È passato un anno da quando Erdogan ha riaperto le frontiere della cosiddetta “rotta balcanica” mantenendo la promessa che da tempo faceva all’Europa. Da quel momento migliaia di migranti hanno raggiunto i confini tentando di arrivare in Grecia, ma si sono visti sbarrare il cammino dall’esercito e dalla stessa società civile. Per comprendere a fondo la situazione dobbiamo fare un passo indietro.
Gli accordi TURCHIA – UE
È il 2016 quando i leader europei trovano un accordo sul piano per la gestione dell’arrivo dei migranti sulle coste greche. Questo prevede:
- il respingimento di coloro che non presentano domanda d’asilo alle autorità locali. Secondo gli accordi UE del 2015, infatti, una volta raggiunti gli hotspot, i migranti devono essere registrati senza indugi e le richieste d’asilo esaminate individualmente dalle autorità greche;
- che per ogni profugo siriano che viene rimandato in Turchia dalle isole greche, un altro siriano venga trasferito dalla Turchia all’Unione Europea attraverso dei canali umanitari. Donne e bambini avranno la precedenza in base ai “criteri di vulnerabilità stabiliti dall’Onu” e l’Europa metterà a disposizione 18.000 posti già concordati per accogliere i profughi;
- la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi decisi a entrare in Europa;
- aiuti economici alla Turchia per la gestione dei campi profughi (tre miliardi iniziali per un totale di sei miliardi entro la fine del 2018);
- una rivalutazione sulla possibile adesione del Paese all’Unione.
Nonostante la dubbia legittimità degli accordi, che non sarebbero stati approvati seguendo l’iter legislativo canonico dei trattati UE e che violerebbero alcune leggi internazionali sull’asilo, dal 2016 al 2019 il flusso di migranti è nettamente diminuito. Fino all’anno scorso.
La riapertura dei confini
Giovedì 27 febbraio 2020 il presidente turco Erdogan ha annunciato la riapertura dei confini del Paese ai migranti intenzionati a raggiungere l’Europa e una domanda sorge spontanea: perché lo ha fatto?
Il fatto che il Presidente abbia preso questa decisione poco dopo l’uccisione di 36 soldati turchi vicino a Idlib (regione siriana al confine con la Turchia), non è sembrato casuale. Proprio lì l’esercito turco sta cercando di fermare l’avanzata del regime siriano e della Russia, sua alleata.
Se si considerano, inoltre, le innumerevoli lamentele del Presidente nei confronti del ritardo dell’Europa nella consegna di quei famosi sei miliardi, non è difficile credere che questa mossa politica abbia come obiettivo il perseguimento di specifici interessi: ottenere altrettanto denaro dall’UE e distogliere l’attenzione da quello che sta accadendo a Idlib.
Conseguenze
Immaginate la notizia che di bocca in bocca si sparge, generando di città in città un fermento e un’urgenza tale da creare un’ondata di milioni di persone che corrono verso un confine che rappresenta possibilità e prospettive. Il racconto del New York Times:
“Molti migranti hanno mollato quello che stavano facendo nel momento in cui hanno saputo che la frontiera era aperta e si sono precipitati lì in bus o in taxi, temendo di perdere l’opportunità di passare il confine.”
Dopo l’accaduto, la Grecia ha fatto di tutto per impedire l’attraversamento del confine: uno scontro duro e violento tra migranti e polizia greca che ha risposto con gas lacrimogeni e granate.
L’International Organisation for Migration (IOM) ha rilevato almeno 13.000 persone in viaggio, ma Erdogan parla di numeri ben più preoccupanti. A oggi, quasi 30.000 profughi diretti in Europa sono bloccati fra un Paese martoriato dalla guerra (che non permetterà loro di rientrare una volta usciti) e un Paese economicamente in ginocchio che si rifiuta di accoglierli.
Lesbo
Uno degli hotspot in condizioni più tragiche è stato, per lungo tempo, il campo di Moria sull’isola di Lesbo. Esso avrebbe avuto una capacità di massimo 3.000 persone ma è arrivato a ospitarne più di 18.000.
Con il rallentamento nei trasferimenti sulla terra ferma da parte di Atene (il primo colloquio per la richiesta di asilo viene programmato tra i nove e i dodici mesi dall’arrivo), il campo ha iniziato a sovraffollarsi e molto presto la situazione igienico-sanitaria è diventata insostenibile. A settembre 2020 poi, il campo è stato distrutto da un incendio scoppiato durante una protesta. I migranti contestavano il lockdown disposto dalle autorità dopo l’identificazione di un rifugiato positivo al Covid-19. Seppur non sia stato rilevato alcun ferito, migliaia di profughi sono fuggiti e tra loro sicuramente molte persone positive.
Le condizioni del nuovo campo temporaneo costruito dopo l’incendio, inoltre, sono ancora più gravi. Infatti, la mancanza di acqua corrente, di servizi igienici, di assistenza sanitaria, di norme preventive del contagio da Covid-19 e la costrizione in tende di fortuna rendono la situazione tragicamente preoccupante.
La società civile
Dal 2015 in poi, a differenza delle altre isole greche e con l’arrivo dei profughi, Lesbo ha perso tutti i suoi turisti e, dopo una prima fase di solidarietà collettiva, è nato il malcontento.
Gli isolani hanno il complesso compito di gestire l’accoglienza ma, a oggi, rivendicano fortemente la necessità di intervento delle Ong.
Dopo duri scontri fra i civili e le forze di polizia, inoltre, queste ultime hanno lasciato l’isola dando il via libera alle manifestazioni anti-immigrati degli attivisti tedeschi di estrema destra. Guidati dal leader Mario Muller con l’obiettivo di “constatare in prima persona la portata della crisi migratoria”, questi credono che i soldi stanziati dalla Germania per l’accoglienza dovrebbero essere utilizzati per aiutare i profughi nei loro paesi di origine (“aiutiamoli a casa loro” suona molto familiare).
E l’Europa?
I rifugiati che scappano da guerre e persecuzioni si trovano quindi tra due fuochi, tra l’incudine e il martello: tra Paesi che agiscono da scaricabarile e che li respingono a ogni fronte.
Secondo l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, “si è molto vicini al collasso del sistema dei diritti fondamentali e all’accettazione della violenza come metodo di gestione delle migrazioni”. I Balcani sono, ormai, solo luoghi di transito in cui migliaia di persone rimangono bloccate a causa dei tempi lunghissimi di accettazione delle richieste d’asilo e in cui le condizioni di vita sono estremamente precarie.
Almeno per il momento, sembra che tutti i fondi stanziati dall’Unione per la gestione della crisi non siano affatto in grado di garantire sicurezza e tutela dei diritti umani e ci si chiede per quanto ancora questa ipocrisia andrà avanti.
Francesca Anigoni
Qui puoi approfondire il fenomeno migratorio in Europa e in Italia.