La recente inchiesta di Domani sui giornalisti intercettati mentre indagavano sul traffico dei migranti pone nuovi interrogativi sulle condizioni dello stato di diritto in Italia. È accettabile controllare giornalisti che svolgono il loro lavoro?
Negli scorsi giorni, sulle colonne di Domani, è stata pubblicata un’inchiesta di Emiliano Fittipaldi, Andrea Palladino e Giovanni Tizian che svela aspetti sconcertanti dell’inchiesta sulle ONG dedite al salvataggio di migranti nel Mediterraneo: dalle carte della procura di Trapani emergono i nomi di giornalisti intercettati mentre erano intenti a indagare sulle controverse politiche migratorie di Marco Minniti.
Grazie a tali intercettazioni la Procura ha schedato nomi di fonti, contatti e rapporti personali dei reporter, tutti coperti da segreto professionale. Questo articolo da una parte riaccende i riflettori sui fatti che interessarono le rotte migratorie nel 2017, grazie all’azione dell’allora Ministro dell’Interno (e i cui effetti sono tuttora presenti); dall’altra genera interrogativi inquietanti sulle garanzie fondamentali di ogni cittadino e cittadina: può definirsi democratico un paese in cui giornalisti vengono intercettati senza alcun presupposto penale?
Contesto
Divenuto Ministro dell’Interno nel dicembre 2016, con l’insediamento del governo Gentiloni, da subito Minniti intraprese una linea dura nei confronti dei fenomeni migratori provenienti dal Nordafrica, in particolare dalla Libia. Proprio con quest’ultima nazione, dilaniata da una sanguinosa guerra civile dal 2014, Minniti strinse un accordo che garantiva al governo di Fajez al-Sarraj, allora premier riconosciuto dall’ONU, supporto economico, addestrativo e tecnologico per fermare le partenze dei barconi. Se da un lato, grazie a tale accordo nel 2017, gli sbarchi sono crollati del 97,2% rispetto all’anno prima, dall’altro le Nazioni Unite hanno denunciato le condizioni disumane dei migranti: come dichiarato poche settimane fa da Jan Kubis, rappresentante ONU in Libia:
Attualmente circa 3.858 migranti sono detenuti in centri di detenzione ufficiali gestiti dal Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale (Dcim) in condizioni estreme, senza un giusto processo e con restrizioni all’accesso umanitario.
Jan Kubis
Diverse testate internazionali, quali il New York Times, hanno documentato la vita dentro questi centri, veri e propri lager. Va ricordato che il piano Minniti prevedeva in un secondo momento l’intervento proprio dell’ONU per svuotare i campi e porre i migranti sotto protezione internazionale: intervento mai avvenuto, almeno nelle forme previste, per via della forte instabilità della regione.
Sotto accusa anche l’operato della Guardia Costiera Libica, in parte formata da miliziani in combutta con trafficanti di esseri umani: molte inchieste l’accusano di sparare contro barconi e navi umanitarie. Il suo capo, Abd al-Rahman al-Milad, noto come Bija, di recente arrestato e poi rilasciato, era a capo di una milizia alleata di al-Sarraj, nonché contrabbandiere e trafficante di migranti: come ricordato da Roberto Saviano in un video, Bija fu un interlocutore privilegiato di Minniti, accolto a Roma con tutti gli onori.
Reporter controllati
In tale contesto si inserisce il recente scandalo. Su segnalazione del Viminale, la procura di Trapani avvia indagini su presunte collusioni tra trafficanti e alcune ONG dedite al salvataggio delle persone sui barconi: collusioni, ricordiamo, mai verificate in sede processuale. E proprio nelle carte di tale inchiesta rientrano le conversazioni, non penalmente rilevanti, di alcuni giornalisti che stavano lavorando sugli effetti della strategia Minniti.
Tra questi compaiono Nancy Porsia, Sergio Scandura (Radio Radicale), Francesca Mannocchi (L’Espresso – Propaganda); Fausto Biloslavo (Il Giornale), Claudia Di Pasquale (Report – Rai3), Nello Scavo (Avvenire) e Antonio Massari (Il Fatto Quotidiano). Nel caso di Porsia, minacciata tra l’altro di morte dai trafficanti di vite umane, sarebbero state addirittura intercettate conversazioni con la sua legale Alessandra Ballerini, peraltro avvocata della famiglia Regeni: tale circostanza, però, è stata smentita dalla Procura. Questo scandalo ha avuto vasta eco anche all’estero, con il Guardian che ha parlato di “uno dei più grandi attacchi alla stampa nella storia italiana“.
Di recente, come se non bastasse, Domani ha pubblicato un’altra inchiesta, sempre di Palladino, dalla quale emerge che alcuni ex poliziotti, in seguito divenuti agenti di sicurezza privata su una nave di Save The Children, avrebbero cercato (e almeno in un caso ottenuto) un contatto con Matteo Salvini e Giorgia Meloni per offrire loro le prove di presunte attività sospette dell’ONG, utili per la propaganda dei due leader: il tutto allo scopo di ottenere incarichi politici o lavorativi.
Le intercettazioni: un tema scottante
Ai sensi dell’articolo 200, comma 3, del Codice di Procedura Penale, al giornalista è riconosciuto il segreto professionale, in base al quale non è tenuto, salvo richiesta di un giudice per finalità investigative, a rivelare il nome di una sua fonte confidenziale. Per quanto riguarda le intercettazioni, la prassi prevede la distruzione di quelle penalmente irrilevanti: risulta quindi a dir poco curioso che siano comunque trascritte agli atti, soprattutto in quanto contengono le fonti dell’attività d’inchiesta dei reporter. Per non parlare delle presunte intercettazioni tra Porsia e la sua legale, reato ai sensi dell’art. 271 del CPP.
L’episodio ha riacceso il dibattito sull’opportunità dell’uso e della divulgazione di intercettazioni, anche con riferimento a quelle che coinvolgono politici. Matteo Renzi nella sua ultima enews, pur solidarizzando con i reporter coinvolti, ha attaccato la pratica di pubblicare sulla stampa conversazioni di politici comprendente dettagli intimi e personali; nonché l’intercettazione diretta illecita dei parlamentari.
Ricordiamo che tali intercettazioni sono lecite, ai sensi dell’articolo 68 della Costituzione, solo in caso di autorizzazione della Camera di appartenenza dell’interessato; diverso è il caso di intercettazioni indirette, cioè ottenute controllando una persona estranea al Parlamento: in tal caso sono lecite a prescindere, ma utilizzabili verso il parlamentare coinvolto solo con l’autorizzazione della sua camera. Una tematica indubbiamente scottante: se da una parte è imprescindibile la tutela della privacy della persona, dall’altra è sacrosanto il diritto del cittadino alla trasparenza da parte dei suoi rappresentanti, anche per quanto concerne aspetti non penalmente rilevanti ma comunque discutibili.
Questione di diritti
Un solo episodio, dunque, è bastato a riaccendere il dibattito su due questioni molto spinose. L’accordo stipulato da Minniti con la Libia, quattro anni dopo, è ancora il caposaldo delle politiche migratorie italiane, sebbene si siano succeduti da allora ben tre governi di diverso colore. Il Memorandum ha rinnovato il Memorandum a febbraio 2020, nonostante il dichiarato intento di migliorarlo. Ancora pochi giorni fa Mario Draghi, malgrado tutte le evidenze contrarie, nella sua visita a Tripoli ha espresso “soddisfazione” per la gestione libica dei traffici migratori.
Sulla questione delle intercettazioni, la ministra della giustizia Marta Cartabia ha disposto accertamenti, mentre la procura di Taranto ha promesso la distruzione delle registrazioni incriminate. La speranza è che in futuro possa prevalere il buonsenso nelle vicende del Mediterraneo: è assurdo che, mentre i trafficanti di esseri umani hanno di fatto campo libero, coloro che indagano questi abomini siano ostacolati nella ricerca della verità.
Riccardo Minichella
Per approfondire: Fenomeno migratorio in Europa e in Italia, un’analisi e un approccio libertario (un articolo di Alex Battisti).