Marco Omizzolo è sociologo Eurispes e docente all’Università de “La Sapienza” a Roma. È tra i ricercatori italiani più competenti in tema di caporalato e di sfruttamento dei lavoratori: nato a Sezze nel 1975, da sempre vive a Sabaudia. Concluse le superiori, decide di iscriversi prima alla facoltà di giurisprudenza, dove si cimenta per tre anni con buoni risultati, per poi cambiare e dedicarsi al suo vero interesse: la sociologia.
Dopo essersi laureato con lode, consegue un dottorato di ricerca all’Università di Firenze con una tesi sulle migrazioni internazionali e uno studio di caso empirico sulla comunità sikh pontina attraverso la cosiddetta “osservazione partecipata”: ha vissuto da infiltrato nella campagna pontina come bracciante, è stato sotto caporale indiano e ha perfino seguito un trafficante di esseri umani in Punjab (India).
Oggi collabora con varie testate giornalistiche e riviste scientifiche ed è autore di numerosi libri l’ultimo dei quali è intitolato Sotto padrone. Nel 2018 il Presidente della Repubblica lo nomina Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
Io ho avuto l’onore di ascoltarlo per la prima volta durante un seminario tenuto per l’Università di Firenze riguardante lo sfruttamento dei lavoratori. Fin da subito sono rimasto colpito ed attratto dal suo racconto, dalla sua storia. Un’esperienza che ho voluto fortemente approfondire e che ho avuto l’opportunità di fare lo scorso giovedì 17 giugno.
Alessandro Sorrenti
Come mai al terzo anno di giurisprudenza, pur avendo buoni risultati, decide di dedicarsi a sociologia?
Per me l’iscrizione all’università è stata una conquista, non una decisione facile. Da sempre sono stato interessato ai temi sociali e filosofici prima ancora che giuridici, ma per ragioni diverse decisi di iscrivermi alla facoltà di giurisprudenza de La Sapienza che all’epoca presentava un modello molto rigido, non in comunione con il mio approccio.
A quei tempi era consentito sostenere due esami fuori facoltà e io scelsi sociologia. Qui, rimasi affascinato dal metodo dei docenti che era frontale e diretto. Fui colpito, in particolare, dall’esame di una studentessa, che aveva elaborato una particolare visione di un certo fenomeno a cui la docente rispose: “io non sono d’accordo esattamente con quello che lei dice, ma quello che lei sostiene ha un significato e quindi per me la sua risposta è corretta”. Questa situazione non si era mai verificata alla facoltà di giurisprudenza dove bisognava tendenzialmente tenere la posizione della tesi del professore senza sviluppare un’opinione critica.
Ho respirato in sociologia un’aria diversa che mi dava gli strumenti adeguati per studiare le complessità dei fenomeni sociali che mi hanno sempre interessato. Ho comunque continuato ad amare la giurisprudenza: non ho rifiutato giurisprudenza per sociologia, ma ho scelto sociologia conservando le esperienze e le nozioni giuridiche maturate in quei tre anni.
Il fenomeno migratorio ha contraddistinto la sua vita: come mai questo tema l’ha colpita più di altri?
Io vinsi due concorsi di dottorato: uno a Roma e uno a Firenze. Scelsi Firenze per un motivo pragmatico ed economico fondamentale: lì avevo ottenuto la borsa di studio. A Firenze era presente una forte tradizione di studi sulle migrazioni dai quali preferivo restare distante perché amavo ancora molto di più un approccio filosofico-sociologico, tant’è che la mia prima proposta di tesi fu sul concetto di classe in Weber e in Marx. Il mio docente mi disse di riflettere su questa scelta perché praticata da molti studenti e di concentrarmi sul tema delle migrazioni perché più originale. Esisteva una comunità indiana della quale parlavo già all’epoca e, pertanto, seguii quel consiglio. Oggi, analizzando meglio la mia storia personale, ho compreso perché accettai senza obiezioni quel cambio di direzione.
Io vengo da una famiglia con una storia particolare: mio nonno (da parte materna) è stato costretto a vivere l’esperienza drammatica dei campi di lavoro forzato nazisti in Tunisia. Sempre mio nonno e mia madre hanno trascorso tre anni nei campi profughi in Italia. Da parte di padre, la mia famiglia è originaria del Veneto e di matrice socialista: anch’essa ha vissuto momenti di tortura e di discriminazione grave per via della sua appartenenza politica. Quindi, il tema della costrizione e della violazione dei diritti fondamentali è insito nel patrimonio genetico della mia famiglia.
Tutto questo ha impastato la mia infanzia, la mia adolescenza, i racconti che ho ascoltato. Tutto questo mi ha spinto ad approfondire il fenomeno migratorio in modo originale e cioè accostando l’approccio tradizionale della ricerca sociale alla ricerca-azione, che è una pratica di indagine antica e allo stesso tempo nuova perché in questo Paese è ormai dimenticata da molti anni.
Il fenomeno migratorio è strettamente connesso con il tema del caporalato. Come si è evoluto questo mondo durante la pandemia?
Parto dai numeri che sono quelli ufficiali elaborati dall’Osservatorio Placido Rizzotto (Osservatorio Placido Rizzotto | FLAI CGIL) e dall’Eurispes (Eurispes – L’Istituto di Ricerca degli italiani). In Italia (solo nel settore agricolo a livello annuale) abbiamo circa 450mila persone che vivono forme varie di sfruttamento lavorativo e di disagio abitativo. Di queste, circa 180mila vivono forme di grave sfruttamento (dati aggiornati al 2020), mentre nel 2018 erano circa 140mila: in due anni si è registrato un aumento di 40mila unità. Quindi notiamo una crescita che esprime il peggioramento delle condizioni tradizionalmente osservate. L’80% di queste 180mila persone è rappresentato da migranti, mentre il 20% sono italiani. Il business complessivo delle agromafie secondo l’Eurispes è di circa 26 miliardi di euro. Tutto questo solo con riferimento al settore agricolo e in un arco temporale che è di solo due anni.
La pandemia ha prodotto un processo duplice: il peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita e, nel contempo, la sofisticazione del fenomeno. Durante il primo lockdown, assieme a Tempi Moderni (Tempi Moderni (tempi-moderni.net)), abbiamo compiuto uno studio dovuto al fatto che la filiera agricola, durante quel periodo, era uno dei pochi settori che continuava a produrre: mentre noi eravamo in casa al sicuro, lavoratori e lavoratrici agricoli (soprattutto migranti) erano oltremodo impiegati. Il nostro Paese da una parte applaudiva pubblicamente i lavoratori impiegati in quella filiera, e dall’altra si dimenticava che contemporaneamente venivano sospesi i controlli: non venivano più mandati gli ispettori a verificare cosa accadesse in quei campi agricoli. Infatti, in quei mesi alcune imprese hanno pensato di essere indenni da attività di controllo e noi abbiamo registrato un peggioramento delle condizioni di lavoro.
Le retribuzioni sono diminuite dal 15 al 30% ed è aumentato il lavoro notturno del 30%. Inoltre, si è evidenziata una diminuzione delle condizioni di sicurezza nell’ambito lavorativo: si lavorava spesso senza distanziamento sociale e senza mascherine che, tra le altre cose, i lavoratori erano costretti a comprare autonomamente. Si consideri che una mascherina per un bracciante viene cambiata almeno tre volte al giorno tra sudore, polvere e altro. Può sembrare banale, ma spendere anche 7-8 euro al giorno è una spesa considerevole per chi ne guadagna appena 600 al mese.
Inoltre, sono diminuite le pause di lavoro, a volte a soli 15 minuti, e questo ha significato un aumento dell’intensità di lavoro. Abbiamo registrato un aumento degli infortuni sul luogo di lavoro e, cosa poco nota ma assai importante, una diminuzione delle vertenze: lavoratori e lavoratrici migranti hanno denunciato meno, non tanto perché il sistema pubblico non abbia recepito le loro denunce, bensì perché quei lavoratori hanno fatto esperienza di una priorità che il paese dava agli italiani e si sono considerati gli ultimi della fila. Tutta la comunicazione istituzionale era fatta in un linguaggio burocratico e così il migrante straniero ha inteso che il paese non parlava a lui, ma parlava agli autoctoni, facendogli intendere che qualunque azione rivendicativa fosse inutile.
Di conseguenza, abbiamo registrato un peggioramento evidente e una sofisticazione ulteriore dei processi di reclutamento illecito e di sfruttamento: ce lo dimostrano il recente dato Istat rispetto al livello di povertà assoluta degli stranieri a livello nazionale (Le statistiche dell’Istat sulla povertà_Anno 2020–> pagina 1 e pagina 5), così come l’aumento degli infortuni sul lavoro.
Cosa dovrebbe fare lo Stato per portare i lavoratori a denunciare maggiormente?
Io credo che sia necessaria la riforma del diritto di cittadinanza. Ciò che manca in questo Paese è la tutela della persona che denuncia attraverso un percorso protetto che gli permetta di non subire un’esposizione eccessiva conseguente alla sua denuncia. Assieme a questo, bisogna costruire un percorso di sostegno psicologico: alle volte questi individui hanno alle spalle lunghi anni di violenze e sono masticati dal caporalato e dallo sfruttamento. In questo senso noi, come Stato, non facciamo niente.
Inoltre, è necessario inserire un percorso di riqualificazione di quella persona perché possa ritrovare un’occupazione reale e legale negli ambiti di sua competenza. In genere, si pensa che un bracciante migrante che denuncia debba successivamente fare il bracciante in una condizione di regolarità contrattuale presso un’altra azienda. Tuttavia, quel soggetto potrebbe aver chiesto di fare un altro lavoro: non è detto che un bracciante immigrato debba restare tale anche dopo la denuncia. Noi invece tendiamo a costringerlo dentro quest’appartenenza e questo è un altro limite: i progetti di formazione professionale dovrebbero aiutare queste persone ad uscire da una condizione particolarmente faticosa e rischiosa quale quella del bracciantato, per andare a svolgere altre attività.
Quindi, ciò che deve fare lo Stato, oltre all’implementazione della legge più importante che abbiamo in materia di caporalato che è la legge 199/ 2016 (Il contrasto al caporalato nella legge n. 199 del 2016 (camera.it), è quello di costruire percorsi di tutela e di riqualificazione alternativi rispetto a quelli che fino ad ora abbiamo messo in campo. Manca un quadro generale e più avanzato rispetto a quello attuale.
La legge 199/2016 è da intendere come l’inizio di un percorso intrapreso dallo Stato oppure no?
La legge 199 prende vita nel novembre del 2016 da due fatti: la morte di Paola Clemente nel 2015 e poi, nell’aprile del 2016, lo sciopero dei braccianti indiani che noi abbiamo organizzato.
Io ho avuto l’onore di contribuire alla scrittura di questa normativa coinvolgendo direttamente lavoratori migranti e chiedendo loro cosa fosse necessario per arrestare questo processo. Le loro risposte sono state molteplici e una di queste riguardava la responsabilità penale nei confronti del datore di lavoro, poi inclusa nell’articolo 603-bis del codice penale (Art. 603 bis codice penale – Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro – Brocardi.it). L’articolo 603-bis è una norma assolutamente importante e, non a caso, l’ex Ministro dell’interno e l’ex Ministro dell’agricoltura in una delle loro prime dichiarazioni dissero che quella norma andava cambiata.
L’importanza dell’articolo 603-bis si può spiegare attraverso un esempio: prima del 2016 non c’erano processi contro caporali e imprenditori criminali, dopo la sua introduzione io stesso ho accompagnato oltre 100 lavoratori e lavoratrici migranti a presentare le loro denunce. Oggi ci sono circa 80 processi aperti, nonché numerose operazioni delle Forze dell’Ordine figlie proprio di quella norma.
Tutto questo, però, non risulta sufficiente, perché la prima domanda che ci rivolge un migrante è la seguente: “io dopo cosa faccio? Tra una settimana non potrò più lavorare presso quell’azienda che diffonderà il mio nome ai proprietari di altre aziende e io non troverò lavoro più da nessuna altra parte. Voi, cosa mi garantite?”. Ecco, fintanto che non sapremo rispondere a questa domanda, tenderemo sempre a rincorrere il problema e non ad anticiparlo e a risolverlo.
Questa è una storia collettiva e non soltanto la sua: durante questo percorso si è mai sentito solo?
Solo in senso pieno no, in ragione del fatto che ho sempre avuto al mio fianco quegli uomini e quelle donne che insieme a me hanno intrapreso un percorso di emancipazione e di denuncia. Gli sfruttati, gli emarginati, i dannati della terra (riprendendo le parole di Frantz Fanon) hanno sempre mantenuto con me un rapporto molto stretto e intenso.
Talvolta, mi sono sentito solo e abbandonato dalle istituzioni. L’esempio che riporto nel mio ultimo libro (Sotto padrone, Feltrinelli, 2019 ndr.) è ciò che mi disse il prefetto di Latina circa dieci anni fa quando gli presentai i primi risultati della mia ricerca: “signor Omizzolo, noi gli indiani li vediamo solo nei film di John Wayne“, facendomi intendere che loro non si volevano interessare di questa tematica.
Talvolta, mi sono sentito solo e abbandonato da alcuni italiani, che ancora oggi amano ascoltare e applaudire, ma poi non si organizzano. Molti connazionali continuano a girarsi dall’altra parte, cercando di lavare le loro coscienze applaudendomi in alcuni convegni pubblici. Non è quello di cui abbiamo bisogno, quelle che ci servono sono le alternative reali, altrimenti questo sistema non si cambia.
Cosa si aspetta dal futuro?
Fino a qualche tempo fa mi sarei aspettato dal futuro di continuare a lottare per i diritti democratici. Io continuo a dire che dove c’è sfruttamento non c’è democrazia, perché vengono violati i diritti fondamentali degli individui.
Seguo dei casi di persone sfruttate per anni e riconosciute come schiavi dal tribunale di Latina: ovunque esiste la schiavitù non si può parlare di democrazia. Uomini e donne obbligati a vivere dentro una roulotte, minacciati con le pistole, picchiati… continuo a pensare che questa sia una battaglia per la democrazia e non solo di alcuni per alcuni e neanche solo ideologica.
Oggi sono più attento a celebrare un futuro positivo perché non vedo a livello istituzionale una presa in carico di questa complessità. Questo evidenzia quanto conti poco il tema per lo Stato italiano. Vedete, noi possiamo continuare a lottare contro padroni e padrini, ma se dall’altra parte ti trovi uno Stato che si definisce democratico e fondato sul lavoro e non mette temi del genere al centro della propria agenda… questo lascia pensare molto.
Cosa si sente di dire ai giovani?
Ai giovani dico di iniziare un percorso che deve restare di studio e di ricerca, perché nella mia esperienza la ricerca e la metodologia sono risultati fondamentali, ma al contempo dico loro di non abbandonare la speranza perché davvero credo che il presente – e non il futuro – sia dato dai comportamenti di tutti noi. Se costruiamo una nuova cittadinanza fatta di persone che mettono al centro il tema del lavoro e dei diritti fondamentali, qualcosa può cambiare. Continuo a pensare che siano i giovani a dover fare un atto rivoluzionario, oggi più di ieri, costruendo relazioni orizzontali con chi vive nella marginalità. Ai miei studenti dico: “Studiate, ma attraversate anche i territori e andate ad incontrare chi, in quei territori, vive nell’ombra. Costruite uno sguardo orizzontale, ascoltate le loro storie e poi decidete che vita volete vivere“.
Per approfondire: L’Italia del lavoro in nero, cinque storie di sfruttamento (un articolo di Alessandro Fabbri)
Intervista a cura di Alessandro Sorrenti