Internet e i social network stanno diventando luoghi politici oltre che personali e i primi fatti di cronaca del 2021 li hanno visti protagonisti. Tra un cinguettio e un post siamo tutti liberi di dire la nostra, ma quali sono le conseguenze? E le responsabilità?
La presa di posizione delle Big tech
Il 9 gennaio Twitter ha deciso di sospendere per 24 ore l’account ufficiale di Donald Trump mentre Facebook (e quindi anche Instagram) lo ha bloccato per “un tempo indefinito e per almeno le prossime due settimane”. Il provvedimento, da qualcuno definito tardivo, è arrivato dopo la pubblicazione di contenuti che incitavano alla violenza e giustificavano l’attacco al Congresso avvenuto a Washington da parte di un gruppo di supporters di Trump in protesta all’esito delle elezioni che hanno visto Biden vincitore.
In seguito alle limitazioni, Trump ha deciso di spostare il proprio account su Parler, un social poco diffuso ma noto tra i suoi sostenitori e le personalità vicine alla frangia più autoritaria di destra per le sue politiche di utilizzo che consentono una maggiore diffusione di contenuti violenti.
A rincarare la dose, nei giorni scorsi, Apple e Google Play (i due app store più diffusi) hanno deciso di rimuovere l’app e impedirne il download, mentre il 10 gennaio Amazon (che ospita i server di Parler) ha annunciato l’interruzione della fornitura del servizio.
Di fronte a questi recentissimi fatti, l’opinione pubblica ha riesumato un tema molto attuale: la responsabilità (sociale, politica e democratica) dei social nel dibattito pubblico.
Il fenomeno Trump
Nonostante le nostre piattaforme si siano riempite solo in questi giorni di commenti, articoli e post al riguardo, il problema dei contenuti dei social è vecchio tanto quanto la loro esistenza.
Nel caso specifico di Trump, volendo dare un po’ di numeri, nel giugno scorso era stato sospeso il suo account Twitch (social di proprietà di Jeff Bezos) per incitamento all’odio, e Reddit aveva chiuso circa 2.000 community legate all’ex Presidente degli Stati Uniti.
Twitter e Facebook sono spesso stati, legittimamente, rimproverati nel corso degli ultimi quattro anni di aver permesso a Trump di diffondere fake news, incitazioni all’odio (hate speech) e di utilizzare i social come mezzo di propaganda. D’altronde, ci siamo abituati tutti alle continue provocazioni nei cinguettii dell’ex-Presidente che suscitavano l’indignazione degli avversari politici e l’ovazione del suo elettorato.
Da un punto di vista puramente tecnico, il prodotto social era impeccabile e capace di tenere migliaia di persone, tra seguaci e giornalisti, in attesa di una notifica: le fake news (irremovibili tramite algoritmi, passabili per “interpretazioni” o “mezze verità”) e i discorsi propagandistici (che hanno per soggetto un “noi” indefinito e rassicurante). Insomma, che lo si odiasse o lo si amasse, i suoi contenuti hanno tenuto sempre più persone col naso incollato allo schermo ed è esattamente questo che genera profitto sui social: la nostra attenzione, il nostro tempo.
Sarà per questo che mai nulla è stato fatto (se non mettere qualche banner, facilmente ignorabile, che riportavano il pericolo di fake news o fonti non affidabili)? In favore di un buon traffico di utenti?
La cara libertà d’espressione
Se da una parte una limitazione dell’utilizzo viene considerata lecita da chi ha a cuore la purezza delle piattaforme social e da chi non tollera più anni di violenze, razzismo e falsità; dall’altra, in molti si sono appellati alla libertà d’espressione. Il primo emendamento della Costituzione statunitense difende proprio questo diritto e una parte dell’opinione pubblica non si spiega come delle società private possano escludere dal dibattito pubblico una voce che è la rappresentazione di un elettorato, nonché ex Presidente democraticamente eletto.
Senza scomodare il Paradosso della Tolleranza di Popper, bisogna prendere atto del fatto che il nuovo luogo del confronto politico siano i social e perciò questi spazi virtuali esigano caratteristiche democratiche come la pluralità, il rispetto e la tolleranza.
Società private possono “censurare” qualcuno dalle piattaforme di confronto? Legalmente sì, almeno negli States dove la sezione 230 del Communication Decency Act prevede che i social non siano legalmente responsabili per i contenuti diffusi dai propri utenti; questo vuol dire che nessuno può citarli in giudizio per l’oscuramento, la rimozione o la sospensione di account o post in caso di violazione delle loro policy. La stessa legislazione ha subito una richiesta di modifica, attualmente al vaglio del Congresso, proprio da parte di Trump, all’inasprirsi dei rapporti con il mondo dei social.
È giusto l’oscuramento di Trump? Le risposte sono molte e differenti, ma va considerato il contesto pericoloso in cui i contenuti in questione si sono diffusi e la gravità del fatto, tenendo conto della carica politica, dell’importanza degli Usa e di molto altro. Per il resto, ognuno faccia appello alla propria coscienza, ricordandosi che, volendo, gli account si possono bloccare a vicenda e nessuno grida al pericolo di censura.
Meglio tardi che mai
Tralasciando la legittimità, legale o morale, di questi ultimi fatti, viene spontaneo considerare effettivamente tardivi questi provvedimenti. Proviamo a pensare a quanti contenuti violenti e discriminatori, che incitavano l’odio, pratiche autolesioniste, il razzismo o il bullismo, abbiamo visto sui social; per non parlare di contenuti diffusi senza il consenso delle persone coinvolte e dei reati annessi e connessi.
Per quanto i social possano fare bene e unire persone e famiglie, non stiamo parlando di un paradiso digitale: sono luoghi che influenzano il pensiero collettivo, la percezione della realtà e il processo democratico. È arrivato il momento che chi li ha creati smetta di trarne solo profitto e inizi ad assumersi anche la responsabilità che comportano.
Banner, disclaimer e avvisi non sono sufficienti: per mantenere democratico un social serve un’etica digitale. Chiaramente questa deve essere l’intenzione anche delle società stesse che non sono vincolate in alcun modo ma giocano un ruolo molto importante di cui finora hanno cercato di ignorare le conseguenze.
Ora ci si chiede perché solo in questa occasione abbiano deciso di intervenire, quando sono anni che Trump ne spara una peggiore dell’altra, e punendo solo un utente quando come lui ce ne sono molti altri (uno su tutti, il caro Bolsonaro). È pur vero che molti post vengono quotidianamente rimossi, nell’ottica di ottimizzare i social contro fake news ed hate speech, ma non si può paragonare un presidente ad uno user qualsiasi.
Nel social che vorrei…
La censura su Internet sembra impossibile: per ogni account bloccato, ne verrà aperto uno nuovo su un altro social, sito o blog. Perciò, tacciare i big tech di accanimento è tecnicamente errato perché di fatto non è così. Ci troviamo però nel momento storico in cui un tentativo di golpe o, se preferite, un attacco al Congresso, è stato pianificato e organizzato tramite i social: esiste una responsabilità social sia da parte degli utenti che da parte delle società stesse. Prendersene carico è un imperativo morale.
Sui social siamo liberi di esprimerci ma dovremmo essere anche liberi dall’odio e dalla disinformazione, non solo quando la posta in palio è l’apparente democrazia degli Usa.
Sofia Bettari
(In copertina Tracy Le Blanc da Pexels)