

La Didattica a Distanza è stata la grande rivoluzione portata dalla pandemia nel mondo della scuola italiana. Non voluta, anzi odiata da molti, ma non da tutti…
Ci sono state manifestazioni anti DaD, poi qualche timida protesta pro DaD, quando sembravano mancare le condizioni di sicurezza, ma nessuno ha mai creduto che potesse durare. Non dall’asilo alle superiori, almeno. In tutti questi gradi di istruzione il contatto con i compagni, la spiegazione in presenza dell’insegnante e persino l’intervallo hanno un valore formativo che la DaD non può in nessun modo garantire. Immaginate di rifare le superiori senza il vostro compagno di banco, ad esempio. Sarebbe innegabilmente un’esperienza a metà.
L’università, però, è diversa. Gli studenti sono diversi (adulti, oserei dire) e i metodi didattici pure. A volte il famoso contatto con i professori in questo caso mancava anche prima del Covid-19. Nei corsi più frequentati, infatti, un insegnante poteva arrivare ad avere oltre duecento studenti. Li conosceva tutti e interagiva con ognuno di loro nel corso delle sue lezioni? Naturalmente no. Per quelli seduti dalla quinta fila in poi, la lezione era prevalentemente frontale. Ascoltare e seguire le slide. Come in DaD, ma in aula. Con la differenza che in più si poteva prendere un caffè con i compagni o avvicinarsi al professore per fare una domanda dal vivo alla fine della lezione.
La DaD in università
Insomma, l’università è evidentemente il grado di istruzione che, per la natura della sua didattica, meglio si è prestato alla DaD. Non è, quindi, una sorpresa che proprio nel contesto accademico siano emerse delle voci pro DaD. Si tratta di studenti che vorrebbero il mantenimento della DaD, anche dopo la fine dell’emergenza sanitaria. Per sempre, in affiancamento alla tradizionale didattica in presenza. Ma chi sono, più nello specifico, questi sacrileghi pro DaD?
In generale, sono studenti che spesso ricadevano nel calderone indistinto dei “non frequentanti“: studenti lavoratori, genitori, studenti con disabilità, care-giver, alcuni pendolari e fuorisede. Studenti che anche prima del Covid-19 non vivevano l’università pienamente in presenza; e non perché non volessero, ma perché non potevano. Per capire le loro ragioni, ecco qualche storia.
La prima è di Giada, 36 anni, UniMoRe:
«Lavoro da quando ho 20 anni, ma ho sempre avuto il sogno di conseguire una laurea, più per cultura personale che per una reale necessità. La mia facoltà (scienze e tecniche psicologiche) prevede la modalità blended, con lezioni registrate e fruibili in differita da chi, come me, non ha la possibilità di frequentare. Durante il lockdown è stata introdotta la possibilità di dare gli esami a distanza e per me è stata super utile, perché così posso prendere poco più di un’ora di permesso (anziché una giornata). Con il rientro agli esami in presenza questa possibilità verrà a mancare, purtroppo. La DaD è stata l’unico motivo che mi ha spinto a intraprendere il percorso universitario e credo sia indispensabile che venga offerta in tutte le facoltà per le materie che non hanno l’obbligo di frequenza.»
La seconda storia è di Tina, 43 anni:
«Mi chiamo Tina, lavoro a tempo pieno e sono sposata con due figli. L’anno scorso ho deciso di provare un test di ingresso per il corso di laurea in tecnico della prevenzione negli ambienti e nei luoghi di lavoro. Non credevo, a 24 anni dal diploma, di riuscire a superare il test; invece, sono arrivata settima e finalmente mi sono immatricolata.
La prima sessione è stata quasi tutta in presenza, una bella esperienza ma difficile, perché io ho a disposizione solo 150 ore all’anno di permessi per diritto allo studio. Il secondo semestre, invece, è stato quasi tutto a distanza, anche se resta il problema del tirocinio. Grazie alla DaD sono di riuscita a portare a termine il mio primo anno di università, sono in regola con gli esami, che ho dato sia in presenza che a distanza. Credo che la DaD sia una grande possibilità per noi genitori e lavoratori.»
La terza, invece, di Francesco, ispettore informatico:
«Mi sono iscritto ad Architettura all’università di Roma Tor Vergata nel 2008, consapevole che non sarei arrivato alla laurea in tempi brevi. Pur con tutte le difficoltà che comporta studiare lavorando a tempo pieno, sono arrivato 5 anni fa a poco più della metà del percorso di studi, costellato sia da gratificanti riconoscimenti sia da sconfortanti discriminazioni. Quello che posso raccontare non è la mia esperienza con la DaD, ma la mia esperienza con la “non DaD”.
Fino al secondo anno le cose sono andate bene, ma al terzo (iniziato 8 anni fa) mi sono trovato di fronte ad esami con una evidente carenza di bibliografia che rendeva la preparazione molto complessa. Il primo giorno di lezione mi sono presentato in aula e ho chiesto ai docenti indicazioni su come prepararmi, considerando che, da lavoratore a tempo pieno, non avrei potuto seguire le lezioni (e, del resto, la frequenza non era obbligatoria). La risposta di quasi tutti è stata: “Le consiglio di seguire le lezioni”, e poi “Si faccia passare gli appunti dai colleghi”.
Come era prevedibile, in queste condizioni sono riuscito a dare solo due esami in un anno e con risultati totalmente divergenti dai precedenti (alla fine del secondo anno avevo la media del 28). Dopo aver ostinatamente cercato di continuare e non essere riuscito ad andare oltre due esami in due anni, ho portato il mio caso ai consigli di corso e di facoltà. Qui, all’interessamento del rettore, si contrapponevano le aspre critiche della maggior parte dei docenti, i quali arrivavano a mettere in dubbio la validità di una laurea conseguita senza frequentare.
Proprio durante una di quelle assemblee, circa 5 anni fa, ho mostrato come nelle università del resto d’Europa il concetto di lezione a distanza fosse già in stato di sviluppo e a quel punto la levata di scudi dei docenti è stata quasi unanime: “non abbiamo i fondi”, “non abbiamo le competenze”, “il mio lavoro è una proprietà intellettuale”. Da allora ho sospeso la mia carriera universitaria in attesa di riprendere quando le cose cambieranno definitivamente. Il resto è storia dei nostri giorni.»
Giada, Tina e Francesco sono solo tre degli oltre 10mila studenti che su Facebook si sono iscritti a UNIDAD, gruppo dell’omonima associazione che chiede il mantenimento della DaD. Per l’università italiana, insomma, si annunciano mesi (o anni) di accesi dibattiti. Il Covid ha costretto gli atenei a digitalizzarsi e il prossimo ritorno alla normalità richiederà decisioni importanti. Possiamo riportare tutto com’era prima? Senza dubbio a molti piacerebbe; ma si può riavvolgere una rivoluzione?
Sara Bichicchi
(in copertina Andrew Neel da Unsplash)
Per approfondire: Intervista ad Arianna Atzeni (UNIDAD) (un articolo di Sara Bichicchi per Sistema Critico).
In collaborazione con:

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