nell’acqua, il miraggio dei vapori, l’impennata delle nebbie che circondano le montagne…”.
Ma Huysmans non è certo il solo, nella Francia parnassiana, a nutrire un amore nostalgico per tutto ciò che è semisconosciuto, dimenticato, negletto. In ogni caso, benché non sia dimostrabile una diretta filiazione, è fuor di dubbio che la decadenza sia al centro dell’esperienza poetica di Paul Verlaine, che ne parla con particolare enfasi in un sonetto intitolato Langueur della raccolta Jadis et naguère (“Allora e ora”), pubblicata nel 1885:
Je suis l’Empire à la fin de la décadence,
qui regarde passer les grands Barbares blancs
en composant des acrostiches indolents
d’un style d’or où la langueur du soleil danse.
5. L’âme seulette a mal au coeur d’un ennui dense.
Là-bas on dit qu’il est de longs combats sanglants.
Ô n’y pouvoir, étant si faible aux voeux si lents,
ô n’y vouloir fleurir un peu cette existence!
Ô n’y vouloir, ô n’y pouvoir mourir un peu!
10. Ah! tout est bu! Bathylle, as-tu fini de rire?
Ah! tout est bu, tout est mangé! Plus rien à dire!
Seul, un poème un peu niais qu’on jette au feu,
seul, un esclave un peu coureur qui vous néglige,
seul, un ennui d’on ne sait quoi qui vous afflige!
Sono l’Impero alla fine della decadenza,
che guarda passare i grandi Barbari bianchi
componendo acrostici indolenti dove danza
il languore del sole in uno stile d’oro.
5. Soletta l’anima soffre di noia densa al cuore.
Laggiù, si dice, infuriano lunghe battaglie cruente.
O non potervi, debole e così lento ai propositi,
o non volervi far fiorire un po’ quest’esistenza!
O non potervi, o non volervi un po’ morire!
10. Ah! Tutto è bevuto! Non ridi più, Batillo?
Tutto è bevuto, tutto è mangiato! Niente più da dire!
Solo, un poema un po’ fatuo che si getta alle fiamme,
solo, uno schiavo un po’ frivolo che vi dimentica,
solo, un tedio d’un non so che attaccato all’anima.
(Traduzione in italiano di Luciana Frezza da Poesie, Rizzoli, Milano, 1974)
Viene anzitutto da chiedersi dove si trovi questo “Empire à la fin de la décadence” di cui parla Verlaine. Lui, sul piano politico (ammesso e non concesso che gli importasse qualcosa), aveva ben poco di cui lamentarsi: anche se la Terza Repubblica stava ancora leccandosi le ferite per lo smacco di Sedan (1870), la Francia – la Francia delle colonie in Sudamerica, Africa e Indocina – non poteva certo dirsi uno Stato in rovina. Certo, il colonialismo e i maneggi della diplomazia segreta avrebbero portato in pochi anni alle trincee della Grande Guerra; ma quest’epoca già è altro rispetto all’esperienza di Verlaine, che muore quando ancora la Belle Époque è in fiore.
Per comprendere questa decadenza, allora, bisogna concentrarsi sul secondo estremo dell’equazione, che è proprio l’io poetico, il Je incipitario in cui non è difficile scorgere il poeta stesso. Le ragioni del Langueur che dà il nome al sonetto sono molteplici: dopo i due anni di prigionia per la scandalosa relazione omosessuale con Rimbaud, i problemi economici (e sentimentali) erano diventati una costante nella vita di Verlaine, la cui fama cresce di pari passo con il vagabondaggio, la miseria e la dipendenza dall’alcool.
La decadenza di cui parla, insomma, è un fatto anzitutto personale. Il languore di cui si sente succube, alla fin fine, è molto simile allo spleen baudelairiano: un “ennui dense” che, radicandosi nell’anima, impedisce ogni eroismo. Ma se pure là, da qualche parte, esiste qualche grand Barbare che si logora in longs combats sanglants, lui non saprebbe raggiungerlo: è impegnato a scrivere poesie impeccabili che finiranno nel caminetto. Se qualcosa è rimasto imbevuto, è solo la bottiglia di assenzio nell’altra mano.
Del resto, se Verlaine aveva ancora molto da dare alla poesia, davvero la sua esistenza era sfiorita per sempre: costretto a vendere la casa e la fattoria, passerà gli ultimi anni della sua esistenza tra i letti degli ospedali o di qualche squallido ammiratore, redigendo i testi delle sue – sempre acutissime – conferenze. La sua fine, salutata da molti ma piuttosto modesta, avverrà pochi anni prima del trionfante Expo (con annessa olimpiade medagliatissima) di Parigi.
Decadenza: un vizio di prospettiva?
Namaziano e Verlaine sembrano uguali nell’opporre il proprio sentimento interiore a civiltà incamminate nella direzione opposta. L’uno cerca di tirare a sé una tradizione diretta verso il baratro; l’altro è oppresso da una pesantezza imponderabile, e va a fondo. Non mancano, peraltro, casi di naufragio simultaneo: come quello, tragico, dell’Austria-Ungheria narrato da Joseph Roth in opere come Die Kapuzinergruft (“La cripta dei Cappuccini”). Sopra tutti questi uomini, evidente nella sua irremovibilità o ridotto a fondale d’occasione, si muove la Storia, sorda a ogni richiamo, spietata tanto nel dare quanto nel prendere.
Ho detto, all’inizio, che alcuni contemporanei pronosticano la decadenza. L’assalto, in effetti, viene da più fronti: alcuni credono che le multinazionali insîdino (o insidieranno, fra poco) le prerogative degli Stati; altri paventano, in maniera poco persuasiva, la conquista ideologica dell’Europa da parte del mondo islamico (si ricordino, tra gli altri, Oriana Fallaci e Michel Houellebecq); più evidente è infine la crisi ecologica del nostro pianeta, l’unica che sembra davvero senza ritorno. Quale risposta dare alla decadenza in un mondo in cui il singolo non conta o sembra non contare nulla?
La questione non è semplice. Si può ammettere lo scacco con classe, o versare calde lacrime sugli inflessibili fata deum di virgiliana memoria. Forse però il concetto di decadenza ci opprime perché reca con sé un imperdonabile vizio di forma – o meglio di prospettiva. Se usciamo anche solo per un attimo dagli spazi angusti di un singolo momento storico, di una singola stagione poetica, possiamo vedere che la situazione si complica: dopo Namaziano toccherà ai poeti cristiani trasportare la fiaccola della cultura antica nell’Europa medievale; e Verlaine, allettato dall’erisipela, riesce a trovare ancora la felicità negli sguardi devoti di Philomene.
Scopriamo così che decadenza e fioritura (il termine mi sembra più grazioso di progresso, ormai sin troppo sospetto) si avvicendano: non però come pensava Nietzsche, che pronosticava un eterno ritorno dell’identico; ma secondo alti e bassi disomogenei, sempre differenziati da un qualcosa che si perde per sempre, e da qualcos’altro che si aggiunge.
Se, come ho già detto, possiamo pensare le civiltà in termini antropologici, allora non dobbiamo essere egoisti, e credere che con la morte di una civiltà tutto si esaurisca: rimangono i parenti, più o meno lontani, più o meno somiglianti. Soprattutto, rimane la responsabilità di una prole. Il punto, allora, non è che ciò che è destinato a decadere decada, ma cosa rimanga dalle sue ceneri: se movimentiamo il processo la decadenza e la fioritura mescolate insieme si fanno retaggio, eredità. Ecco che allora il problema non è più la morte, ma quello che è degno di restare, di tramandarsi: una responsabilità morale in primis per colui cui viene affidato un simile tesoro.
Francesco Faccioli
(In copertina Pawel Czerwinski da Unsplash)
Consigli di navigazione:
- Rutilio Claudio Namaziano. Il ritorno (Einaudi, 1992): traduzione, note e introduzione a cura di Alessandro Fo.
- Verlaine, Paul. Poesie (BUR Rizzoli, 1986): traduzione, note e introduzione di Luciana Frezza. Si tratta di una silloge.
- Fukuyama, Francis. La fine della storia e l’ultimo uomo, 1992, ora UTET, 2020): traduzione di Delfo Ceni.
- Il personaggio di Filemazio appartiene alla canzone Bisanzio (traccia di apertura dell’album Metropolis, 1981) di Francesco Guccini, che racconta, come Namaziano, il gusto di quella stagione ingiustamente chiamata tardo-antico.
- Roth, Joseph. La Cripta dei Cappuccini (1938, ora Adelphi, 1974, nella traduzione di Laura Terreni; e Rizzoli, 2010, nella traduzione di Giulio Schiavoni).
- Huysmans, Joris-Karl, À rebours (1884, pubblicato in Italia con diversi titoli: Contro corrente, A rovescio, Al contrario e A ritroso; si consigliano in particolare le storiche traduzioni di Camillo Sbarbaro (Gentile, 1944) e Ugo Dèttore (BUR Rizzoli, 1953).
- Conviene citare insieme Oriana Fallaci e Michel Houellebecq, di cui si vedano La rabbia e l’orgoglio, (BUR Rizzoli, 2001); e Soumission (2015, Bompiani, 2015, nella traduzione di Vincenzo Vega).
- Si consiglia, in relazione a quanto già detto, la lettura della poesia Io sono una forza del Passato di Pier Paolo Pasolini, all’interno della raccolta Poesia in forma di rosa (1961-1964, ora Garzanti, 1964); si veda però anche la fantastica recitazione di Orson Welles all’interno de La ricotta, la parte pasoliniana del film Ro.Go.Pa.G. (1963).