La tragica storia di Antonella, la bambina morta di asfissia nel tentativo di superare una sfida su Tik Tok, sollecita con urgenza una riflessione sull’uso della rete. I social sono un bene, o un male? A che serve essere connessi? Tutto questo ci renderà persone migliori o peggiori?
Quando ci va di mezzo una bambina, il caso non può più passare inosservato. Perché questo era Antonella, 10 anni, aspirante star di Tik Tok, caduta vittima di una di quelle sfide “acchiappa-followers” che circolano sui social. Questa volta si tratta della Blackout Challenge, che consiste nello stringersi una corda intorno al collo per provare la propria resistenza.
Ma provarla a chi? Agli altri utenti della piattaforma, agli amici, a se stessi? Non voglio parlare di Antonella, non ce la faccio, chi sono io per giudicare il suo comportamento o quello dei suoi genitori? Voglio invece usare questo tragico evento come pretesto per una riflessione più generale.
I social
La Blackout Challenge non è che l’ennesima sfida, alla pari della Knock Out Challenge, della Blue Whale, dell’Eyeballing o della Bird Box Challenge – non vi consiglio di andarle a cercare. Io l’ho fatto per scrivere questo articolo, e la cosa mi ha turbato molto. Un esempio più comune sono i selfie estremi, ovvero quelle foto scattate a se stessi mentre ci si trova in una situazione precaria e di pericolo, come sul tetto di un palazzo o sulle rotaie con il treno in arrivo.
Sono anni che una branca, per quanto minore, di quasi ogni social network si sta sviluppando in questo senso: prove di coraggio che diventano virali, spesso grazie a specifici account “istigatori”, e che coinvolgono per emulazione un numero crescente di utenti.
Ma chi sono questi utenti? La piattaforma prediletta per questo genere di contenuti è sicuramente Tik Tok, il social con il più alto numero di iscritti giovani, in particolare preadolescenti. Quell’età tra il bambino e il ragazzino, il momento della vita in cui il cervello come una spugna assorbe informazioni, che siano esse positive o negative, per poi depositarle in quella che diventerà la conoscenza e la personalità dell’adulto in questione. Non a caso la maggior parte dei social network richiede un’età minima di 13 anni per aprire un account.
Aggirare questo vincolo, lo sappiamo tutti, non è però tanto difficile. Basta impostare la propria data di nascita un paio d’anni più indietro ed ecco che si ottiene l’accesso a un illimitato mondo di post e interazioni. Certo, i social dovrebbero controllare maggiormente i contenuti che fanno circolare, ma non è certo colpa loro se qualcuno decide di dichiarare il falso riguardo alla propria età.
I genitori
Così ai bambini basta un click per immergersi nel suddetto universo digitale.
Ovviamente senza una connessione a Internet o un dispositivo adatto si eliminerebbe anche questa scappatoia, ma davvero vogliamo prendere in considerazione questa soluzione?
I bambini ormai crescono circondati dalla tecnologia, prendono in mano uno smartphone ancora prima di essere in grado di camminare, imparano attraverso giochi e applicazioni apposite.
E va bene così, perché il mondo si evolve, i metodi si sviluppano, le abitudini cambiano. Avreste mai chiesto a una famiglia contadina di qualche secolo fa di non far lavorare la terra ai minori, perché si sarebbero potuti fare male con gli attrezzi?
Il telefono della mamma, il tablet del papà, il laptop che sono costretti a usare per la famigerata didattica a distanza. No, la soluzione non è allontanare i giovani dalla tecnologia: risulterebbe un percorso impraticabile. Certo, i genitori dovrebbero monitorare l’attività digitale dei figli, almeno in tenera età. Neanche il più ferreo controllo, tuttavia, potrebbe eliminare completamente la possibilità che ci si imbatta in contenuti spiacevoli o, addirittura, pericolosi.
La tecnologia
Allora è a questo che siamo condannati? A crescere nuove generazioni di phone addicted, di star del web, di influencer? No, questo non è che uno dei possibili sviluppi, a mio avviso uno degli scenari peggiori, ma di certo non l’unico. Per allargare lo sguardo basta considerare non tanto le conseguenze che Internet sta producendo in questo momento storico, ma le originarie caratteristiche del World Wide Web – che non è certo nato per indurre bambini a strigersi cinture intorno al collo.
Quella che abbiamo a nostra disposizione è una dimensione parallela, un mondo di possibilità che meno di un secolo fa sarebbero state considerate fantascienza. I social stessi non sono così male, se considerati nel loro significato originario: social networks, reti sociali che mettono in comunicazione persone ai poli opposti del pianeta, che diffondono informazioni, che creano relazioni.
Non è colpa dei social se non possono controllare attivamente l’età di ognuno dei miliardi di utenti registrati sulla piattaforma; non è colpa dei genitori se non sanno tenere i figli lontani dalla tecnologia; e non è neanche colpa della tecnologia stessa, che è solo uno strumento inerte nelle mani di chi ne fa uso. E allora, di chi è la colpa?
Gli utenti
L’unico attore che non abbiamo ancora preso in considerazione sono gli utenti stessi, le persone virtuali che si aggirano nei meandri degli account e dei post, e che in prima persona producono e condividono contenuti.
Forse, allora, è colpa loro, che non hanno la testa per capire cosa è un gioco e cosa non lo è; che non riescono a elaborare la differenza tra imitare un balletto e un’azione mortale.
Allora è colpa dei bambini, che se hanno l’età per allacciare una cintura dovrebbero anche avere ormai sviluppato un discreto senso critico.
Ancora una volta, come possiamo anche lontanamente prendere in considerazione questa alternativa? No, non è colpa degli utenti, o almeno non di quelli più giovani, i protagonisti del nostro ragionamento. Al contrario, loro non sono che le vittime, condannate a crescere in un mondo di insidie sia fuori che dentro allo schermo. Se non si può dare confidenza all’uomo che offre le caramelle al parco giochi, ancora meno ci si può fidare di quello che commenta il tuo video: dietro alla foto profilo con i gattini si potrebbe nascondere un’intera organizzazione criminale. E allora, ancora una volta, di chi è la colpa?
Colpa di tutti e di nessuno
Non vi aspettate che io abbia una risposta. Non so di chi sia la colpa, e probabilmente non lo voglio neanche sapere, perché non è questa la domanda giusta da porsi. A dire la verità, non bisogna proprio porsi nessuna domanda.
Perciò, smettiamola di rimproverare i genitori per aver regalato un cellulare a una bambina; smettiamola di invocare la chiusura dei social; smettiamola di accusare gli influencer di produrre contenuti “devianti”. Finiamola di scaricare la colpa sugli altri, perché sappiamo tutti benissimo che in questo modo non facciamo altro che alleggerire la nostra coscienza.
Al contrario, pensiamo a noi stessi: siamo gli unici a poter fare qualcosa. Perché prima ancora che i social plasmino le nostre vite, siamo noi a plasmare i social. Quindi iniziamo a preoccuparci quando un amico condivide con noi una delle suddette challenge; insegniamo ai nostri figli che non c’è bisogno di provare la propria resistenza a nessuno per essere forti; istruiamo i nostri genitori su come distinguere le fake news dalla vera informazione.
Cerchiamo di sfruttare al meglio queste reti sociali, che possono aiutarci a catturare una marea di pesci, ma nelle quali possiamo anche rimanere impigliati. Molto semplicemente, apriamo gli occhi non per giudicare, ma per aiutare.
Clarice Agostini
(In copertina Cristian Dina da Pexels)