Si è parlato molto di austerity negli ultimi 12/14 anni, un termine evocato da economisti e politici in tutto il mondo. Tra un articolo di un quotidiano e una notizia al telegiornale, tutti noi abbiamo potuto leggere o sentire di come l’Italia e tanti altri paesi europei abbiano e stiano soffrendo di una crisi del debito sovrano.
“L’Italia ha speso troppo negli ultimi anni, è ora di fare rinunce”, “è necessario diminuire la spesa pubblica per risanare il debito” sono solo alcune delle argomentazioni che potreste conoscere. L’austerity è una politica economica in risposta ai conti pubblici in rosso. Hai speso troppo e ti sei indebitato fino al collo? Allora è il momento di stringere la cintura e risparmiare. L’austerity è intuitiva e allettante, con frasi ad effetto del tipo “non puoi sanare il tuo debito con altro debito”. Se si tratta di te lavoratore normale, devi cercare di spendere meno al supermercato e andare a cena fuori il meno possibile. Se si tratta dello Stato, bisogna spendere meno e/o far aumentare le entrate. Che poi, come vedremo, sono due facce della stessa medaglia.
Come detto, una politica economica d’austerità ha un certo appeal, soprattutto se la dialettica è che lo Stato ha speso troppo, tanto da far arrivare il suo debito a un punto critico e spaventare gli investitori. Il problema è la dialettica stessa, che confonde la causa con l’effetto. È vero che esiste una crisi del debito sovrano, ma non perché gli Stati abbiano speso troppo e non riescano più a sostenere il loro welfare state (ad eccezione della Grecia). Questa crisi è prima di tutto una crisi del settore privato, e solo dopo una crisi del settore pubblico, non il contrario. E il discorso intorno all’austerity ha avuto l’effetto di sostituire i protagonisti della crisi finanziaria del 2007 con i protagonisti che hanno fatto di tutto per tamponarla: gli Stati.
La crisi del debito sovrano
La crisi del debito sovrano è strettamente collegata alla crisi finanziaria del 2007 iniziata negli Stati Uniti. In questo articolo non si vogliono trattare le cause della crisi finanziaria iniziata negli Stati Uniti e poi diffusa in tutto il mondo, ma, se siete curiosi di capire come i meccanismi perversi intorno al mercato finanziario dei mutui americani abbiano creato la bolla speculativa scoppiata nel 2008, allora leggete questo approfondimento. Quello che si vuole trattare è come la crisi finanziaria e la successiva contrazione del mercato bancario abbiano portato alla crisi del debito sovrano, e non la spesa incontrollata degli Stati. Nel continente europeo i protagonisti sono i paesi PIIGS, ovvero i paesi periferici dell’Unione Europea: Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia e Grecia. Ma, per comprendere appieno la crisi europea, occorre introdurre un altro protagonista che non c’entra nulla con gli Stati Uniti: il sistema monetario unico, ovvero, l’euro.
Per approfondire il dibattito pro/contro Unione Europea: Una parola sull’Unione Europea (un articolo di Blu Dòmini) VS Euroinomani (un articolo di Tommaso Malpensa).
L’Euro e il mercato dei titoli di Stato
La creazione dell’Euro ebbe come conseguenza, tra le altre, quella di portare soldi “economici” agli Stati europei periferici. Infatti, ciò che costituisce il costo del denaro è il tasso d’interesse, il quale è calcolato in base al rischio che il denaro che io cedo possa non essere restituito dal creditore. Questo calcolo viene fatto anche sugli Stati nel momento in cui gli investitori comprano i loro titoli (il modo con il quale gli Stati prendono soldi in prestito), che è sostanzialmente la risposta alla domanda “quanti soldi mi devi ridare indietro perché il mio investimento possa essere vantaggioso?”. Se uno Stato ha un’economia solida e in crescita come la Germania, sono disposto a darteli con un tasso d’interesse basso, perché sono sicuro che quei soldi mi verranno restituiti. Se invece l’economia è più debole e cresce lentamente, l’investimento si fa più rischioso e richiede una ricompensa (il tasso d’interesse) più alta.
Ciò che l’adozione dell’Euro causò fu che tutti, all’improvviso, divennero come la Germania. O quasi. Questo almeno guardando al mercato dei titoli di Stato dal 2001. I titoli di Stato greci di dieci anni hanno conosciuto una riduzione del tasso d’interessa dal 25% all’11%. Quelli italiani passarono dal 13% ad essere quasi come quelli tedeschi. Il paradosso è che da un anno all’altro l’economia italiana e quella greca non erano affatto diventate come quella tedesca. Eppure, la percezione degli investitori cambiò drasticamente. Adottando tutti una moneta che si rifaceva al marco tedesco, ovvero la valuta più forte dell’epoca, e aggiungendo le dichiarazioni della neonata Banca Centrale Europea su una politica antinflazionistica, gli investitori e le stesse banche europee si rassicurarono.
Tutti volevano i titoli di Stato spagnoli, italiani, portoghesi, irlandesi e greci, perché diventati più sicuri e comunque con un tasso d’interesse leggermente più elevato rispetto agli omologhi tedeschi. Questo comportò l’arrivo di grandi quantità di denaro meno costoso e più facile da ottenere agli Stati periferici, nonostante la loro produttività fosse rimasta la stessa, e la loro possibilità di riallinearsi alla competitività tedesca diminuì a causa della perdita dell’arma dell’inflazione.
L’Irlanda
L’Irlanda è il tipico esempio di come le cose all’inizio possano andare bene, molto bene, e subito dopo male, ma molto male. Ed è, insieme alla Spagna, l’esempio più lampante di come la crisi in Europa fu prima di tutto una crisi del settore privato e solo in un secondo momento una crisi del settore pubblico.
L’isola verde europea si era comportata molto bene arrivando ad avere, prima della crisi finanziaria, un debito pubblico intorno al 20% del PIL. Insomma, lo Stato spendeva con ragione e aveva i conti sani. Se voltiamo lo sguardo al settore privato, anche in questo caso possiamo vedere un’economia in forte crescita. Ma ciò che cresceva era una bolla enorme. Infatti, ciò che accadde alle banche irlandesi non fu molto diverso da ciò che accadde a quelle americane, con quell’ultima differenza importante che ho introdotto nel paragrafo precedente: l’Euro.
Le banche dello Stato quadrifoglio si sono ritrovate, dal 2001, con un enorme quantità di denaro a causa del boom dei titoli irlandesi, e con tassi d’interesse bassissimi, in certi casi addirittura negativi, fissati dalla BCE nel contesto della sua politica economica antiinflazionistica. Di conseguenza, le banche hanno cominciato a prestare sempre più denaro attraverso mutui, facendo schizzare il valore del mercato immobiliare del 64%. Ad esacerbare il tutto, le banche irlandesi si sono tuffate nel repo market americano per ottenere soldi velocemente nella notte e per poi finanziare durante il giorno mutui di trent’anni. Il repo market è stato un altro amplificatore della crisi finanziaria degli Stati Uniti, tramite il quale le banche ottenevano denaro durante la notte per poi reinvestirlo subito dopo, utilizzando come assicurazione i mutui subprime, quelli che poi sarebbero crollati tra il 2007 e il 2008.
Unendo il tutto, otteniamo un sistema bancario in cui le tre principali banche irlandese detenevano azioni finanziarie per un valore pari al 400% del PIL dell’Irlanda. Una volta scoppiata la bolla però, quel 400% del PIL è passato dall’essere un problema di bilancio privato, ad un problema di bilancio pubblico, con il debito irlandese che schizzò al 320%.
Se per l’Irlanda e la Spagna il problema fu il “bail out” delle banche e il successivo assorbimento del debito privato nei conti pubblici a causare una crisi del debito sovrano, in Italia e Portogallo fu un cambiamento della percezione del rischio da parte degli investitori, in un ambiente finanziario schizofrenico.
L’Italia
Se la Spagna può essere vista, con alcune differenze nella struttura del sistema bancario, come l’Irlanda aumentata di magnitudo (in fondo stiamo solo parlando della quarta economia dell’UE), l’Italia può essere vista come l’immagine ingigantita del Portogallo. Ciò che accomuna i due Paesi è una combinazione di bassa crescita, bassa produttività e alto tasso di anzianità. La differenza principale negli anni precedenti alla crisi tra l’Italia e la Spagna, invece, era il fatto che l’Italia possedeva un grande debito pubblico, mentre un debito privato molto basso.
L’Italia, all’epoca l’11esima economia mondiale e il 23esimo paese per popolazione, aveva il terzo mercato mondiale di titoli di Stato. Il terzo. Ma il debito pubblico italiano rispetto al PIL nel 2000 era pressoché identico a quello del 2008. Allora perché quello che non era un problema per gli investitori all’inizio del millennio lo divenne successivamente alla crisi finanziaria? Come detto, la motivazione sta in un cambiamento della percezione del rischio, e non del rischio in sé. La miccia fu la dichiarazione del governo greco nell’ottobre del 2009 che ammise che i governi precedenti avevano mascherato il vero valore del deficit greco, calcolandolo al ribasso di quasi la metà.
A quel punto gli investitori, spaventati da una possibile insolvibilità greca e dalla conseguente perdita di valore del titolo di Stato, hanno cominciato a vendere in massa. Ciò causò proprio quello che gli investitori volevano evitare, la perdita del valore dei titoli. Di conseguenza gli investitori, per ripararsi dalle perdite, hanno cominciato a vendere anche altri titoli di Stato, tra cui quelli dei PIIGS.
La conseguenza ovvia fu l’abbassamento del valore degli altri titoli di Stato e l’aumento dei tassi d’interesse, rendendo ancora più difficile per questi stati, tra cui l’Italia, ripagare il loro debito. La difficoltà nel ripagare il debito da parte del nostro Paese si manifestò per la presa di coscienza da parte degli investitori di quei fattori elencati precedentemente: bassa produttività, bassa crescita ed età media elevata. Sostanzialmente, si prospettava un futuro in cui il disavanzo italiano sarebbe stato sempre più alto, non riuscendo a produrre di più rispetto a ciò che si spendeva, e in cui ci sarebbero state sempre meno persone a pagare tale debito e sempre più lavoratori impegnati a pagare le pensioni di una popolazione sempre più vecchia.
Problemi, questi, presenti da tempo in Italia, ma che la tranquillità del sistema finanziario, in aggiunta all’illusione del rischio basso e il conseguente flusso di denaro “economico” creato dal sistema monetario unico, avevano sopito fino alla miccia greca.
Dai mutui subprime ai titoli di Stato europei: la storia si ripete
Le perdite di valore di titoli di Stato non hanno però conseguenze solo per gli Stati stessi. Tali perdite influenzano anche il settore privato, specialmente se si pensa che le banche europee hanno costruito un sistema finanziario simile a quello americano, ma con i titoli di Stato europei invece che i mutui subprime. Una buona fetta di quei titoli era proprio dei paesi PIIGS. Solo le banche tedesche e francesi erano esposte ai titoli dei PIIGS per un valore di mille miliardi di euro. Così nel 2011, quando alcuni di questi titoli di Stato passarono da tripla A a tripla B, ovvero persero valore, le banche europee si ritrovano in una crisi di liquidità.
Fu a questo punto che la BCE, con il nostro attuale primo ministro Mario Draghi come Presidente, avviò la politica economica non ortodossa del “whatever it takes”, riversando denaro nell’economia dell’Unione Europea. Gli investitori, nel frattempo, erano sempre più preoccupati dalla eventuale capacità di uno Stato di affrontare la bancarotta di una grande banca o di tante banche. Lo Stato, che vuole rassicurare gli investitori da una sua possibile bancarotta, non avendo una propria moneta da poter svalutare, e una propria macchina da stampa per poter inflazionare, non può fare altro che deflazionare i prezzi e gli stipendi. Ovvero, Austerity.
La risposta europea: Austerity, un cane che si morde la coda
La risposta migliore che l’Unione Europea ha trovato è sostanzialmente quella che ha da sempre messo in campo dall’adozione dell’Euro: l’Austerity. Tuttavia, qualcuno potrebbe essere stato ingannato nel 2009, quando, per circa 12 mesi, tutti sono tornati a politiche economiche keynesiane. In realtà la cosa non dovrebbe sorprendere più di tanto se si pensa che la teoria economica neo-liberale utilizzata allora non prevedeva nemmeno la possibilità di una crisi finanziaria come quella del 2007/2008. Il mercato evidentemente non poteva organizzarsi al meglio da solo. Perciò era necessaria una teoria che potesse spiegare le cause della crisi, ed ecco perché il ritorno del buon vecchio Keynes e, di conseguenza, dello Stato nell’economia.
Il motivo per cui il ritorno a politiche economiche keynesiane è durato così poco risiede, almeno in Europa, in un’opposizione tedesca, giustificabile per tre motivi:
- La centenaria paura dell’inflazione (arma utilizzata nelle politiche economiche keynesiane);
- Il fatto che in realtà la Germania, come altri Stati europei, non avesse mai abbracciato in pieno la teoria neoliberale, e che quindi non sentisse la necessità di un cambiamento radicale;
- Il fatto che la Germania avesse già recuperato lo scossone della crisi finanziaria, ritornando in surplus già nella seconda metà del 2009.
Inoltre, c’è un altro fattore strutturale che aumenta la difficoltà di passare a politiche keynesiane nell’Unione Europea: l’assenza di una politica fiscale comune. Infatti non c’è Keynes se non ci sono una politica monetaria e una politica fiscale comune con le quali effettuare le proprie politiche economiche.
Di conseguenza, l’arma migliore che l’Unione Europea è riuscita a trovare è quella dell’Austerity: meno spese pubbliche, più tasse (in modo da diminuire il deficit, o ancora meglio, il debito, e riconquistare la fiducia degli investitori) e riduzione dei salari e dei prezzi (per riottenere competitività). Sembra tutto molto bello, se non fosse per un piccolo dettaglio: non possiamo essere tutti austeri insieme. Se uno Stato smette di spendere soldi nella sua economia, e quindi di incentivarla, deve in un qualche modo far arrivare soldi da altre parti. Ovvero dall’estero. Ma se tutti tagliano le proprie spese insieme, non possono arrivare gli investimenti necessari a far crescere l’economia, non ci sarà un aumento di competitività relativa e nemmeno un aumento di produttività.
La conseguenza è quella che vediamo ancora oggi. Economie che stentano a decollare, o addirittura in recesso. Di conseguenza, gli investitori non riconquistano la fiducia e i tassi d’interesse dei titoli di Stato rimangono alti, rendendo sempre più difficile pagare un proprio debito sempre in aumento. Ed ecco il cane che si morde la coda. Ma l’Austerity non è solo un cattiva idea economica, è anche una pessima idea sociale. Perché, nel momento che si trasferisce la colpa dal settore privato a quello pubblico, la si passa anche ad ogni cittadino. Il risultato sarà infrastrutture più scadenti e meno soldi in tasca.
E, con una politica d’austerità è il cittadino operaio, insegnante, salumiere o cassiere che pagherà di più. Perché sono loro i cittadini che fanno più affidamento sui servizi pubblici come la sanità e il trasporto. E sono loro che sentiranno quei 50 euro in più di aumento tasse. Sono quelli che, per assurdo, non potendosi permettere di andare in un ospedale privato, durante una pandemia potrebbero morire a causa della carenza di posti letto in ospedale, dato che lo Stato ha dovuto tagliare le spese sanitarie.
Oggi, la storia si ripete?
Senza farlo apposta, oggi in Italia a trainare il paese è uno dei grandi protagonisti della crisi del debito sovrano, Mario Draghi. Bisognerà aspettare, ma con ogni probabilità quello che vedremo a fine pandemia sarà un remake del dopo crisi del 2007/2008. Un ritorno a politiche economiche keynesiane, come nel 2009/2010, rappresentate dall’iniezione di denaro del Recovery Found, con l’assicurazione che però, una volta stanziati i soldi, si chiude il rubinetto e si stringe la cintura. Potrà funzionare solo se quei soldi saranno sufficienti a far effettivamente ripartire e crescere l’economia italiana.
Carlo Sapienza (articoli)
(In copertina Christian Lue da Unsplash)
Articolo realizzato in collaborazione con Sistema Critico, un gruppo di studenti universitari che si pone come obiettivo il racconto del reale in modo critico e giovanile, avvicinando le persone alle questioni che il mondo ci pone ogni giorno.