Cultura

“La Nube”, di Cesare Pavese – Lettura dei Dialoghi con Leucò (I)

Dialoghi con Leucò La Nube Issione

Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese è una delle opere più complesse e interessanti del Novecento italiano. Qui di seguito cercheremo di sviluppare un commento punto per punto di ogni dialogo, riportando il testo integrale (Einaudi, 2016): il primo si intitola La Nube, parlano Issione e Nefele.


La Nube è ambientata subito dopo la battaglia per il potere divino intrapresa da Zeus contro il padre Crono. Con la vittoria degli dèi Olimpii viene imposta la loro sovranità su dèi e uomini e una nuova gerarchia che ordina il disordine primordiale.

Issione, secondo il mito, uccise a tradimento il re Deioneo, padre di Dia, per non dargli i doni promessi in cambio del matrimonio con la figlia. Divenuto folle per questo, venne purificato da Zeus, ma nella sua ingratitudine tentò di violentare Era. Zeus (o Era stessa, secondo un’altra versione) creò allora una nube (da νεφέλη, Nefele) in tutto identica alla sovrana dell’Olimpo. Quando Issione cadde nel tranello e cercò di unirsi ad essa, Zeus lo punì, legandolo con delle serpi ad una ruota infernale in perpetuo movimento. Pavese prova a immaginare cosa faccia o pensi Issione prima di commettere tutto questo, quando ancora non riesce ad accettare questa nuova legge e la distanza messa tra umano e divino.

Testo integrale

Commento

Cartiglio
Che Issione finisse nel Tartaro per la sua audacia, è probabile. Falso invece che generasse i Centauri dalle nuvole. Costoro erano già un popolo al tempo delle nozze di suo figlio. Lapiti e Centauri escono da quel mondo titanico in cui era consentito alle creature più diverse di mischiarsi, e spesseggiavano quei mostri contro i quali l’Olimpo sarà poi implacabile.

Nel buio della notte dei tempi, il re mitico dei Lapiti Issione si sveglia estraneo alla stessa natura che lo ha generato. La natura è ora uno sfondo sul quale l’uomo si staglia e definisce i suoi lineamenti, dopo un risveglio traumatico che genera autoconsapevolezza e, ancora, smarrimento. Scomparse le certezze scientifiche nei primi anni del Novecento, il mito arcaico perde la sua valenza religiosa e diventa il territorio del “probabile”, e questo perché quando andiamo alla ricerca delle nostre radici, del nostro senso di comunità, della nostra esistenza sociale, non possiamo avere alcuna certezza.

I Centauri, invece, sono elementi mitologici simbolo di una metamorfosi interrotta (per metà esseri umani, per metà cavalli), in continuo divenire come l’idea stessa del mito. Lapiti e Centauri rappresentano il mondo oscuro e primordiale precedente all’arrivo dell’ordine rappresentato dagli dèi dell’Olimpo, un mondo in cui erano destinate a mescolarsi le nature più varie (umano, divino e mostruoso), dove i mostri erano caratterizzati, secondo Pavese, dal neologismo deavverbiale “spesseggiare” (con connotazione morfologica: spesso inteso come “con spessore”, quindi forte, potente; e con connotazione temporale: spesso come “frequentemente”).

Arnold Böcklin. La lotta dei centauri (1873).

La Nube: C’è una legge, Issione, cui bisogna ubbidire.
Issione: Quassù la legge non arriva, Nefele. Qui la legge è il nevaio, la bufera, la tenebra. E quando viene il giorno chiaro e tu ti accosti leggera alla rupe, è troppo bello per pensarci ancora.

Fin dall’origine gli uomini hanno dovuto creare delle leggi e radunare le leggi in codici, per costruire le loro società e trasformare il χάος (chàos) in κόσμος (còsmos), allo stesso modo di come gli dèi dell’Olimpo nel mito fondativo hanno ordinato il disordine delle tenebre primordiali.

La Nube, provando pietas (sentimento posseduto dalle entità primordiali), lo ricorda a Issione; ma il sovrano, ancora legato al mondo del caos, risponde negando questa nuova legge. Nel mondo a cui è abituato e che forse ormai esiste solo nella sua testa, non arriva nulla di tutto questo, è un Altrove, un mondo-altro mostruoso e senza legge. Issione parla attraverso i deittici (quassù, qui) per legare chi parla (Issione stesso) a chi legge le sue parole, rendendo l’esperienza del re dei Lapiti in parte esperienza di tutti gli uomini, in quel momento centrale della storia che ha permesso loro di uscire dallo stato di disordine originario.

Lo ribadisce più volte, anche in climax, perché lui è abituato al mondo del nevaio, della bufera, della tenebra, cioè a tutto quell’insieme di elementi spontanei, naturali e incontrollabili che caratterizzano la natura e che non sono in alcun modo collegabili alla volontà dell’essere umano. Un mondo dove la natura agisce e l’uomo subisce.

La Nube: C’è una legge, Issione, che prima non c’era. Le nubi le aduna una mano più forte.
Issione: Qui non arriva nessuna mano. Tu stessa, adesso che è sereno, ridi. E anche quando il cielo s’oscura e urla il vento, che importa la mano che ci sbatte come gocciole? Accadeva già ai tempi che non c’era padrone. Nulla è mutato sopra i monti. Noi siamo avvezzi a tutto questo.

Un tempo lontano, quando Issione è nato e ha regnato, non c’era questa legge, ovunque era il regno dei mostri e del mostruoso, del caos, ma adesso che c’è una nuova consapevolezza e che gli abomini sono stati condannati al buio del loro tartaro, bisogna porsi il problema della fondazione, dell’origine di tutte le cose, punto di partenza per costruire (o ricostruire?) la civiltà.

“Padrone”, dice Issione, non Dio. E questo perché l’homo novus del Novecento, figlio dell’esperienza traumatica delle guerre mondiali, ha come punto di riferimento Marx e non più la Bibbia. Vive una nuova vita l’uomo moderno liberato dalle tenebre dell’oscurantismo e dalle luci dell’Illuminismo, servo di nuovi padroni, non più di vecchi Signori.

La Nube: Molte cose sono mutate sui monti. Lo sa il Pelio, lo sa l’Ossa e l’Olimpo. Lo sanno monti più selvaggi ancora.
Issione: E cosa è mutato, Nefele, sui monti?
La Nube: Né il sole né l’acqua, Issione. La sorte dell’uomo, è mutata. Ci sono dei mostri. Un limite è posto a voi uomini. L’acqua, il vento, la rupe e la nuvola non sono più cosa vostra, non potete più stringerli a voi generando e vivendo. Altre mani ormai tengono il mondo. C’è una legge, Issione.

Il Pelio è una montagna a sud-est della Tessaglia, terra di origine del centauro Chirone e di numerosi semidèi; l’Ossa è situato nella prefettura di Larissa e lì si dice che siano stati generati i Centauri; l’Olimpo è situato tra la Tessaglia e la Macedonia, vicino al Mar Egeo, e la sua vetta era considerata dimora degli dèi olimpi. Quindi, con una piccola forzatura di significato, si intende rappresentare le tre nature destinate a mischiarsi nel caos primordiale: umano, mostruoso e divino.

“Selvaggio”, poi, nel senso di naturale, originario, primigenio, non ancora domato. È lo stesso concetto della selva dell’irrazionale, del peccato, dell’abominio in cui si perde Dante nel principio della Commedia.

Non sono cambiati i principi costitutivi dell’essere abitanti della Terra, cioè il sole e l’acqua – come a dire, l’essere umano è sempre lo stesso, e in fondo anche la natura è sempre la natura – nulla di tutto questo è mutato. È mutata la sorte dell’uomo.

Issione: Quale legge?
La Nube: Già lo sai. La tua sorte, il limite…

Le coordinate del mondo umano sono delimitate da due concetti:

  1. La sorte dell’uomo, genericamente violenta, che tutte le religioni cercano in un qualche modo di motivare e che spesso si risolve in un conflitto tra luce e buio. Paradigmatico a tal proposito l’episodio biblico di Giobbe, vittima di una sorta di sfida tra Dio e Satana.
  2. Il limite ultimo, la morte, e il senso di questa fine, alla quale ogni religione cerca di dare risposta. Riducendola all’essenziale, l’esperienza umana si chiude in due grandi punti fermi, la nascita e la morte: della prima conosciamo la data ma siamo completamente incoscienti, nel senso che non l’abbiamo scelta né tantomeno voluta; della seconda, invece, non sappiamo nulla, e forse per questo riusciamo a vivere abbastanza per poterci arrivare.

Adesso che ci sono gli dèi dell’Olimpo, il mondo è stato ordinato in tre grandi categorie: gli uomini, gli dèi e i mostri. E Issione, in quanto essere terreno, può muoversi solo all’interno dei pregi e dei limiti della sua categoria, senza poter andare oltre, che sia sfidare il cielo su ali di cera o guidare una nave al di là delle Colonne d’Ercole. Le tre categorie non si possono più mescolare, come un tempo, adesso sono distinte e lontane.

Issione: La mia sorte l’ho in pugno, Nefele. Che cosa è mutato? Questi nuovi padroni posson forse impedirmi di scagliare un macigno per gioco? O di scendere nella pianura e spezzare la schiena a un nemico? Saranno loro più terribili della stanchezza e della morte?
La Nube: Non è questo, Issione. Tutto ciò lo puoi fare e altro ancora. Ma non puoi più mischiarti a noialtre, le ninfe delle polle e dei monti, alle figlie del vento, alle dee della terra. È mutato il destino.

Nefele ribalta il concetto di “quaggiù” di cui parlava l’altro, l’Altrove mitico sospeso da ogni tempo e da ogni spazio di colpo diventa il mondo terrestre, che ci abita e che abitiamo, e che non è altro che una terra di mostri.

Issione viene quasi infantilizzato, e qui ricopre i panni di un’umanità ancora innocente, lontana dalle consapevolezze del mondo moderno e dell’età adulta, che ancora non vede il mostruoso che lo circonda. L’uomo è quel bambino che gioca con le ninfe nelle polle e sui monti, che corre insieme ai Centauri, quasi fosse eternamente sospeso in un non-luogo, in un non-tempo. La Nube gli insegna che il mondo non è quello che lui crede, e che i Centauri vanno chiamati con il loro nome: mostri. Nefele dà loro un nome ed è come se attraverso la parola desse una legge.

È questo il trauma dell’uomo moderno: la parola, perché con la sua comparsa porta consapevolezza della vita e quindi certezza che prima o poi, da qualche parte in fondo alla notte, ci sia anche la morte.

Issione: Non puoi più… Che vuol dire, Nefele?
La Nube: Vuol dire che, volendo far questo, faresti invece delle cose terribili. Come chi, per accarezzare un compagno, lo strozzasse o ne venisse strozzato.
Issione: Non capisco. Non verrai più sulla montagna? Hai paura di me?
La Nube: Verrò sulla montagna e dovunque. Tu non puoi farmi nulla, Issione. Non puoi far nulla contro l’acqua e contro il vento. Ma devi chinare la testa. Solamente così salverai la tua sorte.
Issione: Tu hai paura, Nefele.
La Nube: Ho paura. Ho veduto le cime dei monti. Ma non per me, Issione. Io non posso patire. Ho paura per voi che non siete che uomini. Questi monti che un tempo correvate da padroni, queste creature nostre e tue generate in libertà, ora tremano a un cenno. Siamo tutti asserviti a una mano più forte. I figli dell’acqua e del vento, i centauri, si nascondono in fondo alle forre. Sanno di essere mostri.

Il mito, proprio perché tale, mostra una gamma infinita di emozioni. In questo caso Issione parla di paura, ma probabilmente la intende con il valore più preciso di ansia, con l’accezione di “situazione opprimente, soffocante” di quella radice etimologica che in italiano genere angoscia e angustia (spazio ristretto, soffocante), in tedesco angst (paura) e in inglese anxiety (paura, ansia, angoscia).

È l’ansia del marxismo, che vede un individuo-massa prigioniero dei ritmi alienanti di un mondo del lavoro sempre più automatizzato e di un lavoratore-dipendente non più in grado di controllare il frutto del suo lavoro, nel cuore della dialettica servo-padrone. È l’ansia dell’esistenzialismo, che vede un individuo-massa abbandonato a se stesso e spinto da una realtà alienante nell’abisso della passività e dell’incapacità di relazionarsi con il mondo.

Sono queste le due basi filosofiche di Pavese e dei Dialoghi: marxismo ed esistenzialismo; nella sua continua tensione a cercare di attualizzare il mito al mondo che lo circonda (in un periodo compreso tra il dicembre del 1945 e la primavera del 1947). Il comune denominatore dei due sistemi filosofici è il cuore del Novecento: il principio di alienazione; nato, forse, nella sua mente di uomo e nella sua coscienza di scrittore dopo l’esperienza devastante della guerra.

La paura di cui si parla, poi, trova il suo compimento nel verbo patire, nell’accezione di πάθος (pàthos), un’oscillazione continua tra una sorta di eterna tensione conoscitiva (il desiderio di Ulisse) e il dolore. Ed è paura, angoscia esistenziale, quella che provano i mostri che sanno di essere tali, e che si rifugiano nelle forre, delle specie di precipizi pieni di acqua oscura e tumultuosa, non veri e propri abissi di perdizione ma oscurità che si aprono nel cuore della terra; perfetta rappresentazione dell’angoscia e della vergogna che caratterizza la loro nuova consapevolezza.

Issione: Chi lo dice?
La Nube: Non sfidare la mano, Issione. È la sorte. Ne ho veduti di audaci più di loro e di te precipitare dalla rupe e non morire. Capiscimi, Issione. La morte ch’era il vostro coraggio, può esservi tolta come un bene. Lo sai questo?

La morte che danno ora gli dèi agli uomini non è più quella dell’oltretomba pre-ellenico, che garantiva resurrezione e rinnovamento del ciclo dell’esistenza, è la dannazione del Tartaro, dominata dal senso di angoscia.

Adolf Hirémy-Hirschl. Ermes scende nell’Ade (1898).

Issione: Me l’hai detto altre volte. Che importa? Vivremo di più.
La Nube: Tu giochi e non conosci gli immortali.
Issione: Vorrei conoscerli, Nefele.
La Nube: Issione, tu credi sian presenze come noi, come la Notte, la Terra o il vecchio Pan. Tu sei giovane, Issione, ma sei nato sotto il vecchio destino. Per te non esistono mostri ma soltanto compagni. Per te la morte è una cosa che accade, come il giorno e la notte. Tu sei uno di noi, Issione. Tu sei tutto nel gesto che fai. Ma per loro, gli immortali, i tuoi gesti hanno un senso che si prolunga.
Essi tastano tutto da lontano con gli occhi, le narici, le labbra. Sonno immortali e non san vivere da soli. Quello che tu compi o non compi, quel che dici, che cerchi – tutto a loro contenta o dispiace. E se tu li disgusti – se per errore li disturbi nel loro Olimpo – ti piombano addosso, e ti danno la morte – quella morte che loro conoscono, ch’è un amaro sapore che dura e si sente.

“Tu sei tutto nel gesto che fai”. Vivi solo il presente, senza curarti del passato o del futuro. Perché non hai coscienza del tempo, della vita e della morte. Sei un bambino. Gli uomini, invece, questa coscienza ormai ce l’hanno ben salda nelle menti, e non possono far altro che vivere in questo nuovo sorprendente mondo, fatto di mostri e di meraviglie. E tu, Issione, prigioniero di un mondo che ormai non esiste più, non puoi fare altro che imparare le nuove regole dettate dai nuovi padroni che lo governano.

La sua è un’interpretazione figurale della realtà, alla stregua di quella dei grandi autori del passato. Rappresenta il mondo per figure Dante, e ancora prima di lui lo fanno gli aedi dell’Iliade e dell’Odissea e gli autori della Bibbia, ogni meccanismo letterario in fondo opera un processo analogo.

E poi entra in gioco il principio della plurisensorialità, intesa come chiamata in causa del lettore non solo dal punto di vista mentale ma anche con tutti i sensi all’erta: l’uomo da sempre crede di essere più di quel che è, e questa illusione dell’umano è data dalle continue metamorfosi del mondo in cui vive.

Issione: Dunque si può ancora morire.
La Nube: No, Issione. Faranno di te come un’ombra, ma un’ombra che rivuole la vita e non muore mai più.

Questa “nuova morte” va di pari passo con il nuovo destino che incombe sugli uomini. Di loro non resterà che un’ombra.

Issione: Tu li hai veduti questi dèi?
La Nube: Li ho veduti… O Issione, non sai quel che chiedi.
Issione: Anch’io ne ho veduti, Nefele. Non sono terribili.
La Nube: Lo sapevo. La tua sorte è segnata. Chi hai visto?
Issione: Come posso saperlo? Era un giovane, che attraversava la foresta a piedi nudi. Mi passò accanto e non mi disse una parola. Poi davanti a una rupe scomparve. Lo cercai a lungo per chiedergli chi era – lo stupore mi aveva inchiodato. Sembrava fatto della stessa carne tua.

Il giovane che Issione ha visto in sogno non è altri che il figlio che avrà dalla Nube, Centauro (secondo un’altra versione del mito). Il sogno, infatti, nella mentalità pre-logica di Issione, non esprime il desiderio di unirsi alla dea ma un dato di fatto, certezza assoluta di quello che accadrà in futuro (il primitivo vede in sogno fatti che devono verificarsi più tardi, allo stesso tempo futuri perché prevedono l’avvenire e passati perché nella mente hanno già avuto luogo).

La Nube: Hai veduto lui solo?
Issione: Poi in sogno l’ho rivisto con le dee. E mi parve di stare con loro, di parlare e di ridere con loro. E mi dicevano le cose che tu dici, senza paura, senza tremare come te. Parlammo insieme del destino e della morte. Parlammo dell’Olimpo, ridemmo dei ridicoli mostri…
La Nube: O Issione, Issione, la tua sorte è segnata. Adesso sai cos’è mutato sopra i monti. E anche tu sei mutato. E credi di essere qualcosa più di un uomo.
Issione: Ti dico, Nefele, che tu sei come loro. Perché, almeno in sogno, non dovrebbero piacermi?
La Nube: Folle, non puoi fermarti ai sogni. Salirai fino a loro. Farai qualcosa di terribile. Poi verrà quella morte.
Issione: Dimmi i nomi di tutte le dee.
La Nube: Lo vedi che il sogno non ti basta già più? E che credi al tuo sogno come fosse reale? Io ti supplico, Issione, non salire sulla vetta. Pensa ai mostri e ai castighi. Altro da loro non può uscire.
Issione: Ho fatto ancora un altro sogno questa notte. C’eri anche tu, Nefele. Combattevamo coi Centauri. Avevo un figlio ch’era figlio di una dea, non so quale. E mi pareva quel giovane che attraversò la foresta. Era più forte anche di me, Nefele. I centauri fuggirono, e la montagna fu nostra.

Tu ridevi, Nefele. Vedi che anche nel sogno, la mia sorte è accettabile. Il sogno fa riferimento alla quarta fatica di Eracle, la cattura del selvaggio cinghiale di Erimanto, in cui l’eroe scaccia i centauri con una torcia ardente.

Francisco de Zurbarán. Ercole e il Cinghiale di Erimanto (1634).

La Nube: La tua sorte è segnata. Non si sollevano impunemente gli occhi a una dea.
Issione: Nemmeno a quella della quercia, la signora delle cime?
La Nube: L’una o l’altra, Issione., non importa. Ma non temere. Starò con te fino alla fine.

“Non si sollevano impunemente gli occhi a una dea” richiama sicuramente la colpa primitiva di Issione e la ragione della sua condanna agli Inferi, ma, a un’analisi più profonda, anche l’intero τόπος (tòpos) letterario della ὕβϱις (ùbris) intesa come sfida agli dèi, desiderio dell’uomo si essere più di quel che è. Quella colpa che è stata poi condannata da Dante nel XXVI canto dell’Inferno. La fine di cui parla nella sua ultima battuta Nefele, il doppio limite dell’umano: la sorte e la morte.

La Nube mette dunque in scena l’instaurazione della civiltà di Zeus a partire dall’imposizione della “nuova legge”. Il dialogo poi si svolge come struttura binaria in cui i due poli (Issione e la Nube) sono assolutamente incomunicabili, e tutto si riduce a un “monologo camuffato”, uno scontro tra immutabilità (Issione) e mutabilità (la Nube). In ultima istanza, la colpa di Issione consiste nel rifiutarsi di vedere il limite (im)posto all’uomo e nel volersi elevare al rango di un dio.

Davide Lamandini

(In copertina Issione torturato, di Jusepe de Ribera, 1634)


Per approfondire: Dialoghi, destini e uomini (con Vittorini, Pavese e Calvino), articolo di Davide Lamandini per la rubrica I Corsari.


Sull'autore

Classe 2000. Mi piacciono le storie, qualsiasi sia il mezzo che le fa circolare o la persona che le racconta. Credo nella letteratura, nel tempo che passa e nelle torte al cioccolato per le giornate più tristi. Aspetto con impazienza domani e, nel frattempo, leggo, scrivo e traduco qualche lingua morta persa in un passato lontanissimo.
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