Il processo per l’estradizione negli USA di Julian Assange ci fa riflettere sulle condizioni del giornalismo d’inchiesta in Occidente. La vicenda mette a rischio il lavoro di tanti reporter che combattono per la verità, mettendo in discussione il valore stesso di libertà d’informazione.
Nei giorni scorsi si è aperto a Londra il processo di appello per l’estradizione di Julian Assange. Come noto, gli Stati Uniti chiedono da anni la sua testa (in senso figurativo) accusandolo di cospirazione e spionaggio per aver pubblicato svariati documenti riservati (governativi e diplomatici) attraverso la sua piattaforma WikiLeaks. Questo accanimento degli USA verso il giornalista australiano è un campanello d’allarme per la libertà di stampa in tutto il mondo: se anche lo Stato generalmente considerato la più grande democrazia occidentale perseguita i reporter alla ricerca di verità e giustizia, allora il ruolo stesso del giornalismo rischia di essere delegittimato, a scapito del diritto dei cittadini a un’informazione completa e indipendente.
L’epopea WikiLeaks
WikiLeaks è nata nel 2006 con lo scopo di diffondere documenti e informazioni segreti provenienti da diverse nazioni. Nei primi anni l’attività del sito ha riguardato soprattutto Cina, Turchia, Perù, Yemen.
Nel 2010, però, Wikileaks salì alla ribalta internazionale rilasciando documenti inediti relativi agli USA. Ad aprile venne diffuso il video Collateral Murder, girato il 12 luglio 2007 a Baghdad, che mostrava un agguato teso da militari americani contro 18 inermi civili iracheni scambiati per terroristi. Le scene suscitarono scalpore non solo per la crudeltà gratuita, ma anche per il compiacimento ostentato dai soldati.
Nel luglio di quell’anno, poi, il sito di Assange rilasciò oltre 90mila documenti sulla guerra in Afghanistan, molti dei quali segreti: da questa fuga di notizie emersero, tra le altre cose, svariati crimini commessi dagli USA contro la popolazione civile. A novembre di quell’anno, invece, vennero pubblicati circa 250mila documenti diplomatici riservati trafugati da diverse ambasciate: in questi si leggevano epiteti poco lusinghieri verso leader internazionali, tentativi di corruzione, attività di spionaggio, altre rivelazioni sull’Afghanistan. Molti dei succitati documenti furono stati forniti dal militare statunitense Bradley Manning (oggi Chelsea, a seguito di un percorso di transizione di genere): arrestata nel 2010 e condannata a 35 anni di carcere, Manning è stata in seguito graziata nel 2017 da Barack Obama. In questa campagna di pubblicazioni, che ancora oggi perdura, WikiLeaks è affiancata da molti giornali e periodici in tutto il mondo, tra i quali gli italiani Repubblica e L’Espresso.
Il rischio estradizione
Davanti a queste pubblicazioni clamorose, gli Stati Uniti non sono rimasti con le mani in mano: già nel 2010 il Gran Jury di Alexandria (Virginia) aprì un’inchiesta sulle azioni di Wikileaks. A novembre di quell’anno la Svezia, a seguito della denuncia di due donne, spiccò un mandato di cattura nei confronti di Assange accusandolo di violenza sessuale. L’uomo si proclamò subito innocente, contestando in particolare la tempistica sospetta e sostenendo che il vero intento del mandato fosse quello di espatriarlo negli USA. La magistratura svedese finì per archiviare definitivamente il caso nel 2019 perché, pur ritenendo le dichiarazioni delle due donne credibili, mancavano prove sufficienti contro il giornalista.
Proprio per via delle accuse svedesi, Assange nel 2010 fu arrestato e posto in libertà vigilata da Scotland Yard. Nel 2010 il Regno Unito concesse l’estradizione in Svezia, ma l’imputato riuscì a evitarla rifugiandosi nell’ambasciata dell’Ecuador che gli concesse asilo politico. Nell’aprile 2019, tuttavia, l’asilo venne revocato, e Assange fu nuovamente arrestato e trascinato a forza fuori dall’ambasciata dalla polizia britannica.
Nel maggio dello stesso anno gli Stati Uniti lo incriminarono per 17 capi d’accusa ai sensi dell’Espionage Act, provvedimento del 1917 che punisce chi fornisce documenti segreti al nemico: una legge che Repubblica definisce “draconiana”, dato che non giustifica tale pubblicazione con la rivelazione di crimini di guerra e di fatto equipara il giornalismo d’inchiesta a spionaggio.
Ad oggi, nel caso di condanna, Assange rischierebbe fino a 175 anni di carcere, se non la pena di morte. Lo scorso anno, peraltro, dopo l’archiviazione delle accuse svedesi, è emersa casualmente una richiesta di estradizione da parte degli USA: richiesta respinta in primo grado a gennaio 2021, ma solo per via delle condizioni di salute dell’imputato, e non per le accuse in sé.
Nelle scorse settimane Yahoo! News, citando 30 funzionari del governo americano, ha affermato che durante l’amministrazione Trump si valutò perfino l’idea di rapirlo dall’ambasciata e di ucciderlo. Al momento il giornalista è recluso in un carcere di massima sicurezza londinese, in attesa di una pronuncia definitiva sulla richiesta statunitense.
Attacco alla stampa
E’ evidente come il caso giudiziario di Assange sia diventato di fatto un autentico processo alla stampa libera e indipendente e al suo ruolo nella diffusione della verità. Nel chiederne la scarcerazione, Amnesty International scrive che questa vicenda “potrebbe avere un effetto dissuasivo sul diritto alla libertà di espressione, spingendo i giornalisti all’autocensura per evitare procedimenti giudiziari”. Anche le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa hanno severamente criticato il processo ad Assange, esprimendosi contro l’estradizione: già nel 2015 un Gruppo di Lavoro ONU definì la sua una “detenzione arbitraria” (poiché confinato nell’ambasciata ecuadoregna), e chiese a Regno Unito e Svezia di rilasciarlo.
Come se non bastasse, sono state criticate le condizioni di detenzione dell’imputato la cui salute, come già accennato, è gravemente minata dallo stress per i fatti giudiziari. Proprio nei giorni scorsi la compagna di Assange, Stella Moris, ha definito “atroci” le sue condizioni.
Al di là di come si concluderà questa vicenda, il caso Assange ha messo a nudo le tante ipocrisie delle democrazie occidentali, che con le loro azioni persecutorie non si rendono molto diverse dai peggiori regimi dittatoriali. Fa scalpore soprattutto il fatto che nessuno dei responsabili dei crimini di guerra denunciati da Assange sia stato processato, mentre il fondatore di Wikileaks sta pagando il suo coraggio con una crudeltà inimmaginabile. Il tutto nel sostanziale silenzio di gran parte dei media internazionali che per primi dovrebbero difenderlo con la massima fermezza. Forse il mondo non meritava Julian Assange? Può darsi, ma di certo le persone oneste si ricorderanno del suo sacrificio e porteranno avanti il suo messaggio.
Riccardo Minichella
Per approfondire: il caso Assange su Giornalismo e barbarie di Federico Speme; il valore della libertà di stampa su Il giornalismo alla ricerca della verità di Sofia Bettari.