Il 3 gennaio un membro della Camera dei Rappresentanti statunitense, Emanuel Cleaver, durante l’apertura del centodiciassettesimo Congresso degli Stati Uniti, ha terminato una preghiera con “Amen e Awoman”.
“Amen e Awoman”
L’espressione “Amen e Awoman” ha scatenato le polemiche sia di liberali, che la ritengono una scelta eccessiva, sia dei conservatori, che subito hanno gridato alla dittatura del gender e in certi casi addirittura al satanismo.
Per chi come me fino a due giorni fa non si era mai posto il problema, la parola amen deriva dall’ebraico; significa “e così sia”, “proprio così” e fa parte della liturgia cristiana, in conclusione delle preghiere. Non ha assolutamente nulla a che vedere con la parola inglese “men”, “uomini”, nel caso qualcuno avesse dei dubbi.
Questa scelta fa ancora più scalpore per il fatto che arriva dopo all’introduzione di nuove regole proposte dalla Rappresentante della Camera, Nancy Pelosi, in base alle quali verrebbe vietato l’uso di termini genere-specifici come “madre, padre, fratello, sorella” in favore di parole neutre, per rispettare tutte le identità di genere. Non sapendo se Cleaver l’abbia fatto per ignoranza, per un tentativo di supporto o leggera critica verso Pelosi, ci tenevo a dire due parole sugli effetti che una situazione simile può provocare.
Restii ai cambiamenti
È fondamentale avere sempre un linguaggio il più inclusivo possibile, non solo per rispetto verso le persone, ma anche per una questione di forma mentis. È stato dimostrato, infatti, come espressioni diverse provochino reazioni istintive differenti nelle persone che leggono o ascoltano, recuperando preconcezioni già presenti nel cervello. Se sul volantino di una conferenza si scrive “rivolto ai lavoratori”, o “rivolto a lavoratori e lavoratrici”, o ancora “rivolto alle persone che lavorano”, si proiettano immagini diverse sulla natura della conferenza e, statisticamente, si avranno numeri diversi nelle persone che vi attenderanno.
Detto questo, quando si fa uso di un qualcosa di ancora relativamente nuovo e controverso, si porta l’attenzione non solo su di sé, ma sull’intero movimento che si è battuto per esso, in questo caso il movimento femminista. La gente ricerca sicurezza e conferme delle proprie opinioni, per questo siamo spesso restii ai cambiamenti. Di conseguenza, se vediamo un qualcosa che conferma un nostro parere, o semplicemente si avvicina ad una preconcezione, in ogni caso questo andrà a rafforzare l’immagine di quell’oggetto che ho in mente e sarà sempre più difficile sradicarla.
Faccio un esempio pratico per essere più chiara: immaginiamo che io non abbia mai assaggiato il formaggio ed un giorno un mio amico mi racconti di aver avuto problemi digestivi dopo averne mangiato uno. Automaticamente sarò più propensa a pensare che i latticini non facciano bene, no? Se a questo punto vedessi qualcuno vomitare dopo aver mangiato una mozzarella, anche se i due eventi non si rivelassero correlati (ad esempio, perché la persona in questione stava male già prima), si rafforzerà in me l’idea che i formaggi siano pericolosi e passerà più tempo prima che io ne mangi uno.
La visione di un outsider
Infine, stare attenti all’immagine che si ha di un movimento è ancora più importante se si tratta di un gruppo di cui non si è membri. Facendo Cleaver parte della maggioranza, in questo caso rappresentata da uomini cisgender, a lui fa poca differenza che il modo di parlare diventi inclusivo oppure no, tuttavia impatta molto le persone che, idealmente, avrebbe voluto supportare.
Mi limito a sperare che questo episodio diventi un esempio per chiunque detenga un privilegio, ogniqualvolta si trovasse in situazioni che influiranno sulle vite di chi la fortuna purtroppo non ha di non venir toccato da qualcosa.
Alice Buselli
(In copertina Emanuel Cleaver, da wsav.com)
“Amen e Awoman” è un articolo di Voci, una rubrica a cura di Elettra Dòmini.
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