La Corte costituzionale italiana si è di recente pronunciata sull’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo. Ma la questione, lungi dall’essere risolta, è molto più complessa di quanto sembra.
“L’ergastolo ostativo è incompatibile con la Costituzione”
Il 15 aprile scorso, la Corte costituzionale ha preso una decisione molto chiara riguardo all’ergastolo ostativo. Ritenuto a più riprese disumano e barbaro soprattutto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, l’ergastolo ostativo (così chiamato perché impedisce la concessione di qualunque beneficio penitenziario) è stato oggetto negli anni di discussioni politiche, sociali, filosofiche e giuridiche accese, che sembrano aver trovato un loro epilogo in queste parole:
L’ergastolo ostativo è incostituzionale, poiché contrario ai principi costituzionali ed europei dei diritti dell’uomo.
Corte costituzionale
Si chiude così una lunga parentesi legislativa cominciata nel 1992, quando l’ergastolo ostativo (per cui si veda D.L. 306/1992, convertito in L. 356/1992) costituiva una reazione dello Stato nei confronti del fenomeno mafioso.
Ma la questione non finisce qui: la Corte costituzionale infatti ha preso la suddetta decisione rinviando al legislatore, il che significa: “l’ergastolo ostativo è sì contro li principi costituzionali, ma il Parlamento ha tempo fino a maggio 2022 per intervenire a livello legislativo”. Per cui, solo in caso di inerzia dei parlamentari, e quindi in mancanza di una riforma dell’attuale disciplina, la norma vigente decadrà. La scelta è abbastanza singolare, soprattutto se guardiamo all’art. 136 della Costituzione che afferma: “quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di un atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”. Non dopo maggio 2022, s’intende.
E poi, se i metodi di trattamento sono veramente “disumani” (come la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sostenuto a più riprese), perché non agire immediatamente? Perché aspettare un anno? Perché lasciare Esseri Umani alla mercé di un sistema lento e abulico? Se questo da un lato può essere il pensiero di alcuni, dall’altro è anche vero che siamo di fronte a una tematica assai complessa, che vede in ballo diverse promesse fatte dall’attuale governo in tema di “riforma della giustizia” che devono essere mantenute.
Infine, non dobbiamo mai dimenticarci il motivo per cui questo provvedimento è stato apposto: combattere contro un sistema viscido, sporco e infame, ma assolutamente organizzato e diffuso su tutto il territorio, come quello mafioso.
Articoli 4-bis e 41-bis: ergastolo ostativo e carcere duro
Ciò premesso, andiamo ad analizzare le fattispecie. Per chiarire subito un aspetto centrale della tematica che ci accingiamo ad analizzare, dobbiamo dire che gli articoli che prenderemo in esame sono il 4-bis e il 41-bis, entrambi inseriti nella Legge sull’ordinamento penitenziario (L. 354/1975) dalla legge Gozzini (L. 663/1986). Leggi ed articoli a parte, l’importante è avere chiaro che questi provvedimenti rappresentano le colonne portanti dell’apparato repressivo che lo Stato ha dispiegato – a partire dagli anni ’80 – contro le organizzazioni criminali.
L’articolo 4-bis caratterizza proprio quello che viene definito ergastolo “ostativo”, perché impedisce l’accesso ad alcuni benefici di legge (come lavoro all’esterno o detenzione domiciliare), mentre l’art. 41-bis caratterizza quello che giornali e televisione definiscono “carcere duro” poiché, oltre a escludere qualsiasi beneficio, sospende anche le ordinarie regole previste per il trattamento penitenziario.
I giudici della Corte costituzionale si sono pronunciati, evidenziando la contrarietà di suddetti provvedimenti al netto degli articoli 3 e 27 della Costituzione e dell’articolo 3 della CEDU. Con riguardo all’articolo 3 della Costituzione, lo scontro è previsto, innanzitutto, sul piano dell’eguaglianza: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge […]” e ciò per i giudici non sembra trovare spazio in tale regime di detenzione. Inoltre, l’articolo 3 va letto assieme con l’articolo 27 della Costituzione per quanto attiene alla rieducazione del reo. Infatti, l’articolo 27 al comma terzo afferma: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Per quanto compete, invece, al lato europeo, l’articolo 3 della CEDU, afferma: “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Sulla base di questi motivi, già nel 2019, la Corte di Strasburgo nel caso Marcello Viola VS Italia aveva affermato che la pena deve sempre mirare alla rieducazione del reo e che proibire ad un soggetto di essere reintrodotto alla vita in società è contrario al principio di dignità umana.
Possiamo affermare, senza tema di smentita, che la recente decisione della Corte costituzionale italiana sia dettata proprio da un forte respiro europeo, volto a riconoscere più diritti e libertà anche coloro che, nel percorso della loro vita, hanno compiuto alcuni tra i delitti più efferati.
Il retroterra legislativo. L’articolo 90 dell’ordinamento penitenziario
Facciamo qualche passo indietro e puntiamo i riflettori sulla storia che avvolge questa complessa tematica. Prima dell’arrivo del 41-bis, in Italia, vigeva una norma utile esclusivamente in estremi casi di emergenza: si trattava dell’articolo 90 dell’ordinamento penitenziario. Questo articolo permetteva al Ministro della Giustizia di riconsiderare, davanti a gravi motivi, delle regole di trattamento specifiche nei confronti di un detenuto: i criminali più pericolosi potevano essere trasferiti in penitenziari appositi ricevendo anche gravose limitazioni dei loro diritti.
Tra queste restrizioni ricordiamo:
- il divieto di organizzare attività culturali, ricreative e sportive;
- l’impossibilità di conversare con i familiari in visita, se non attraverso una lastra di vetro;
- il divieto di fare telefonate;
- la riduzione dell’ora d’aria, quindi di permanenza all’aperto fuori dalla cella.
Tuttavia, tale articolo non veniva utilizzato come strumento speciale, ma se ne abusava al fine di affrontare le ordinarie esigenze di sicurezza delle sovraffolate carceri italiane. Queste incongruenze pratiche vennero superate con l’inserimento della prima formulazione dell’articolo 41-bis, con la cosiddetta legge Gozzini (n. 663/1986). In realtà, il dispositivo dell’art. 41-bis non si distanziava molto dall’articolo 90, ma semplicemente chiariva in maniera più dettagliata i presupposti necessari per poter procedere con le suddette limitazioni da parte del Ministro della giustizia.
Con la legge Gozzini venne introdotto anche il già citato art. 4-bis che prevedeva la concessione di benefici in maniera premiale, allentando notevolmente le strette che si volevano introdurre nei confronti dei criminali. Divenne pertanto necessario inasprire questo tipo di detenzione e questo fu l’obiettivo principale di tutto il pool-antimafia di Palermo, capitanato dai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Con varie richieste e con forti spinte sociali, arrivò l’introduzione del “carcere duro” per i mafiosi con il decreto-legge 8 giugno 1992, n. 356. Tuttavia, nonostante la strage di Capaci (23 maggio 1992) fosse una ferita ancora aperta, il Parlamento non era incline nel convertire in legge il suddetto provvedimento. Nel frattempo arrivò un’altra bomba, altri morti: il 19 luglio 1992 si ebbe la strage di Via D’Amelio, in cui persero la vita il giudice Borsellino e gli uomini della sua scorta. E così, mosso da una forte e rabbiosa spinta sociale, il Parlamento decise finalmente di introdurre le modifiche all’art.41-bis: ciò avvenne il 7 agosto 1992, negli ultimi giorni disponibili per la sua adozione.
Il dispositivo degli articoli 4-bis e 41-bis
L’articolo 4-bis è la previsione legale che definisce il “divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti”. Nello specifico, il comma 1 pone la collaborazione con la giustizia come unica e sola condizione per l’ottenimento di benefici, quali lavoro all’esterno, permessi premio e altre misure alternative alla detenzione, restando esclusa la liberazione anticipata. Questi diritti possono essere concessi ai detenuti che abbiano commesso reati “per finalità di terrorismo […] o di eversione dell’ordine democratico”, per associazione di stampo mafioso o per scambio elettorale politico-mafioso. Il successivo comma 1-bis aggiunge che devono altresì emergere elementi che escludano ogni tipo di legame persistente tra il reo e l’organizzazione criminale, terroristica o eversiva di cui faceva parte, per conseguire i suddetti diritti.
Per quanto concerne, invece, l’articolo 41-bis, l’idea primigenia era quella di conferire al Ministro della Giustizia, in caso di situazioni di gravi situazioni nelle carceri, poteri speciali per sospendere le normali regole penitenziarie. È, tuttavia, nel secondo comma – introdotto dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio – che risiede il nocciolo della questione: è previsto che il Ministro della Giustizia abbia la facoltà di sospendere, per i detenuti “più pericolosi”, l’applicazione delle ordinarie misure di trattamento. Questa sospensione è decretata dal Ministro della Giustizia in collaborazione con numerose altre figure istituzionali come il Ministro dell’Interno, determinando così una centralizzazione del potere. Il provvedimento dura quattro anni e prevede proroghe biennali qualora fosse possibile dimostrare la sussistenza perdurante dei legami con la malavita.
Inoltre, l’articolo descrive una serie di prassi detentive straordinarie che hanno portato l’opinione pubblica a considerarlo espressione del “carcere duro”. Esso dispone, infatti, l’isolamento dei detenuti in istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, separati dal resto dell’amministrazione penitenziaria locale e soggetti a misure di elevata sicurezza interna ed esterna, onde evitare ogni sorta di contatto fisico. Si prevede parimenti che i colloqui concessi al detenuto siano uno al mese, controllati e riservati esclusivamente a familiari e conviventi.
Si tratta di un modello di legislazione che ha come fine ultimo la repressione della criminalità organizzata e funge anche da strumento di tipo investigativo, per contrastare le più importanti organizzazioni criminali su uno dei terreni assolutamente essenziali per la loro stessa sussistenza: quello della comunicazione. Possiamo dire che il regime del 41-bis determina la riduzione massima della libertà inviolabile del singolo. Oltre il 41-bis non c’è più nulla, costituisce la frontiera più avanzata dell’intervento punitivo dello Stato, con una totale inibizione di ogni facoltà non essenziale di comunicazione, giustificata dal fatto che la stessa comunicazione è, nel caso di questi detenuti, parte integrante del proprio agire criminale.
Testimonianze di alcuni detenuti al regime del 41-bis
Secondo i dati forniti dal Ministero della Giustizia, nel 2020 i detenuti al regime del 41-bis erano 759.
Noi crediamo che, al fine di comprendere meglio il tema, sia importante trasferire norme e disposizioni su un piano reale, fatto di persone.
“Il primo effetto è la depressione che implica varie patologie allo stato mentale, come suicidio, insonnia, disturbi alimentari. Il 41-bis ti causa l’allontanamento dai propri familiari, la chiusura in te stesso e la riduzione della memoria: è come essere in uno stato di abbandono. Per colmare questi malesseri, si ricorre agli psicofarmaci che prima ti danno un senso di benessere, poi ti danno assuefazione, ed entri in un tunnel dal quale è difficile poterne uscire, se non lesionato gravemente. Nel regime di tortura del 41 bis i detenuti hanno una incidenza al suicidio 19 volte maggiore rispetto agli altri regimi, ma il ministero nasconde tutto come fosse un segreto di Stato, perché devono nascondere le nefandezze che si commettono in nome della legalità che loro stessi violano”.
“Non c’è nessun fine rieducativo, né tantomeno migliorativo della personalità. Credo che se leghi un cane a una catena e lo bastoni tutti i giorni, vorrei vedere se ne uscirebbe migliorato o rieducato. L’unica finalità del sistema è la repressione e l’annientamento dei detenuti. Non ci sono altri fini. Il 41-bis di oggi è peggiorato perché è più scientifico, come i centri di detenzione psichiatrici dell’era sovietica, dove l’unico scopo era distruggere la personalità e annichilire il pensiero con l’isolamento totale. Secondo te la tortura può migliorare una persona? Soffrivamo la fame, la sete, il freddo. Avevamo una sola bottiglia d’acqua che dovevamo usare anche per lavarci i denti, perché l’acqua del rubinetto era sporca ed era piena di terreno, di vermi e altro. Solo due ore d’aria al giorno; per il resto 22 ore al giorno chiusi in cella”.
Conclusione
Parlare di queste norme non è assolutamente facile né banale, soprattutto in un Paese come il nostro dove queste tematiche sono spesso sollecitate. Ad ogni modo, ci sembrava opportuno prendere in considerazione una decisione così ambigua da parte della Corte costituzionale.
Abbiamo cercato di spiegare – in generale – ciò che l’ergastolo ostativo rappresenta e i contenuti che esso prevede, riportando anche alcune dichiarazioni che qualche detenuto ha rilasciato al fine di dare una connotazione materiale alla fattispecie. Del resto, è anche su questi propositi che si poggia la recente pronuncia di incostituzionalità.
Ovviamente l’argomento pretende di essere ulteriormente approfondito e per questo rimandiamo alla volontà e all’interesse del lettore medesimo, ma dal canto nostro non possiamo concludere la trattazione senza prendere una netta posizione. Per noi, tale regime di detenzione è l’unico possibile per combattere associazioni criminali altamente –e sottolineiamo, altamente – organizzate come quella di stampo mafioso. Purtroppo su questo punto non si fa molta chiarezza, ma siamo davanti a fenomeni assolutamente strutturati, incredibilmente ricchi e diffusi in tutto il mondo, perciò prevedere misure più alleggerite sarebbe come affrontare una finale di Champions League giocando con le riserve.
Il fenomeno mafioso è fortemente radicato nel nostro territorio e talvolta è anche capitato che queste misure, seppur rigidissime, abbiano fatto trapelare affermazioni da parte dei detenuti, non ultima nel 2014 quelle di Totò Riina nei confronti del giudice Di Matteo (“gliela faccio finire peggio del giudice Falcone”).
Pertanto, sarebbe un errore enorme alleggerire, semplificare, ammorbidire queste restrizioni a nome di un’ Europa che considera la malavita come un problema squisitamente italiano, senza accorgersi che negli anni ha assunto una caratura internazionale.
Iacopo Brini, Antonio Mazzotta, Alessandro Sorrenti
(In copertina e nel testo immagini da Unsplash)