I Corsari

Dialoghi, destini e uomini (con Vittorini, Pavese e Calvino)

Destino umano Vittorini Pavese Calvino

Dopo l’esperienza traumatica della Seconda Guerra Mondiale, l’Italia deve in un qualche modo recuperare una identità forte e stabile. Nella letteratura i primi due grandi autori di questo periodo sono Elio Vittorini e Cesare Pavese. A loro, qualche anno più tardi, si aggiungerà Italo Calvino


  • Elio Vittorini. Uomini e no (1945)
  • Cesare Pavese. Dialoghi con Leucò (1947)
  • Italo Calvino. Il castello dei destini incrociati (1969)

Uno specchio infranto

L’Italia esce distrutta dal Secondo Conflitto Mondiale, dal punto di vista materiale e psicologico, in particolare dopo l’esperienza della guerra civile, che crea ferite insanabili nel tessuto sociale del Paese. Dopo aver vissuto questi eventi traumatici, nasce nella popolazione un forte bisogno di ricostruire i frammenti sparsi dell’esistenza dei singoli individui, e quindi, di ridare un’identità forte e unitaria anche alla collettività. La maggior parte degli autori del periodo si impegna a cercare la propria civiltà nelle ceneri di un paese distrutto, a razionalizzare l’accaduto e ad andare oltre senza dimenticarlo.

Per sommi capi, si può prendere in considerazione il decennio degli anni ’40, scegliendo come coordinate storiche l’entrata in guerra dell’Italia (annunciata da Mussolini dal balcone di Piazza Venezia a Roma il 10 giugno 1940) e il suicidio di Cesare Pavese (trovato morto nella camera 346 dell’hotel Roma di Torino il 27 agosto 1950).

Gli scrittori e gli intellettuali dell’epoca prestano un’attenzione sempre maggiore alla realtà in cui sono immersi, anche a quella più provinciale, sono “un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche – o specialmente – delle Italie fino allora più inedite per la letteratura” (Italo Calvino). I temi di fondo sono l’esperienza tragica e umana della guerra, l’allucinazione dell’uomo del Novecento perso nell’abisso del mondo moderno, il racconto della lotta partigiana e della successiva ricostruzione del paese. È la letteratura neorealista.

L’antecedente è Alberto Moravia (Gli indifferenti, 1929); ne fanno parte due Grandi, come li chiama Calvino (Cesare Pavese, Paesi tuoi, 1941; e Elio Vittorini, Uomini e no, 1945); e tre esordienti (Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, 1945; Primo Levi, Se questo è un uomo, 1947; e lo stesso Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, 1947), almeno per quanto riguarda questo decennio. Nel successivo, invece, come ha notato Calvino, il quadro era cambiato, e la letteratura aveva già assunto diverse forme e nuovi fini e identità.

Ritratto di una guerra civile (con Elio Vittorini)

L’esigenza di raccontare la realtà che lo circonda e le sue singole esperienze personali porta Elio Vittorini alla scrittura di Uomini e no, un romanzo in presa diretta, realizzato nel cuore delle lotte partigiane, con al centro la riflessione sulla vita e sulla morte e la ricerca del confine tra ciò che è essere umano e ciò che non lo è.

Il protagonista è un partigiano senza nome, Enne 2 lo chiamano i compagni della Resistenza, un intellettuale disperato e spinto dalla sua fede antifascista a imbracciare le armi. La sua è un’esistenza frammentaria, sconnessa, scarnificata. Al culmine del suo dolore e della sua solitudine, quando l’amata Berta gli confessa che il loro amore non potrà mai essere in nessun mondo possibile e quando il tabaccaio del quartiere lo denuncia al regime, decide di andare volontariamente incontro alla morte, identificata in Cane Nero (altro nome in codice, in questo caso di un gerarca fascista) in un eroico e inutile sacrificio che nulla ha del suo grande modello letterario: il duello tra Achille ed Ettore nel XXII libro dell’Iliade.

La sua narrazione interiore, al contrario di quella dell’eroe omerico, a un certo punto non torna più, Enne 2 si scopre Amleto e non più Oreste tra le righe di Pirandello, non trova più un senso nella propria vita e ne cerca uno nuovo nella morte, immergendosi nel grande affresco delle lotte partigiane come martire e vittima degli eventi.

E allora, fin dall’inizio, da quando Vittorini svela il non-nome del suo protagonista, Enne 2, di questo antieroe non resta che un nome in codice: un non-uomo diviso in due uomini diversi – il capo partigiano e l’intellettuale –, un’unica parola palindroma divisa in due “N”, che forse non rappresentano altro che due riflessi, uno nessuno e centomila, e che forse indicano il “Novecento”. Quell’uomo del Novecento che ha attraversato la crisi del Positivismo, che ha letto Einstein e Freud, che ha dovuto combattere insieme a Ungaretti nel bosco di Courton e che poi ha vissuto gli orrori dell’inumano e la Seconda Guerra Mondiale, dai lager nazisti alle bombe atomiche, di poco successive alla pubblicazione di Uomini e no; quell’uomo che nel breve battito d’ali di mezzo secolo ha assistito alla morte di Dio e alla nascita della società dei consumi.

Noi e il mito greco (con Cesare Pavese)

Vittorini, in un qualche modo, non chiude il cerchio. Descrive ciò che vede, identifica con puntuale attenzione la crisi della narrazione interiore dell’uomo del Novecento, ma non riesce a trovarne una nuova, non riesce a dare un vero destino ai personaggi dell’opera. E chiude il romanzo con il martirio-suicidio di Enne 2.

Pochi anni dopo, nel 1947, un altro scrittore italiano che aveva in comune con Vittorini l’ambiente culturale di Einaudi, Cesare Pavese, torna sul tema, cercando a suo modo la nuova narrazione, il proprio destino di uomo nel mondo.

Nel frattempo, il mondo corre alla velocità della luce, muore una monarchia e nasce una repubblica, finisce la lunga parentesi fascista e inizia a formarsi una nuova unità nazionale. Pavese, attento osservatore della realtà, con anche lui un passato tra le fila del neorealismo ma senza essere stato partecipante attivo alle lotte partigiane, sceglie di tornare al mito classico per cercare di disegnare questa nuova identità. E scrive i Dialoghi con Leucò, in cui recupera il sostrato mitologico del mondo greco e lo riadatta al mondo moderno, mediandolo con il tempo che è passato, con il marxismo e l’esistenzialismo, e trovandovi all’interno le paure, le angosce e le tensioni intime dell’uomo del Novecento.

Così, in estrema sintesi, il mondo mitologico e primordiale dominato dal caos diventa di colpo ordinato con l’arrivo degli dèi dell’Olimpo, e il mostruoso tempo passato sfuma nel luminoso tempo presente, il mondo titanico si fa mondo olimpico. Se ne lamentano e piangono come disperati gli eroi del passato, nati “sotto il vecchio destino” come Issione (Dialoghi con Leucò I. La Nube); lo descrivono con saggezza quelli che sono giunti, invece, a un maggiore grado di conoscenza, come Orfeo, che nelle profondità dell’Ade ha ritrovato se stesso (Dialoghi con Leucò XII. L’inconsolabile).

Nel finale questo mondo luminoso torna a sprofondare nelle tenebre e nel buio dopo la crisi del positivismo.

Il monte è incolto. […] Sembra il mantello del centauro.

Dialoghi con Leucò XXVII. Gli dèi

Ed è la perfetta descrizione del Novecento.

I protagonisti dell’ultimo dialogo, Gli dèi, forse non sono altro che questo, nel mondo moderno: uomini che, dopo aver scoperto e riconosciuto i mostri e essersi definiti uomini, ripiombano nell’abisso e si scoprono dèi. Dèi moderni, ovviamente, sorti dalle ceneri del passato, figli di un nuovo tempo e di una nuova legge, e consapevoli di tutto questo grazie alla poesia che tramanda memoria di ciò che è stato.

Vedrai che il mondo nuovo avrà qualcosa di divino nei suoi più labili mortali.

Dialoghi con Leucò XXV. Il diluvio

Il quadro di riferimento, però, ancora una volta non torna del tutto, non sono stati metabolizzati tutti gli orrori della guerra (quel mostruoso che deve essere definito tale, come ricorda Nefele nel primo dialogo), gli elementi sono tutti presenti in potenza, ma manca l’atto. Il destino nuovo è ridiventato l’antico destino. E a Pavese sfugge ancora il passo successivo, quella narrazione interiore coerente che vada di pari passo con l’evolversi vertiginoso del tempo in cui vive.

Tuttavia, tre anni dopo decide di interrompere la ricerca. “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”, lascia scritto su una pagina proprio dei Dialoghi con Leucò, poco prima di ingerire una dose letale di sonniferi. È il 27 agosto 1950.

Mondo interiore e mondo esteriore (con Italo Calvino)

Per vedere risolversi questa tensione dovrà passare qualche tempo, bisognerà uscire dagli anni ’40 e dal dopoguerra e entrare negli anni del boom economico. Raccoglie il testimone di questo viaggio Italo Calvino, anche lui proveniente dall’ambiente einaudiano (dove era entrato nel 1961). Nel 1969 pubblica Il castello dei destini incrociati e porta a compimento questa grande parabola letteraria.

I personaggi dell’opera sono muti e senza identità perché muto e senza identità è l’uomo del Novecento. Sono uomini e donne provenienti da ogni dove, persi nella selva oscura del mondo, erranti come paladini maledetti dall’assenza del dio in cui tanto credevano e che tanto condizionava le loro azioni e le loro scelte. Un misterioso sortilegio impedisce loro di emettere suoni dalle labbra e per questo non possono raccontare a voce le loro storie; così decidono di sedersi davanti ad un tavolo, prendere un vecchio mazzo di tarocchi e metterli in fila per narrare quello che altrimenti non potrebbero dire. Le loro sono storie frammentarie, ridotte all’essenza, interpretate in modo diverso da ognuno di loro, archetipiche per quanto riguarda i modelli narrativi, le situazioni e i personaggi, e proprio per questo in un qualche modo classiche al pari del mito greco.

Il loro raccontare storie, le proprie storie, che diventano paradigma della letteratura in generale – “il mazzo diventa un catalogo dei possibili, un elenco di ipotesi, un dizionario criptico del mondo dove, nei segni delle carte, si abbreviano i nodi fatali del destino umano” (Giorgio Manganelli, 1970) -, rappresenta un ritorno a essere umani. Prendere in mano il proprio destino di personaggi e cambiarlo in destino di uomini, e trovare finalmente quella narrazione interiore che i predecessori avevano perso e non ancora recuperato. E per farlo, per riuscire a condividere – dividere insieme, un verbo che tanto era mancato a chi aveva attraversato le lacerazioni della guerra civile – il nuovo mondo di cui si sono improvvisamente trovati ad essere non solo aridi spettatori ma anche attori, devono mettere in comune le loro storie e ripartire da lì.

Sopra, immagine di Viva Luna Studios da Unsplash.

Attraverso i loro volti Calvino disegna il grande volto – collettivo e sconvolto – dell’uomo del Novecento al pari di Vittorini, e supera i limiti della riflessione di Pavese. Lo fa in modo quasi scientifico, creando uno schema di possibili, di storie intrecciate le une nelle altre in incroci complessi, inestricabili, leggibili in più direzioni. Tutte parte di un’unica grande storia. E restituisce, attraverso favole di impianto classico ispirate alle immagini dei tarocchi, un nome, una storia e un destino a ciascuno degli individui del nuovo secolo.

Forse basta questo a distinguere un uomo da un non-uomo, per usare i termini di Vittorini: avere la consapevolezza necessaria a dare al proprio presente una narrazione interiore e un’interpretazione coerenti, e quindi trovare, finalmente, il proprio posto nel mondo. Ed è qui che la letteratura italiana può andare avanti, lasciarsi alle spalle finalmente tutto questo e cercare di disegnare una nuova narrativa (esteriore), adatta a raccontare questa nuova narrazione (interiore).

Davide Lamandini

(In copertina Pawel Czerwinski da Unsplash)


Fonti e approfondimenti:

  • Calvino, Italo. Il castello dei destini incrociati (1969; ora Mondadori, 2016) [raccolta di racconti]
  • Calvino, Italo. Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno (1964, ora Mondadori, 2020)
  • Cavallini, Eleonora [a cura di]. La «Musa nascosta»: mito e letteratura greca nell’opera di Cesare Pavese (Dupress, 2014), in particolare «Molte cose sono mutate sui monti»: La hybris di Issione nella Nube pavesiana, di Monica Lanzillotta [articolo]
  • Comparini, Alberto. La poetica dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese (Mimesis, 2017) [monografia]
  • Ferretti, Gian Carlo. L’editore Cesare Pavese (Einaudi, 2017) [monografia]
  • Ferroni, Giulio. Storia della letteratura italiana IV. Il Novecento e il nuovo millennio (Mondadori Università, 2021) [manuale]
  • Gasperina Geroni, Riccardo. Cesare Pavese Controcorrente (Quodlibet, 2020) [monografia]
  • Levi, Carlo. Cristo si è fermato a Eboli (1945, ora Einaudi, 2014) [romanzo]
  • Levi, Primo. Se questo è un uomo (1947, ora Einaudi, 2014) [romanzo]
  • Manganelli, Giorgio. Il mondo ammirato con la testa in giù (L’Espresso, 1970, ora postfazione all’edizione Mondadori di Il castello dei destini incrociati, di Italo Calvino) [articolo]
  • Moravia, Alberto. Gli indifferenti (1929, ora Bompiani, 2016)
  • Pavese, Cesare. Dialoghi con Leucò (1947, ora Einaudi, 2020) [raccolta di dialoghi]
  • Pavese, Cesare. Il mestiere di vivere (1952, ora Einaudi, 2020) [diario]
  • Pavese, Cesare. Paesi tuoi (1941, ora Einaudi, 2021) [romanzo]
  • Pirandello, Luigi. Il fu Mattia Pascal (1904; ora Mondadori, 2016) [romanzo]
  • Vittorini, Elio. Uomini e no (1945, ora Mondadori 2016) [romanzo]
Sull'autore

Classe 2000. Mi piacciono le storie, qualsiasi sia il mezzo che le fa circolare o la persona che le racconta. Credo nella letteratura, nel tempo che passa e nelle torte al cioccolato per le giornate più tristi. Aspetto con impazienza domani e, nel frattempo, leggo, scrivo e traduco qualche lingua morta persa in un passato lontanissimo.
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