Sabato 27 novembre l’Italia intera ha assistito a un atto di molestia trasmesso in diretta sulla rete televisiva locale prima e nazionale poi, diffondendosi parallelamente sui social network.
Senza pensare all’ironia legata al fatto che ciò sia verificato appena quarantotto ore dopo la Giornata contro la violenza sulle donne, in occasione della quale sono state spese molte (troppe?) parole più o meno infarcite di retorica, vorrei riflettere su quanto accaduto senza riportare il nome di nessuna delle persone coinvolte. Questo non per sminuire la gravità dell’accaduto o per non rendere giustizia alla vittima della molestia, ma perché credo che si tratti di una situazione paradigmatica per raccontare quello che succede regolarmente in numerosi ambiti della vita pubblica e privata delle donne.
I fatti
Il video diventato virale è composto da una sequenza di immagini: all’inizio la giornalista conduce il suo servizio televisivo davanti ad uno stadio. Poco dopo due tifosi entrano con spavalderia nell’inquadratura della telecamera facendosi riprendere con noncuranza e sfacciataggine, giusto il tempo di toccarle il sedere, per poi dileguarsi come se nulla fosse. Segue la reazione della donna, una risposta caratterizzata da una calma e una gentilezza quasi eccessive rispetto alla situazione; e in sottofondo il conduttore del programma televisivo su cui stava andando in onda il servizio invita la sua collaboratrice a “non prendersela”.
La questione sta facendo molto discutere, come è giusto che sia, ma, per come la vedo io, la linea di confine tra la volontà di creare un dibattito costruttivo e l’approfittarsi di un fatto di cronaca per esprimere un’opinione a cui non farà seguito un cambiamento reale nel comportamento quotidiano è molto sottile. Anche io ho paura di oltrepassare questa linea ed è per questo che preferisco omettere i nomi delle persone coinvolte in questa vicenda: perché credo che ognuno di noi si sia trovato almeno una volta nella posizione della giornalista, del tifoso, oppure del conduttore televisivo.
C’è una quantità infinita di molestie mai denunciate, con carnefici e vittime senza nome; l’anonimato è, in qualche modo, l’altra faccia dell’universale.
Il fascino della telecamera
Guardando il video, non ho potuto fare a meno di chiedermi che cosa fosse scattato nella testa del tifoso per palpeggiare una giornalista che sta parlando in diretta, con la telecamera puntata su di lei. Che cosa spinga gli uomini a considerare il corpo della donna come un oggetto che possono sfruttare quando vogliono lo sappiamo, ma credo che il nocciolo del problema stia proprio in quella telecamera e nella sua inquadratura, in cui i due tifosi sono entrati con una sicurezza che mi ha gelato il sangue.
Perché fare in modo di essere ripresi mentre si compie un atto così squallido, sapendo che molti italiani ti guarderanno dalla loro televisione e altrettanti (si spera) proveranno repulsione per quello che hai fatto?
Perché pensi che non ci saranno conseguenze, che il tuo gesto volutamente violento e di violazione del corpo di un’altra persona resterà impunito. Così il tutto prende il sapore di una bravata tra ragazzi, di quelle che fai davanti al pubblico di amici che ti guardano curiosi ed eccitati perché non sanno fino a dove ti spingerai; uno di quei gesti per cui vieni redarguito, sì, ma nonostante le quali poi tutto torna come prima, e anzi magari avrai anche guadagnato la stima di alcuni per il tuo “coraggio”.
Un pubblico per ogni “bravata”
Nella mia esperienza, questo meccanismo di azione compiuta davanti a un potenziale pubblico, facendosi forti della certezza che chi subisce non si ribellerà, l’ho ritrovato anche alla base del fenomeno del catcalling: gridare apprezzamenti al passaggio di una ragazza col preciso intento di spaventarla, dando per scontato che non risponderà. Il fatto di essere in un luogo pubblico, come può essere una strada o una piazza popolata spesso e volentieri da passanti, costituisce proprio la dimensione della “bravata”: qualcuno potrebbe fermarmi per dirmi che sto facendo qualcosa di sbagliato, potrei essere punito per questo, ma non è mai successo, quindi non succederà neanche questa volta.
Alla base di queste molestie c’è proprio la fiducia nel silenzio e nell’omertà di quel pubblico che, come nel caso della giornalista molestata dai due tifosi, assiste alla scena senza fare nulla: i passanti, il cameraman con tutta l’équipe, e il conduttore televisivo, che non a caso davanti alla reazione della giornalista le ha chiesto di “non prendersela”. Perché è così: se rispondi, se interrompi quel gioco basato sulla dittatura del silenzio, allora sei pazza, stai esagerando, è colpa tua che non riesci a capire che è solo un complimento e anzi, dovresti pure ringraziarli per averti guardata.
Chi interrompe la dittatura del silenzio
Tuttavia, la giornalista molestata pubblicamente questo 27 novembre ha interrotto questa dittatura del silenzio: non ha fatto finta di nulla come molti avrebbero preferito, ha risposto, con una voce che lasciava trasparire l’agitazione, ma ha risposto. E visto che in molti hanno voluto sottolineare che la battaglia contro la violenza sulle donne va combattuta anche negli altri 364 giorni dell’anno, oltre al 25 novembre, spero che la reazione di questa giovane giornalista ci abbia fatto vedere che si può e si deve rispondere, perché bastano poche, semplici parole per far paura a chi costruisce il suo potere proprio sulla paura e sulla certezza del silenzio.
Matilde Catelli
(In copertina Thomas William da Unsplash)