Ci sono Orban, Salvini, Meloni, Le Pen, e poi Kaczynski e Abascal, i leader delle destre europee tutti insieme nel Manifesto dei Sovranisti Europei.
È nei momenti di maggiore debolezza che occorre alzare la testa e mostrarsi forti e compatti all’esterno per poteri continuare ad esistere all’interno. I partiti della destra sovranista europea, dopo vicissitudini interne o in relazione ad elezioni fallite, decidono di tornare all’attacco e firmare il manifesto dei sovranisti europei. Le parole sono di Marine Le Pen, contro quell’Europa federale che ha tradito l’autonomia delle nazioni; le firme sono dei maggiori rappresentanti dei partiti di destra europei: la stessa Le Pen, Orban, Salvini, Meloni, il polacco Kaczynski e il leader spagnolo di Vox Santiago Abascal.
Famiglia e immigrazione
Al centro del progetto due parole chiave, “famiglia” e “immigrazione”. La crescita demografica è accompagnata all’idea della famiglia tradizionale, probabile antidoto all’immigrazione di massa verso quell’Europa che cresce sempre meno, anche in questo ambito. Parole che già rimbombavano nelle campagne elettorali dei leader sovranisti e che a quanto pare sono rappresentative della fascia di elettorato che essi rappresentano; parole effettivamente collanti per una coalizione, ancora non politica, che sarebbe altrimenti traballante.
Ma i rimandi alle difficoltà che un gruppo parlamentare europeo vero e proprio incontrerebbe si sprecano. Partiamo da casa nostra, da Matteo Salvini, statista pro-Atlantico un giorno, uomo forte al fianco degli uomini forti il giorno dopo; uno dei maggiori sostenitori del governo Draghi, il contrario dell’idea di Europa presente nel manifesto sovranista. Altro punto di rottura sono i diversi rapporti con Paesi extra-comunitari e con la Russia in particolare. Infatti, non è un segreto che Putin abbia in questi anni compiuto un lavoro molto attento di rottura tra Paesi, mirata ad un’Europa più debole.
Ciò è stato permesso grazie alla salda alleanza politica con i partiti emergenti dell’estrema destra europea e addirittura grazie a finanziamenti di banche. Milioni di euro giunti nelle casse dei partiti. Ci si riferisce al Russiagate e ai finanziamenti illeciti intessuti da Savoini per conto della Lega. Non in una posizione dissimile Marine Le Pen che, dopo la crescita ottenuta nelle presidenziali francesi del 2017, ha potuto ricevuto supporto politico ed economico da Putin. La linea sembra essere la medesima: più crescono i partiti sovranisti, più l’Europa, potenza politica, economica e commerciale, si indebolisce.
Le reazioni
A questo punto, è lecito domandarsi come possano la Lega e il Rassemblement National di Le Pen coalizzarsi con chi, come la Polonia, e soprattutto il partito sovranista guidato da Kaczynski combattono ogni giorno contro le ingerenze di Mosca.
Ancora, secondo il presidente del Partito Popolare Europeo Weber, i nazionalisti, per loro stessa natura, non riusciranno a coalizzarsi, perché non può esistere un’unione di sovranisti, per la contradizion che nol consente. Addirittura, secondo l’europarlamentare francese Séjourné, il manifesto è un’ammissione di debolezza. Mentre, a casa nostra, Letta incalza Salvini sull’impossibilità di essere con il governo Draghi e con l’asse sovranista.
Queste voci, che ovviamente vengono dagli ambienti d’opposizione, sia essa popolare o socialista, sono scettiche riguardo alla compattezza del gruppo parlamentare che si potrebbe creare e soprattutto trovano come critica comune le difficoltà a cui i leader di tali partiti sono chiamati a sopperire.
I protagonisti
- Madame Le Pen. Figlia del novantenne Jean-Marie, ereditaria del partito, beneficiaria di una base elettorale più o meno stabile su cui fare affidamento e stretta nel giogo ultraconservatore. È lei, a meno di un anno dalle presidenziali, a subire una durissima sconfitta nelle elezioni dipartimentali, che hanno visto l’insuccesso del suo partito in ogni lista e la ripresa del partito repubblicano ancora vivo dopo le sconfitte politiche, la fine dell’era Sarkozy e le inchieste derivate dalla sua campagna elettorale.
- Giorgia Meloni. Secondo alcuni sondaggi il partito più popolare d’Italia, unica tra i grandi partiti all’opposizione. Cresciuta molto in questi mesi di governo Draghi, è la principale responsabile del lento tracollo, in termini di popolarità, di Salvini e della Lega. Il seggio all’opposizione è stato, da questo punto di vista, una mossa vincente, ma è ancora lontana dal ruolo di leader del centro-destra che tanto vorrebbe e ancora di più dall’ottenere un ruolo esecutivo in Italia e in Europa.
- Viktor Orban. Volto ormai noto nella costellazione di ultradestra, è riuscito a portare un nuovo modello politico in Ungheria. Una nazione pronta a negare progressivamente alcuni dei diritti fondamentali in cui l’Europa si riconosce. Paese membro dell’Unione, in piena lotta di genere, l’Ungheria ha promulgato la legge contro la pedofilia, a causa della quale sono interdetti programmi televisivi o contenuti social che propongano esempi positivi del mondo LGBT+ dopo una certa ora. Sembra banale dire che Orban non ha nessuna intenzione di uscire dall’Europa: l’Ungheria è una delle massime beneficiarie dei fondi europei.
- Matteo Salvini. Primo a vantare i successi del governo Draghi e della cosiddetta maggioranza Ursula, ora firmatario di ideologie antieuropee. Secondo alcuni osservatori esteri, sarebbe lui il punto di rottura, l’ostacolo che non permetterebbe la formazione di un nuovo gruppo parlamentare europeo, almeno fino a quando sarà nel governo di quasi intesa nazionale. Ostacolato in maggioranza dalle accuse continue di Letta, spalleggiato in coalizione da una Meloni in rapida crescita, con l’ombra perenne di chi, nel suo stesso partito, è realmente portatore degli interessi del nord, in Italia e in Europa, come Zaia e Giorgetti; sì, anche Matteo Salvini è in gran difficoltà.
Il manifesto è davvero un pericolo?
La pubblicazione di un manifesto del genere può portare a due conclusioni distinte. La prima sfocia nella conseguenza iterata del cosiddetto populismo di sinistra, erede della sottocultura fascista in Italia e in Europa non meno del fratello di destra. Tale conclusione vede l’unione dei partiti di destra e di estrema destra come la coalizione dei cattivi, volta a riportare L’Europa nella paura. La seconda, al contrario, guarda con ammirazione la vicenda, a favore di un progetto in forte opposizione ai risultati che l’Europa vuole ottenere, ponendo uno sguardo continuamente accusatorio nei confronti della commissione, responsabile del fallimento economico, politico, demografico e migratorio dei singoli Stati.
Lontano dai due eccessi, è una coalizione, non ancora politica, ma soltanto ideologica, di chi vuole finalmente uscire dai confini nazionali, unendosi a chi provava diffidenza nei confronti del vicino europeo. Ma è una coalizione che, dovesse espandersi in parlamento europeo, creerebbe non poche difficoltà all’establishment popolare.
Alessandro Bitondo