La recente e unanime approvazione del Family Act e della legge sulla parità salariale lascia sospettare che, più che di conquiste, si tratti di nulla de facto.
Quando in Parlamento sono tutti d’accordo, gatta ci cova. In casi come questo ci sono due spiegazioni possibili.
Opzione A: il Paese sta affrontando un momento difficile e le diverse forze politiche, responsabilmente, mettono da parte le loro divergenze su temi di interesse nazionale.
Opzione B: il testo in esame non cambia niente – o meglio non scontenta nessuno.
Alla luce di questa premessa, il recente doppio plebiscito a favore della legge sulla parità salariale e del Family Act, due provvedimenti presentati come la svolta per la parità di genere in Italia, merita qualche approfondimento. Che cos’è successo? Sono diventati tutti, improvvisamente, femministi? Difficile da credere, considerando che ci sono voluti più di due anni di mobilitazioni per avere l‘IVA sugli assorbenti al 10% (nemmeno al 4%).
Si potrebbe pensare che la pandemia, con lo shock dei dati sull’occupazione dello scorso dicembre – 99mila posti di lavori persi da donne su 101mila totali –, abbia infine convinto la nostra classe politica a fare qualcosa per il lavoro femminile. Benissimo!… Ma è tutto oro quello che luccica?
Legge sulla parità salariale: un passo economico
La legge sulla parità salariale introduce una serie di vincoli per le aziende con più di 50 dipendenti, che dal 2022 dovranno rendere conto delle loro attività. Quante dipendenti hanno? Che possibilità di carriera offrono? E gli stipendi? Adottano, in fase di selezione, modalità che potrebbero svantaggiare le donne? Le discriminano in modo diretto o indiretto, ad esempio con orari di lavoro che potrebbero mettere in difficoltà una lavoratrice madre? Insomma, ogni azienda dovrà dimostrare che fa del suo meglio per ridurre il gender gap.
Le imprese più virtuose si guadagneranno una certificazione. Questa sorta di badge “fan più attivo della parità di genere” darà accesso a sgravi fiscali e bonus in alcune gare. Ottimo; ma chi controlla? I dossier dovrebbero arrivare alle semisconosciute figure dei consiglieri di parità regionali, che dovrebbero riferire ai piani alti. Chi non rispetta i parametri fissati dovrebbe essere sanzionato con una multa tra mille e cinquemila euro, sempre che il tutto non finisca nella classica condiscendenza italiana…
La spesa per lo Stato sarà di 50 milioni di euro. Una gran bella cifra, per un comune mortale. Per un Paese come l’Italia, però, un finanziamento di 50 milioni è un impegno tutto sommato modesto: nel 2020 il reddito di cittadinanza, ad esempio, è costato 7,2 miliardi di euro, mentre per Quota 100 la spesa è stata di 3,53 miliardi.
Da questa prospettiva, l’approvazione all’unanimità della legge sulla parità salariale si vede sotto una luce diversa. È un provvedimento economico, richiesto da deputate di diversi partiti (e quindi non divisivo), che consente al Governo di mostrarsi attivo su un problema che il Covid-19 ha svelato in tutta la sua gravità. Insomma, quando la spesa è bassa e la legge è anche mediaticamente spendibile, trovarsi d’accordo è più facile.
Family Act e congedo di paternità, chi paga?
Il secondo provvedimento è il Family Act. Si tratta di un testo ampio, la cui prima parte è stata approvata all’unanimità, che terminerà il suo iter nei prossimi mesi. Tra le varie novità che introduce c’è il congedo di paternità obbligatorio, che dal 2022 sarà strutturale. Questo significa che non andrà più ridiscusso ogni anno, chiedendosi se ci sono i soldi o no. Quanto alla durata del congedo, però, bisogna fare attenzione: sui media si è parlato molto di un’estensione a tre mesi, che lancerebbe l’Italia sul podio dei Paesi con i congedi di paternità più lunghi (al momento, con i dieci giorni obbligatori del 2021, siamo un po’più in basso…). L’estensione, tuttavia, non sarà immediata. La legge di bilancio approvata dal Parlamento, infatti, finanzia intanto dieci giorni anche per il 2022. Ai tre mesi si arriverà gradualmente. Ma quando, come e, soprattutto, con quali soldi?
Probabilmente si useranno i fondi del Recovery Plan. L’Europa pagherà, dunque. Ed ecco spiegato com’è che un’idea del genere ha potuto farsi strada in un Paese come l’Italia, che ci ha messo quasi dieci anni ad arrivare a dieci giorni di congedo per i papà. L’Europa chiede di ricalibrare i congedi, l’Europa paga. Se tutto fosse stato a carico dell’Italia, probabilmente il progetto sarebbe stato affossato dai sostenitori dei ruoli di genere tradizionali, gli stessi che giustificano l’attuale disparità con la naturale funzione materna e gridano all’attacco alla maternità a ogni tentativo di modifica. Sia mai che i padri abbiano lo stesso obbligo della madre di stare a casa – orrore! – per mesi. Al momento costoro non si sono palesati – del resto, sono soldi dell’Europa: bisogna adeguarsi – ma che succederà nel futuro, quando il rubinetto del Recovery Plan sarà esaurito?
Per adesso, basti come assaggio il discorso di Tiziana Drago (Fratelli d’Italia) al Senato. Secondo l’onorevole Drago, finanziando gli asili nido lo Stato veicola un messaggio negativo e favorisce sbagliate separazioni tra madre e figli. Meglio che la donna guardi i figli, stando a casa, perché no, anche per tre anni. Dal Parlamento italiano, che decisamente non è diventato femminista, per ora – e solo per ora – è tutto.
Sara Bichicchi