Ogni bibliofilo che si rispetti conosce quella sensazione. Entri in libreria e lo spirito si svuota per accogliere vibrazioni divine, κένωσις (kenosis) dicevano i greci. Sfili davanti ai banconi passando la punta delle dita sui dorsi dei volumi. Li senti al tatto mentre chiudi gli occhi e inspiri il loro profumo. È quel senso di abbandono che si prova davanti a qualcosa di sublime…
Questa è una storia d’amore, quella che ogni lettore stringe con i libri. Martin Latham, uno dei librai più divertenti che mai vi capiterà di incontrare, ci fa da Cicerone nell’intrico delle sue pagine: insieme a lui svoltiamo angoli, saliamo scale, sediamo su poltrone di pelle consunte, e apprendiamo quello che abbiamo fatto per questi oggetti di carta che tanto hanno cambiato le nostre vite. I racconti del libraio (Rizzoli, 2021) è una raccolta di aneddoti e storie, un vero scrigno magico per tutti i lettori curiosi. Il saggio, uscito quest’anno a ridosso della giornata mondiale del libro e del diritto d’autore, conduce a un’inevitabile riflessione sul nostro legame antropologico con le storie.
Il richiamo della foresta
Da dove nasce questo legame con l’oggetto libro? Quando interagiamo con il nostro cellulare, o con il computer o anche con un ebook, non proviamo la stessa passione. Sono oggetti freddi, distanti, impersonali. Il libro invece ci parla direttamente, è un oggetto caldo, pretende un dialogo. Siamo entrambi materia organica e come tale abbiamo una connessione speciale, che deriva da qualcosa di più profondo.
Essendo fatto di carta, il libro rimanda al nostro legame con la foresta, da sempre luogo simbolico. La selva è irrazionalità e caos – groviglio di direzioni, labirinto e specchio del nostro inconscio – mentre lo spazio urbano è ordine. Tuttavia, ogni luogo in cui l’uomo non può esercitare pienamente il suo controllo diventa una minaccia, e così da locus amoenus il bosco può trasformarsi in locus horridus. Scatena le nostre paure più nascoste, offuscando il nostro pensiero, oppure ci incanta e ci spinge ad abbandonarci ad esso fino ad accoglierlo. Non a caso è da qui che hanno origine le fiabe. E in fondo cosa saremmo noi se non ci inoltrassimo nel buio ogni tanto? Cosa ci insegnerebbe Cappuccetto Rosso se non fosse entrata nel bosco per paura del lupo, o Pollicino se non si fosse perso?
Il libro, che è fatto di carta tratta dagli alberi, si pone a metà strada tra noi e quell’inesauribile fonte di miti che è la foresta.
Tutto nasce secoli fa nel grande coacervo di storie tramandate dalla tradizione orale, un mondo di dèi ed eroi, oscuri sortilegi e oggetti magici. Sono questi i racconti che hanno da sempre saputo smuovere le nostre viscere. Di ciò si sono nutriti anche Tolkien o la Rowling, e ne hanno estratto linfa per i loro libri. Folklore, magia, mito sono costantemente attorno a noi. Purtroppo, queste storie, circolanti in libricini chiamati chapbooks, fino a pochi secoli fa sono state considerate “paraletteratura”, “letteratura dozzinale”. E qualche amante della serie TV Penny Dreadful (Netflix) sarà elettrizzato dallo scoprire che il titolo non è altro che il nome popolare dei giornali – da un penny – in cui si pubblicavano queste brevi storie di paura dai toni gotici.
I detentori del gusto, borghesi e schizzinosi, le valutavano di poco conto. Eppure, hanno contribuito all’alfabetizzazione: a volte erano veri e propri riassunti di grandi romanzi come I viaggi di Gulliver e da questi, grandi scrittori quali Charles Dickens, R.L. Stevenson e Bram Stoker hanno tratto ispirazione per capolavori come Lo strano caso di Dr Jekyll e Mister Hyde o Dracula. I libri sono il veicolo più autentico per imparare la nostra storia – anzi le nostre storie – e per mantenere un legame con i nostri antenati.
I libri del cuore (e della mente)
Come Alice, per entrare in un altro mondo, dobbiamo infilarci in una tana. Creiamo un nido da qualunque cosa, appallottolandoci sul divano, sotto le coperte, su dei gradini, e diventiamo crisalidi. Con alcuni libri questo processo è più breve, perché già hanno rapito il nostro cuore la prima volta che li abbiamo – o ce li hanno – letti. Sono i libri di consolazione, i comfort books, quei “talismani” che proteggiamo ricoprendoli di un velo di santità. Al loro interno abbiamo come lasciato una parte di noi, e spesso sono proprio quelli che scopriamo da bambini e a nostra insaputa ci aiutano a superare “l’orrore del vivere”. Quando li sentiamo nominare abbiamo come un sussulto al cuore o un’epifania, come se avessero pronunciato una parola magica.
Nella fragile foresta vergine delle emozioni private, i sensi sono così vivi che un libro può diventare un talismano.
Se ci pensate gli scaffali delle librerie rispecchiano il nostro io sconosciuto. Sono divise in settori proprio come il nostro cervello, e curiosare tra i libri senza una meta è come fare dello sport estremo: la reazione ad un mondo pieno di regole e direzioni predestinate. In alcuni casi il nostro cervello è una biblioteca. Pensiamo a Fahrenheit 451, quando alla fine del libro Montag incontra – nella foresta – i ribelli che hanno imparato a memoria i testi cancellati e bruciati dalla società totalitarista. I libri che leggiamo durante l’arco della nostra vita fanno da pilastri per la costruzione della nostra conoscenza. Senza leggere potremmo imparare i concetti in maniera osmotica ma non avremmo contribuito ad erigere da soli il nostro sapere. Sarebbe come lasciare il progetto di casa nostra in mano a un architetto e poi chiudere gli occhi fino a lavori conclusi.
Dove andiamo nei sogni se non in una biblioteca universale? Una siffatta biblioteca infinita assomiglierebbe a un cervello.
Una questione privata
Fino all’invenzione della stampa, la lettura era concepita come una fruizione orale: qualcuno che legge per qualcun altro. Svela il nostro autore che addirittura “quando Alessandro Magno leggeva in silenzio, i suoi uomini lo fissavano sconcertati”. Solo recentemente è diventata un’attività da svolgere in solitaria. Questo progressivo avvicinamento al libro ha introdotto una nuova intimità, che prima non esisteva. Pronunciando le parole ad alta voce queste fluttuano nell’aria e si disperdono. Leggendo invece mentalmente, le storie rimbalzano nella nostra testa depositandosi come polline. Anche le emozioni si intensificano: un tempo era comune vedere lettori – anche uomini! – scoppiare a piangere pubblicamente nel mezzo di una lettura, e dame saltare il pranzo per non presentarsi con gli occhi rossi e il naso gonfio.
In questo modo entriamo nel racconto, ne diventiamo parte. Il libro diventa solo nostro, un fatto privato. E il dialogo con l’autore diventa immediato. Nabokov affermò in un’intervista di non scrivere per toccare i cuori o cambiare le menti ma “per produrre quel piccolo sussulto nella spina dorsale del lettore artista”. Nei secoli sempre più innamoramenti sono sbocciati tra libri e lettori, consumati in biblioteche o nel silenzio del proprio letto. Forse ora più che mai, nell’era digitale, questo amore prospera.
Sobre el volcán la flor.
G.A. Bécquer
Blu Di Marco
(In copertina Holland House library after an air raid, da Wikipedia)