Linguistica

L’italiano è morto, viva l’italiano

Italiano

Amo la mia lingua. E questo mi porta molto spesso a pensare all’italiano come a un’entità, viva, presente e a tratti tangibile. “Ma come? Una lingua non è solo un mezzo per comunicare?”, chiederà qualcuno. Potrei dire di sì, ma sarebbe crudelmente riduttivo. La lingua porta con sé i segni della storia, della contaminazione di altre lingue, della nostra cultura e di quelle con cui è stata in contatto per decenni, se non secoli.


[1] Ad esempio, è sconosciuta a molti la connessione tra i muscoli e i roditori. Eppure, i latini associavano il movimento guizzante dei nostri muscoli allo scatto di un musculus, e cioè di un “topolino”, da cui procede il sostantivo derivato in italiano.
[2] Oppure, da dove deriva l’aggettivo “stacanovista“? L’origine sta nel nome proprio di un minatore russo: Aleksej Stachanov che negli anni ‘30 del Novecento estrasse in un solo giorno 102 tonnellate di carbone. Nel tempo, poi, il nome si è conservato come specificazione per qualcuno che lavora con infaticabile zelo.
[3] Nel linguaggio comune, ancora, usiamo la parola “volume” per indicare un libro. Essa, però, deriva dal latino volumen che significa “rotolo”, “giro”. Un libro ha ben poco di cilindrico, eppure tutto si spiega perché anticamente i libri erano scritti su lunghi fogli di papiro che venivano conservati arrotolandoli su se stessi.

Una lingua per capire, una lingua per capirci

Può essere affascinante scoprire la storia che si cela dietro le parole. Esse, a volte, racchiudono significati profondi, condensati quasi per magia in poche sillabe, e spesso hanno una forza che sembra travolgerci.

Eppure, quando parliamo, accade che spesso diamo per scontata la potenza dei significati di ogni espressione. Peggio, in molti casi ci troviamo a essere così pigri che non ci sforziamo neanche di cercare la parola esatta per esprimere ciò che davvero rispecchia i nostri sentimenti o il nostro pensiero. E così, ci arrendiamo, riducendoci a usare gesti e parole generiche che vogliono dire tutto e niente, come “buono”, “cattivo”, “cosa”, “roba”.

Non ci sforziamo. Sarà perché si legge e si ascolta poco e con superficialità. E, del resto, non è vero che “basta” leggere per arricchire il proprio vocabolario e sentirsi più sicuri in mezzo a nuove conversazioni su ambiti poco familiari. Serve sempre una buona dose di curiosità e voglia di approfondire, di farsi domande ed esercitare la mente. Senza pratica non si può migliorare: se vale in generale per la vita, perché non dovrebbe valere per la lingua?

Una lingua da accogliere, prima che raccogliere

“Perché siamo diventati tanto pigri?” Mi viene da rispondere con un’altra domanda. Quanti leggono con piacere e di filato una pagina scritta da Vittorio Alfieri o Alessandro Manzoni? O, peggio ancora, da Dante?

Perché non abbiamo l’esercizio. E qualcuno potrebbe obiettare: “È roba vecchia e incomprensibile. A cosa serve? Di sicuro non mi aiuta a gestire le finanze della mia impresa.” Il linguaggio usato nel passato, con le sue particolari forme e costruzioni, non lo si ritrova nella vita quotidiana, su un cartello pubblicitario o al supermercato, e sicuramente non offre soluzioni immediate e concrete ai problemi; ma è certo che l’esercizio alla sua comprensione garantisca spunti e un’elasticità mentale che non si acquisisce a dosi intermittenti di serie TV.

L’italiano vero è l’italiano che passa attraverso quelle pagine considerate “indecifrabili”, che dà fondamento e nutre l’italiano di oggi. E, forse, non è nemmeno poi così inutile. Tra i versi della Commedia, ad esempio, Dante parla di un concetto base del marketing.

Però ti son mostrate in queste rote,
Nel monte e ne la valle dolorosa
Pur l’anime che son di fama note,
Che l’animo di quel ch’ode, non posa
Né ferma fede per essempro ch’aia
La sua radice incognita e ascosa,
Né per altro argomento che non paia.

Dante, Commedia, Paradiso XVII

In Paradiso XVII (136-142), infatti, Dante scrive che tra tutte le anime incontrate nel suo viaggio, non ve ne era alcuna sconosciuta e ignota, per il semplice fatto che nessuno presta attenzione a qualcosa che non lo riguarda da vicino.

Se si vuole trasmettere un messaggio, servono esempi noti, nei quali potersi identificare, così che valgano da modelli e lascino qualche insegnamento. Dante, allora, racconta la storia e le tribolazioni di persone famose del passato per la stessa ragione per cui un noto marchio di scarpe sportive fa sponsorizzare i suoi prodotti da un campione nel calcio. Ce l’ha detto Dante, con un linguaggio certo non moderno ma che, forse, tanto “noioso” non è.

Una lingua per esistere, forse per resistere

L’italiano lentamente si è accasciato nelle parole semplici di un linguaggio base, informale e da tutti i giorni. E non c’è trapassato prossimo o congiuntivo che tengano. Esistono ancora le frasi relative? La maggior parte non sa ancora come si usa “piuttosto che”, e pare che anche gli articoli stiano scomparendo. “L’appuntamento è rimandato a settimana prossima.” Ma come è possibile? Da quando la parola “settimana” viene trattata come se fosse un giorno qualunque dei sette. “Settimana” è un nome comune e come tale ha bisogno del suo articolo. Dunque, torna quella pigrizia di cui si parlava poco prima: semplifichiamo e togliamo anche ciò che ci sembra arbitrariamente superfluo, perché “tanto, alla fine, il senso si capisce lo stesso”.

Più passa il tempo e più il parlato si sta differenziando dall’italiano scritto e le ragioni sono più complesse di quanto si possa credere. Può essere spontaneo chiedersi quali conseguenze ci saranno nel lungo periodo e quindi, “che destino ha l’italiano?”. A pensarci bene, trascendendo le particolari condizioni storiche, abbiamo smesso di parlare il latino perché iniziò a esserci una differenziazione tra lingua scritta, il latino appunto, e lingua parlata: nacquero i diversi volgari.

La verità, infatti, è che la lingua, specie quella parlata, non è fatta di regole fisse e imperiture, consolidate da secoli e infrangibili. La lingua la facciamo noi. Perché molti nomi di professione sono declinati tutti al maschile? Perché certi ruoli, per decenni, sono stati ricoperti solo dal genere uomo. Oggi non è più così e si spiega perché non possiamo biasimare chi parla di “ministra“, di “poeta” o di “avvocata“.

È l’uso consolidato e diffuso di una certa espressione che riconosce la sua legittimità ad esistere. Ma nessuno voglia che il nostro italiano, tanto ricco di sfumature e chiaroscuri, si appiattisca in un linguaggio medio e standard (!); che sia un italiano che faccia del “facile e veloce” la sua costante e che per pigrizia si abbandoni al lessico straniero, sintetico e immediato.

Una lingua per vivere, non per sopravvivere

Va bene operare una distinzione, ma parlare non dovrebbe significare distruggere un’intera grammatica. Va bene il dialetto, vanno bene gli intercalari e il linguaggio comune, ma senza mettere da parte le regole su cui si fonda la lingua. Per poter violare la grammatica è imprescindibile l’esserne coscienti e averne completa padronanza, così che si possa dare conto delle ragioni per cui lo si fa.

Uccidiamo una lingua che grida “Alla vita” perché non c’è rassegnazione nella varietà e nell’esattezza. Chi conosce e sa usare le parole spesso ci pone davanti a un libro che ci strappa risate a ogni pagina o a un discorso che ci fa venire i brividi dall’emozione. Le combinazioni smisurate tra le parole, a volte, riescono a farti sentire sulla pelle il bacio leggero e gentile di una madre sulla fronte della propria creatura, o ti fanno venire un nodo alla gola quando raccontano il dolore e la sofferenza silenziosa di un adolescente alla disperata ricerca di un modello nel quale identificarsi, ma che non ha nessuno che semplicemente lo ascolti senza giudizio.

L’italiano è vivo e potentissimo. Sa come essere vago o preciso, profondo e leggiadro allo stesso tempo, complicato e lineare. Non è omologato e nel suo essere molteplice conserva tutta la sua umanità.

Sara Carenza

(In copertina Anne Nygård da Unsplash)


Per approfondire:

  • Carenza, Sara. Guida ad un uso corretto della lingua italiana (Giovani Reporter, 2020)
  • Carenza, Sara. Come si pronuncia l’italiano? (Giovani Reporter, 2020)
  • Carenza, Sara. Gli errori più frequenti dell’italiano scritto (Giovani Reporter, 2020)
  • Ciofini, Elisa. In altre parole: gli anglismi nella lingua italiana (Giovani Reporter, 2018)
  • Dòmini, Elettra. Schwa. La parità che cerchiamo, non quella di cui abbiamo bisogno (Giovani Reporter, 2021)
  • Russo, Beatrice. Gli Ispanismi: un viaggio di parole tra la Spagna e l’Italia (Giovani Reporter, 2021)
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