Politica

Una dote per la Generazione Covid

Generazione Covid

Il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, il 20 maggio ha lanciato una proposta che ha fatto molto parlare. Parliamo dell’istituzione della “dote” di 10 mila euro da assegnare in base all’ISEE alla fascia di popolazione che l’ex Premier ha definito generazione Covid, i giovani che il 1° gennaio 2021 avevano tra i 13 e i 17 anni.


Un risarcimento per i giovani

La dote, che verrebbe consegnata nei conti dei destinatari al raggiungimento della maggiore età, riguarderebbe circa 280mila diciottenni, più o meno la metà di coloro che ogni anno, in media, compiono 18 anni.

I vantaggi dell’attuazione di questa proposta sarebbero molteplici: essa consentirebbe anche a quei giovani che non hanno le cosiddette “spalle coperte” di avere una base di patrimonio da spendere in formazione, oppure nell’avvio di un’attività imprenditoriale, o anche nell’acquisto di una casa, in modo da ampliare le possibilità per i giovani con meno disponibilità economiche di staccarsi dai genitori.

Le finalità della proposta sono ampie e di rilevanza strategica. Innanzitutto, “risarcire” i giovani, ovvero coloro che pagheranno a lungo termine gli effetti della crisi pandemica, dei sacrifici economici, fisici e psicologici affrontati in un anno e mezzo di chiusure e didattica a distanza. In secondo luogo, la dote costituirebbe un incentivo a proseguire la formazione o la carriera in Italia, cercando di contrastare i fenomeni della fuga di cervelli, che secondo il referto annuale della Corte dei Conti sul sistema universitario pubblicato il 25 maggio, dal 2013 al 2021 sarebbe cresciuta del 42%, e dei NEET, i giovani che non studiano, non si formano, né lavorano, classifica nella quale l’Italia è costantemente ai primi posti

Infine, last but not least, anzi, probabilmente si tratta della ragione che maggiormente giustifica e suffraga la proposta, la dote permetterebbe di compiere un altro passo nell’applicazione del sempre bistrattato art. 3 della Costituzione, una misura costruttrice di giustizia sociale.

La tassa di successione

La proposta, complessivamente, avrebbe un costo di circa 2,8 miliardi. Come finanziare tale somma? La risposta del segretario del Partito Democratico è sembrata una provocazione per una larga fetta della nostra classe politica, ormai incapace di trattare temi sociali, se non nel senso della distruzione di quanto ottenuto nel secolo scorso. Non saranno fondi concessi a debito – come invece accade secondo le formule di student loan molto in voga nei Paesi anglosassoni, forme di finanziamento, certo, ma pur sempre a carico dei giovani – bensì l’investimento sarà finanziato dall’1% più ricco della popolazione.

Ad oggi in Italia le tasse di successione sono tra le più basse in Europa, ma ci sono stati anche momenti peggiori: il governo Berlusconi II, il cui ministero dell’economia era retto da Giulio Tremonti, con la legge 383/2001 l’aveva addirittura eliminata, definendola una “odiosa e iniqua imposta”. Allo stato attuale la materia è disciplinata dal Testo Unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni (d. lgs. 346/1990) e dalla legge 286/2006 introdotta dal governo Prodi II, che ha reintrodotto la tassa di successione, ma mantenendola comunque ben al di sotto della media europea.

La tassa prevede diverse aliquote: un’aliquota del 4% sugli assi ereditari superiori a 1 milione di euro verso il coniuge e i parenti in linea retta; un’aliquota del 6% sugli assi ereditari superiori a 100 mila euro verso i fratelli e le sorelle; un’aliquota del 6% sugli assi ereditari verso gli altri parenti fino al quarto grado, senza franchigie; un’aliquota dell’8% sugli assi ereditari verso gli altri parenti oltre il quarto grado, senza franchigie. In cosa consiste, concretamente, la proposta? Letta ha parlato di incrementare la tassa di successione sui patrimoni e le donazioni superiori ai 5 milioni di euro, portandola al 20%.

Siamo forse prossimi a una rivoluzione bolscevica, come potrebbe sostenere qualcuno? Niente affatto, dal momento che negli altri Stati europei la tassazione sulle grandi eredità è molto più alta: laddove la nostra aliquota si ferma al 4%, in Germania è al 30%, in Spagna al 34%, nel Regno Unito al 40% e in Francia al 45%. E sicuramente i nostri vicini non sono Paesi bolscevichi. Questi dati dovrebbero farci riflettere, dal momento che il nostro Paese dalle tasse di successione ricava soltanto 429 milioni di euro ogni anno, mentre, per esempio, la Francia ne ricava 14 miliardi.

La destra e quello spassionato odio per i poveri

Chiaramente la reazione – in questo caso è bene richiamare il duplice significato di questo termine – non si è fatta attendere. Draghi e con lui la destra, sia quella dentro, sia quella fuori dal governo, hanno prontamente criticato la proposta, che dal premier è stata nettamente cassata.

Non è il momento di prendere soldi ai cittadini, ma di darli.

Mario Draghi

E di seguito Lega (“Mi stupisce che con tanti italiani in difficoltà ci siano Enrico Letta e il PD che pensano a nuove tasse”, Matteo Salvini), Fratelli d’Italia (“Bene Draghi sulla tassa di successione […]. Meno tasse e burocrazia, più libertà d’impresa: questo serve all’Italia per rialzarsi…”, Giorgia Meloni) e Forza Italia (“La tassa di successione è una tassa incivile”, Antonio Tajani).

Forse questi signori hanno chiuso gli occhi e si sono tappati le orecchie mentre venivano mostrati loro i dati sull’aumento della povertà assoluta, che nel 2021 colpisce ormai circa un cittadino su dieci, e sulla crescita della ricchezza dei ricchi italiani, come emerge dal rapporto Oxfam del 25 gennaio. Altre voci hanno criticato la mancanza di organicità e il presunto carattere estemporaneo della proposta, come ad esempio Alessandro Barbano, che ha definito la dote una “super-mancia elettorale”. Enrico Letta, tuttavia, ha sin da subito chiarito come la proposta si inserisca in una prossima e ampia riforma fiscale, fondata innanzitutto sul principio di progressività, su cui il segretario e il premier hanno già avuto modo di confrontarsi.

Dote o welfare?

Interessante in merito il punto sollevato da Mila Spicola in un articolo uscito il 24 maggio sull’Huffington Post. L’autrice, insegnante, pedagogista e scrittrice, si schiera in favore di un intervento dello Stato ai livelli più bassi dell’istruzione, attraverso la fornitura di servizi gratuiti e che raggiungano l’intera popolazione indistintamente, senza mettere in mano a ragazzi così giovani patrimoni che potrebbero non saper gestire. Ribadisce poi la necessità di investire affinché ogni bambino possa usufruire degli asili nido, che ad oggi riescono ad accogliere solo il 33% della domanda, e delle mense scolastiche, puntare su tempo pieno e servizi di doposcuola e recupero per gli studenti con difficoltà di apprendimento, senza lasciare tutto in mano a privati e terzo settore.

Uno stato sociale più robusto, in generale, che intervenga sin dai primi anni dello studente, dal momento che diversi studi dimostrano che prima si investe su uno studente, maggiore sarà il rendimento futuro. L’analisi di Spicola, in ogni caso, non esclude che l’introduzione della riforma propugnata dal segretario del Partito Democratico possa essere un importante strumento per ridurre le disuguaglianze che, sempre più evidenti, attanagliano il nostro Paese. Tuttavia, una vera politica di redistribuzione della ricchezza non può fondarsi sull’elargizione di ingenti quantità di fondi semplicemente prelevate da altre tasche: i prelievi sono sacrosanti, ma non possono limitarsi a un finanziamento estemporaneo.

Laddove si voglia ridurre le disuguaglianze nelle opportunità nel campo dell’istruzione, ossia consentire davvero a tutti di partire dalla stessa linea indipendentemente dalla famiglia in cui si è nati, bisognerà fare in modo che chi appartiene alle fasce meno abbienti della popolazione goda degli stessi servizi che spesso ad oggi può permettersi solo chi ha il portafogli più pieno. Questo significa partire dalle mense e dagli asili nido per arrivare a progetti di ampio respiro, come trasporti pubblici capillari, diffusione in ogni casa delle infrastrutture di rete, corsi di lingua finanziati dalle scuole e dalle università, moderazione dei prezzi degli affitti agli studenti fuorisede, riduzione delle tasse fino all’azzeramento in base al reddito, gratuità dei manuali e molto altro ancora.

Un’opportunità irripetibile

La dote, se mai diventerà realtà, non sarà certo la panacea di tutti i mali, ma costituirà sicuramente un’occasione per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, risarcendo le categorie più fragili e indebitate, ossia i giovani meno abbienti, di una frazione delle perdite cagionate dalla pandemia.

Un’occasione per far sì che, dall’altro lato, le categorie più avvantaggiate, i cui guadagni sono cresciuti nonostante il Covid, sostengano, almeno in parte, il peso di un sistema economico che tende ad allargare le differenze tra i cittadini piuttosto che ad appianarle, nonché il peso di una catastrofe globale che non ha affatto colpito tutti allo stesso modo.

Tommaso Malpensa

(In copertina Focus Scienza)

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